Sono tornati gli itagliani. Viva Monti, Monti vaffanculo

Mario Monti ha pestato una merda. Perché va bene tutto: le tasse, le accise, l’abuso della parola equità. Fino a ieri è stato un primo ministro contestato da parecchi, apprezzato però da parecchi altri. Uno che, però (almeno così mi sembra) aveva se non altro restituito un certo decoro, anche nel modo di relazionarsi. Sia lui con gli altri che gli altri con lui.

Poi, appunto, ha pestato una merda. Ha parlato (male) del calcio. Con queste parole, che ricopio dal blog del giornalista Alessio Pediglieri:

E’ particolarmente triste e fa rabbrividire quando il mondo dello sport, che dovrebbe esprimere i valori più alti, si rivela un concentrato di fattori deprecabili. In questi anni abbiamo assistito a fenomeni indegni. Bisognerebbe sospendere le partite per almeno 2 o 3 anni.

Non sto facendo una proposta e men che meno una proposta che viene dal governo, ma è un desiderio che qualche volta io, che pure sono stato molto appassionato di calcio tanti anni fa, dentro di me sento: se per due o tre anni per caso non gioverebbe molto alla maturazione di noi cittadini italiani una totale sospensione di questo gioco. Trovo inammissibile, e me ne sono occupato anche quando svolgevo il ruolo di commissario europeo, che vengano usati soldi pubblici per ripianare i debiti delle società di calcio.

Abbiamo assistito di recente a un invisibile ricatto pieno di omertà, con giocatori che si sono inginocchiati di fronte a chissà quali minacce da parte di poteri occulti. Uno spettacolo spaventoso sul quale è necessario un approfondimento”.

Di fronte a questo, che trovo francamente condivisibile, ho trovato sgarbate parecchie reazioni. Ma mi sembra soprattutto di cogliere un filo rosso che le lega tutte: una specie di “Fatti i cazzi tuoi”. Il calcio non è affare di Mario Monti. Il calcio non si può criticare se non dal suo interno, per poi autoassolversi puntualmente (e in qualche caso è successo anche adesso, nel pieno del casino per il “caso calcio scommesse”: per fare un esempio, vogliamo parlare della “conferenza stampa” della Juventus senza domande dai giornalisti?).

Questo, per intenderci, non è un comportamento proprio solo al mondo del calcio, in particolare italiano. Così come il mondo della politica spesso pretende di processarsi (e assolversi) da solo, spesso lo fa anche il mondo dello sport. Qualche ricorso, qualche ammenda, e via così, talvolta con la promessa “solenne” di fare i bravi d’ora in poi. Quindi Monti “si deve vergognare, è indegno e ignorante” (Maurizio Zamparini, #1 del Palermo), “è giusto due volte al giorno come un orologio fermo” (Massimo Cellino, #1 del Cagliari), andava “stimato fino a ieri, almeno” (Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport), ecc. ecc.

Peraltro (con riferimento all’editoriale di oggi), umilmente, mi sentirei di segnalare al direttore che “calcio scommesse” e lockout NBA non sono proprio la stessa cosa, come non lo sono Mario Monti (commissario, de facto) e Barack Obama (presidente regolarmente eletto). Anche perché la NBA (e lo sport professionistico americano in generale) rappresenta un modello economico che non ha proprio nulla a che vedere con lo sport professionistico europeo. Un misurato Enrico Preziosi (#1 del Genoa), invece, chiede di vivere senza governo, come contropartita, visto che a suo giudizio i governanti non sanno fare il proprio lavoro.

Tutto questo per quelle parole, lette sopra, che contengono una (evidente e garbata) provocazione. L’Italia, si dice, è un paese in mano alle lobby, al corporativismo. Il calcio, che si divide sulla qualsiasi in maniera esasperata, andando in blocco contro Mario Monti ce lo ha dimostrato ancora una volta.

Pietro

(Io e) Steve Kerr su Spurs-Thunder

Ho fatto colazione guardandomi gara 2 della serie tra San Antonio Spurs e Oklahoma City Thunder, vinta dai primi 120-111 e quindi ora avanti 2-0 nella serie che potrebbe portarli alla quinta finale NBA in tredici anni.

