Troppe squadre? Verso un “nuovo” sport

Dalle parole di Andrea Agnelli all’assemblea generale dell’#ECA, riportate da Tuttosport (link: http://bit.ly/3qsj6in), qualche spunto di riflessione sul mondo sportivo.

Parole molto interessanti del presidente dell’ECA Andrea Agnelli, che sostiene ragionamenti già svolti da altri sport (basket soprattutto) a livello continentale, ma che dovrebbero indurre lo sport professionistico a una riflessione complessiva.

Punti salienti:

  • Troppe squadre che diluiscono competitività e risorse
  • Una analisi (o un tentativo di) dei tifosi di sport odierni, a partire da ciò che vogliono vedere e da come lo guardano
  • Il leitmotiv della sostenibilità economica: se non si guarda anche al profitto, lo sport professionistico non può continuare a esistere a lungo (prima nel piccolo, poi nel più grande dei sistemi)

Aggiungo io:

  • Affidare il modello di sport alla nostalgia (dalla costruzione degli stadi, alla comunicazione, alla capacità delle leghe di essere tali e ragionare d’insieme, all’annosa questione televisiva… ce ne sarebbe da discutere per mesi) è sbagliato come riguardo qualsiasi argomento. Ogni storia va rispettata ma la storia è dinamica, ce lo insegnano i libri di testo.
  • Il riferimento alle troppe squadre, all’interesse che viene meno su troppe partite prive di reale valore competitivo deve interessare anche le competizioni nazionali (che nell’intendimento di Agnelli sono superate): la Serie A a 20 squadre non è verosimile, come la Serie B. Più squadre ci sono, meno risorse si dividono e più la qualità media cala, inevitabilmente.
  • Andrea Agnelli sui tifosi: “Dobbiamo anzitutto mettere i tifosi al centro: il sistema attuale non è fatto per i tifosi moderni. Le ricerche dicono che almeno un terzo di loro seguono almeno due squadre; il 10 per cento segue i giocatori, non i club. Molto probabilmente ci sono troppe partite che non sono competitive, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Non possiamo dare per scontati i tifosi, o rischiamo di perderli“. Agnelli si riferisce a una nuova tipologia di tifosi: meno ultras (per semplificare), più appassionati in senso lato. Persone meno disponibili a seguire un intero campionato o un’intera partita, molto più disponibili a guardare per ore una playlist su un giocatore o di giocate spettacolari, oltre che disponibili a pagare per ciò che desiderano vedere (e basta).

Nel mio piccolo:

  • Lavoro nel basket o attorno al basket da molti anni: è arrivato davvero il momento di stringere, di selezionare all’ingresso i club che ambiscono a far parte del professionismo, di regolamentare meglio l’attività dilettantistica e di ridurre il numero di squadre che vogliono farne parte. Perché ridurre non significa vietare, significa ottimizzare le risorse economiche e umane (dirigenti