In due partite abbiamo già avuto dei momenti da “instant classic”: all’ormai celebre time-out di Gregg Popovich in gara 1 (“I want some nasty!”), ne è seguito un altro nel secondo episodio della sfida altrettanto colorito (“It’s a big boy game!”); Manu Ginobili ha messo a segno la sua prima partita da 25+ punti della stagione proprio per segnare il punto dell’1-0 e ha replicato con un’altra performance di alto livello questa notte; Tony Parker si è preso il cazziatone del suo coach sul +16 in gara 2 e in una serata da 16/21 al tiro e 8 assist (!), Tim Duncan ha schiacciato in testa a Serge Ibaka il 29 maggio 2012 (credo che il riferimento temporale sia sufficiente per rendere l’idea), Tiago Splitter è stato messo a dura prova dall’hack-a-Splitter organizzato da OKC nel terzo quarto.

In tutto ciò Scott Brooks deve già chiedersi: “Che altro mi posso inventare per battere gli Spurs?” Il coach dei Thunder ha già provato il quintetto con Durant “quattro” tattico in gara 1 (Ibaka fuori negli ultimi 16′), ma non solo non ha avuto l’attacco che voleva, ha pure lacrimato in difesa sul pick and roll dei texani (rivedere la statistica “points in the paint”); la sua squadra ha smesso di essere monotematica tra gara 1 e gara 2, e bata vedere il rendimento di James Harden nella seconda sfida, quando ha preso i tiri da fuori anzichè schiantarsi contro i muri a ripetizione; il tentativo di “hack-a-Splitter è riuscito per levare ritmo agli Spurs, ma non è stato sufficiente; se non vinci con 88 punti e 30/54 al tiro di Durant-Westbrook-Harden quando vinci?

Il problema più grosso, al momento, sembra essere legato a Ibaka: gli Spurs sulla carta dovrebbero soffrirlo come nessuna altra squadra, eppure finora lo hanno levato dalla serie: in attacco non incide, in difesa meno di quanto potrebbe. Certo i rimbalzi offensivi di OKC (soprattutto nei primi due quarti di gara 2) sono un segnale positivo per i Thunder, che però devono porre rimedio alla meravigliosa esecuzione di San Antonio, che a lungo ha tirato meno ma molto meglio, anche come situazioni.

In telecronaca, Steve Kerr ha riassunto così la situazione di questa serie: “I Thunder hanno già provato di tutto, a questo punto devono buttarla sulla rissa, perchè giocando a basket perdono“.

Per quanto visto finora, sono d’accordo con lui.

Pietro

Dunque avevo pronosticato… (male) E ora…

Allora, avevo detto:

Siena-Varese 3-0. Palo, gol.
Serie finita 3-1, con una bella soddisfazione per i varesini che poco di più avrebbero potuto fare, anche contro una versione di Siena che mi entusiasma molto meno delle precedenti.

Sassari-Bologna 1-3. Palla in tribuna. Risate di scherno.
Serie finita 3-0, anche se i tiri decisivi di Diener (gara-2) e Vanuzzo (gara-3) mi hanno fatto ritenere di non essere poi così lontano dalla verità. Tipo “ah però se non entrava quel tiro”. E però se mia nonna aveva le ruote era una carriola, siamo sempre lì.

Milano-Venezia 3-0. Rete! Rete! Rete! (cit.)
Serie finita effettivamente 3-0. Coach Mazzon ha detto che non gli è piaciuto l’arbitraggio, e la sua Venezia è sata a un passo dal vincere sia gara-2 che (soprattutto) gara-3. Vabbé, mi prendo l’unico “punto” realizzato su quattro, a prescindere dalla forma.

Cantù-Pesaro 3-2. Traversa. Amarezza.
Serie finita 3-2 ma per Pesaro, e l’amarezza è solo quella di non aver beccato il pronostico. Questo risultato però conforta la mia idea di una Cantù comunque troppo corta (accorciata, meglio, dalla sfiga) per rappresentare poi una minaccia per Milano, avendo due partite in più in corpo rispetto all’EA7.

Quindi mi tocca rifare i pronostici, almeno in parte.

Avevo Siena-Bologna 3-1 e Milano-Cantù 3-1.

Direi che posso correggere un Siena-Sassari 3-0 (perché comunque Siena mi sembra molto più forte e organizzata) e un Milano-Pesaro 3-1 (perché Milano è più forte, più profonda e più tutto, ma in singola serata Pesaro può battere – e ha battuto – tutti).

La finale? Confermo un Siena-Milano 2-4, non essendo stata “toccata” questa potenziale sfida.

Ma perché vedo favorita Milano?

Non solo per una questione fisica (sono tanti, grossi, atletici, in forma e più freschi rispetto ai veterani di Siena).

Dall’inizio della stagione sostengo che questa sia una squadra non solo forte, ma molto forte. Comprendendo anche il tagliato Nicholas, Milano aveva in quintetto due campioni d’Europa in carica, un finalista di Eurolega, un playmaker arrivato a due minuti dall’ultima Final Four e un’ala piccola che ha fatto la semifinale e vinto scudetto e Coppa Italia con Siena (concetto già espresso a più riprese, ma vale la pena ricordarlo).

Ha avuto Gallinari per un po’ (e poi non è che l’abbia “perso”, lui ha giustamente onorato il suo contratto con Denver), si è rinforzata prendendo il miglior italiano disponibile sul mercato (Gentile), e un altro esterno scelto espressamente dal coach (Bremer, che poi s’è fatto male). Uno squadrone, insomma, contando che ci sono anche Giachetti (cresciuto piano piano), Mancinelli, Radosevic, Melli, Rocca.

Uno squadrone che ha preso forma dopo quell’orrendo mese di gennaio, e forse grazie anche all’arrabbiatura successiva ai due confronti con Siena (quello dei “5 secondi di Facchini” in Coppa Italia e quello di campionato, la prima partita “vera” giocata da Milano a Siena da anni a questa parte).

Milano è cresciuta, le altre sono calate. Siena ha sbagliato i conti estivi non tenendosi Hairston, ciccando la scelta Summers e poi prendendo Rakocevic che a livello di ruolo non c’entra assolutamente nulla. E poi Kaukenas, e poi altri guai fisici. Cantù sul più bello ha perso Micov e Shermadini (e aveva già perso Scekic), e chiunque sostenga che queste assenze non abbiano un peso sull’uscita ai quarti di finale della Bennet (e pure sulla perdita del secondo posto in classifica) o non capisce di basket o è semplicemente fazioso, con tutto il rispetto per la (meritata) vittoria di Pesaro.

Cosa manca dunque all’EA7 per vincere? A mio avviso niente (posto che l’unico punto davvero debole rispetto a Siena è il cambio del playmaker: tra Zisis e Giachetti non c’è storia, e non è poco), se non – forse – la consapevolezza di poterlo fare sul serio. La voglia c’è. Ma finora nessuno ha mai vinto due partite contro la Siena di Pianigiani in una singola serie di playoff. Figurarsi quattro. Per riuscirci, prima di tutto, serve immaginazione, serve la visione della vittoria, ora che (a differenza degli anni passati) l’Olimpia ha il materiale per vincere.

Pietro

Vent’anni fa

Ero appena andato a casa di un amico, e suo padre aveva la televisione accesa.

Ricordo alcuni particolari: il canale sintonizzato (Canale 5), la grafica del TG5 con la foto di Giovanni Falcone e sotto la scritta “UCCISO”.

Quando poco tempo dopo hanno ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta, ero al mare.

Un altro amico. Una domanda scema: “Sì, ma come lo hanno ammazzato?“. Aveva importanza?

Sì, ne aveva, almeno per me.

Due bombe così, così vicine, mi hanno messo addosso un’angoscia e una tristezza dalle quali non mi sono mai liberato.

Non credo che accadrà mai, e non credo di essere l’unico a sentire tutto questo.

Il ragionamento stupido, da ragazzino, era semplice: per sparare con la pistola, o col mitra, prendi la mira. Una bomba è per tutti. Pure per me, o per chiunque altro.

Una bomba significa che non si fanno prigionieri, che nessuno è innocente, che non esistono persone che non appartengano a una guerra che non finisce mai.

Per questo quelle bombe hanno ferito anche me, e credo milioni di persone.

La cosa più triste è pensare che quelle incredibili esplosioni avrebbero almeno dovuto insegnare il valore dell’educazione, della pacatezza, del rispetto, anche del silenzio.

Non è andata così.

Pietro

Basket: a quando la scissione?

Dopo la famosa “aria rancida” di cui ha parlato Sergio Scariolo ai microfoni di Radio24, dopo le dichiarazioni del suo presidente (quello di Milano, per chi non seguisse) Livio Proli al Corriere della Sera, che hanno indotto il procuratore federale Alabiso a convocare entrambi il 26 maggio, è arrivato anche il presidente di Casale Monferrato (e de “Il Sole 24 ore Spa”) Giancarlo Cerutti su Repubblica.it.

In queste ultime due interviste vi sono due dichiarazioni di particolare rilevanza, per me: una di Proli e l’altra di Cerutti.

Il primo, alla domanda di Roberto De Ponti sulle proposte (mancate) dell’Olimpia Milano in Legabasket ha risposto così: “In un mondo cosi apatico non ho mai espresso una mezza idea, perche sarebbe annegata nella palude. Anzi, avrebbero detto: qual è il suo vero fine? Io poi non capisco di basket…”. Niente male.

Il secondo dice a Stefano Valenti: “I problemi delle società vanno affrontati in maniera più professionale e strutturata. Nell’interesse stesso del movimento del basket è fondamentale che tutti accettino regole chiare e precise. Che poi ci sarebbero pure. Va inquadrato ancora meglio il sistema dei controlli, economici e finanziari. Se non è incombenza della Lega, allora che la Lega se ne faccia promotrice verso la Federazione affinché le regole siano severe e rispettate. Ed i controlli effettuati in tempi rapidi. E la Lega li supervisioni nell’interesse dei suoi soci. Quel documento è stato condiviso da Cantù, Varese, Treviso, Cremona e Venezia”.

Ora, quando la FIBA propose la SuproLeague generò una reazione furiosa dei top team europei, che si scatenarono e crearono una nuova Eurolega, con una governance del tutto diversa (con un uomo forte al comando, Jordi Bertomeu). Non si può dire che il prodotto non piaccia, anche se soffre del fatto di dover accogliere per forza tante realtà diverse, con problemi, situazioni fiscali, di eleggibilità dei giocatori del tutto differenti tra loro in partenza. Difficile omologare tutto questo, ma l’Eurolega ULEB ha ormai concluso la sua dodicesima edizione, e l’aspetto più positivo è probabilmente la ricerca continua del proprio perfezionamento: dalle norme amministrative, alla gestione dei calendari, alle variazioni del format.

Dunque, se questo sistema italiano che fa capo alla Legabasket è veramente “un mondo apatico”, “una palude”, e fa dire a Ceruttti “se le nostre aziende fossero gestite allo stesso modo, non oso immaginare“, perché i migliori imprenditori, i più importanti personaggi coinvolti nel basket italiano non decidono di uscire, di creare un movimento alternativo, di imporre loro delle regole nuove, certe, sicure, con l’obiettivo (vero, stavolta) dello sviluppo di questo sport?

Io, personalmente, mi sono disamorato del basket italiano non da oggi: non è nemmeno corretto scoprire nel 2012 che ci sono società che non pagano, quando da anni (e anni, e anni) ormai abbiamo notizia di situazioni di gravi criticità, e tanti club ci hanno lasciato le penne (il che vuol dire anche che ci sono giocatori, allenatori e agenti che hanno perso dei soldi, e persone che hanno perso il lavoro). Non riesco per questo ad appassionarmi a “#imieiplayoff”, perché non basta un hashtag su Twitter per dimenticarsi che questo sport non interessa ai media, e di conseguenza non interessa a nessuno (il caso La7 è lì a dimostrarlo). Ok, non a nessuno: diciamo a pochissima gente su scala nazionale, tolte le “appartenenze” locali per mere questioni di tifo.

Io dico: Proli (Armani, cioé), Cerutti, ma anche quei club che secondo il patròn di Casale condividono il suo punto di vista, invece di andare alle assemblee di Lega dove club che a momenti non hanno occhi per piangere deliberano l’allungamento dei quarti e delle semifinali al meglio delle sette partite, aprite un nuovo ufficio, una nuova Lega, diventate dei nuovi interlocutori. Che succederebbe? Vi accuserebbero di essere disfattisti? Tanto meglio. Se una cosa non funziona, non va bene, se non c’è crisi ma agonia (sempre citando Cerutti), molto ma molto meglio disfarla. O no?

Pietro

Una testata e due tiri liberi. Zizou e Siska, ritirarsi a 34 anni

Ramunas Siskauskas, dunque, ha annunciato il suo ritiro dal basket. Lo ha fatto a 34 anni, alla stessa età di Zinedine Zidane, che giocava sempre a palla ma con i piedi.

In entrambi i casi, comunque, trattasi di personaggi destinati a fare la storia dei loro rispettivi sport, e in entrambi i casi la loro uscita di scena è stata plateale quanto disgraziata. Di come “Zizou” (ex stella di Bordeaux, Juventus e Real Madrid, capopopolo per la Nazionale francese) abbia chiuso la carriera calcistica ne abbiamo tutti memoria: ha usato (male) la testa.

Invece che per segnare, come fece per due volte nella finale contro il Brasile del 1998, decise di sfruttarne la potenza per mettere giù Marco Materazzi e lasciare i suoi in 10, senza guida, verso i calci di rigore di un’altra finale mondiale. Per Ramunas il discorso è un pò diverso. C’entrano le emozioni ma lui non è tipo da “colpi di testa”.

Pur non essendo stata la sua ultima partita in assoluto, la finale di Eurolega persa dal CSKA contro l’Olympiacos contiene l’immagine che accompagnerà per un pò Siskauskas, per anni e anni la miglior ala piccola disponibile in questo continente. Quei due tiri liberi sbagliati a 9.7 secondi dalla fine, evento rarissimo ma che curiosamente era già avvenuto in questa stagione proprio contro l’Olympiacos, al Pireo, in una partita di Top 16.

Solo che a Istanbul, in finale, grazie a quei due errori i greci hanno avuto in mano il match ball per chiudere la rimonta da -19, e con Printezis non lo hanno sbagliato. Brutto, davvero, associare “Siska” a un’immagine perdente, che non gli appartiene affatto. I suoi titoli e la sua storia sono lì a dimostrarlo.

Smette di giocare, dunque, uno dei più eleganti realizzatori degli ultimi anni. Uno che abbiamo potuto apprezzare – per fortuna – anche in Italia (sua prima meta straniera dopo il Lietuvos Rytas Vilnius) grazie alla Benetton Treviso, prima di vederlo con Panathinaikos e CSKA, appunto.

Lascia un pezzo di cuore di tutti gli appassionati di basket che si sono innamorati della splendida Lituania. Per fortuna Sarunas Jasikevicius è ancora dei nostri. Non sono ancora pronto ad accettare anche il suo ritiro, sebbene sia più “vecchio” di due anni rispetto a Siskauskas. No, quello proprio non lo sopporterei.

Pietro

Momenti che avrei voluto raccontare

Mi hanno sempre affascinato i perdenti, o per meglio dire gli sconfitti. Quelli che stanno dalla parte sbagliata del destino, o di un poster. A volte sono loro che hanno alle spalle le storie migliori, o comunque quelli che sul medesimo evento sportivo potrebbero avere cose più intense, emozioni più forti da raccontare. Punto di vista del tutto personale, ovviamente. Ma a me affascina il momento decisivo, e la prima cosa che cerco di guardare è la faccia di quella, di quello o di quelli a cui va male. Ecco, a braccio, una piccola lista di “highlights” che avrei voluto poter raccontare insieme a chi li ha vissuti, col registratore acceso.

Trevor Berbick mentre cerca di trovare l’equilibrio prima del knock-out, nel match perso contro Mike Tyson (che quella sera diventò per la prima volta campione del mondo).

Gigi Di Biagio che colpisce la traversa tirando l’ultimo rigore di Francia-Italia al Mondiali del 1998.

Le sensazioni dell’intera nazionale francese di basket dopo l’incredibile tiro di Diamantidis che ha permesso alla Grecia di completare la rimonta nell’ultimo minuto della semifinale degli Europei 2005.

Bryon Russell che prova a marcare Micheal Jordan: non ho bisogno di spiegare altro. Se non conoscete l’episodio a cui mi riferisco è solo colpa vostra.

Sergei Liakhovich che crolla a pochi secondi dalla fine della sua difesa del titolo WBO dei pesi massimi contro Shannon Briggs. Avrebbe vinto ai punti.

Il nervosismo di Martina Hingis nella finale persa a “Roland Garros” nel 1999 contro Steffi Graf. Anzi, non era nervosa: proprio incazzata nera. E al pubblico francese non pareva vero di poterla fischiare in libertà.

I tiri liberi di Nick Anderson in gara-1 della Finale NBA tra Orlando Magic e Houston Rockets, nel 1995.

Ex aequo, Europei 2000: Van Der Sar che prova a salvare l’Olanda sciagurata ai rigori in semifinale contro l’Italia, e Toldo che deve arrendersi al 94′ della finale contro la Francia dopo quell’impresa miracolosa. Prima di farlo ancora nei supplementari, ma la partita “vera” era finita.

David Robinson che non riesce a venire a capo di Hakeem Olajuwon nella Finale della Western Conference 1995 tra San Antonio Spurs e Houston Rockets.

Roger Federer e la finale di “Roland Garros” contro Rafael Nadal nel 2011. Quei primi due set, porca miseria…

Pietro

Kobe Bryant e gli sfondamenti

Estratti di alcune dichiarazioni di Kobe Bryant sull’argomento “taking charges”. Ossia, incassare (provocare) falli di sfondamento.

“Abbiamo un paio di giocatori che prendono sfondamenti, ma per la maggior parte se ne occupava uno che adesso gioca nell’Oklahoma [Derek Fisher, agli Oklahoma City Thunder]. Io non prendo sfondamenti. Metta World Peace nemmeno. Steve Blake ogni tanto, ma di solito cerchiamo tutti di stare in piedi e giocare. Ho imparato dai miei predecessori: Pippen si è rovinato la schiena prendendo sfondamenti, Bird uguale. Io non prendo sfondamenti. Michael Jordan non ne ha preso uno, ed è stato bene per tutta la carriera, la stessa cosa è successa con Magic Johnson. Forse ho preso uno sfondamento nelle ultime due stagioni, per caso”.

Kobe Bryant*
Los Angeles Lakers
16 maggio 2012 

*: incluso 9 volte nella All-Defensive First Team, 2 volte nella All-Defensive Second Team

Rianimiamo @Beppaccio. Ecco #imieiplayoff scudetto

Visto che l’inutile bracket dei playoff scudetto prima o poi tornerà a chiedermelo (stiamo parlando del senese Giuseppe Nigro, giornalista rinomato soprattutto per il suo amore per la tagliata), gioco d’anticipo e vi propongo i pronostici sui playoff che ci faranno sapere il nome del team nuovo (?) campione d’Italia di basket.

Come per la Coppa Italia vado solo d’istinto. Solo come viene. Solo numeri.

Non gufo e non tifo nessuno, ma se pensarlo vi fa stare meglio non ve lo impedisco. Io sono sempre per la serenità.

Si comincia il 17 maggio con Siena-Varese e Sassari-Bologna, dopo undici giusti giorni di riposo (per il calendario, consultare il sito ufficiale della Legabasket). C’erano le Final Four di Eurolega e data la massiccia partecipazione italica non si poteva certo giocare. Mica puoi giocare senza Lamonica e Sahin ad arbitrare, no?

Quarti di finale

(1) Siena – (8) Varese 3-0

(4) Sassari – (5) Bologna 1-3

(2) Milano – (7) Venezia 3-0

(3) Cantù – (6) Pesaro 3-2

Semifinali

Siena – Bologna 3-1

Milano – Cantù 3-1

And the winner is…

Siena – Milano 2-4

Pietro

Sul “fallimento” di Luis Enrique

Mi colpisce chi ha commentato, commenta e commenterà la scelta di Luis Enrique di lasciare la Roma elogiandone la dignità di fronte al “fallimento”.

Io credo che mai come nel calcio – e mai come in Italia – si abusi di questa parola, che è molto pesante, e credo anche offensiva.

Cosa avrebbe fallito Luis Enrique? Ha perso qualche partita più del dovuto o ne ha vinta qualcuna meno del dovuto, può essere.

Che aveva in testa Luis Enrique? Fare quello per cui era stato chiamato: provare a costruire una squadra a sua immagine e somiglianza, esercizio che nella sua professione (ed è la SUA professione) richiede tempo, anche tanto, soprattutto in un contesto ambientale e tecnico in cui doveva iniettare delle idee molto diverse da quelle che solitamente si era abituati a seguire. Vale il concetto per i giocatori, per i tifosi, per i media, per tutti quanti. Vale anche per lui.

“Fallimento”. Ogni sconfitta è un fallimento. Un rigore pro è un “favore”, un rigore contro è un “torto”. Vincere con un tiro in porta è “carattere”. Perdere colpendo due traverse “mancanza di cinismo”. Così si pensa, di norma, quando si parla di calcio. Che non è un gioco, non è un business, non è uno sport: per molti è ancora una valvola di sfogo. Sono ancora troppi coloro che pensano che siccome ognuno ha i suoi problemi dal lunedì al sabato, la domenica ha pure il diritto di scaricarli addosso ai calciatori (più spesso che agli altri sportivi), che sono viziati, strapagati, stronzi. Ma solo quando perdono, altrimenti caroselli.

Arrivare settimi con una squadra da settimo posto (perché la Roma questo è, al netto delle prestazioni individuali di molti dei suoi giocatori e non solamente per lacune tattiche che comunque andavano colmate) non è un “fallimento”. E non lo era per la A.S. Roma, che avrebbe confermato l’allenatore alla guida della squadra. Non lo era per i suoi giocatori, che hanno speso più di una parola a favore di Luis Enrique.

Il quale ha anche una carriera da grande giocatore alle spalle, con oltre 150 partite giocate nel Real Madrid e oltre 200 nel Barcellona, per non parlare della sua ultra decennale esperienza con la nazionale spagnola. Un uomo degno di rispetto a prescindere. Poi siccome s’è dimesso, allora rispettiamolo di più, perché uno che lascia perché si ritiene (a torto o a ragione) inadeguato alla causa è in effetti una sorta di marziano, almeno per quello che ci raccontano le cronache degli ultimi anni.

Mi dispiace sinceramente che Luis Enrique non alleni più la Roma, ma altrettanto sinceramente il rispetto se lo era guadagnato anche prima. Riconoscerglielo solo adesso mi sembra un esercizio piuttosto futile. Dare del “fallito” (lo è chi compie un “fallimento”) a uno così, per il lavoro che ha cercato di portare avanti, è un ulteriore invito alle società italiane a continuare  con la vergognosa (e infruttuosa, nella stragrande maggioranza dei casi) tendenza a mandare via seri professionisti sulla base di criteri assolutamente soggettivi e imponderabili. Perché anche il risultato è soggettivo e imponderabile: scindere più spesso il concetto di “prestazione” da quello di “punteggio”, in uno sport come il calcio governato dal caos (talvolta anche in senso buono), aiuterebbe anche a utilizzare meglio le parole. Una sconfitta rimane tale. Un fallimento può mettere un marchio. Di sicuro non è quello che merita di avere addosso il Sig. Luis Enrique Martínez García.

Pietro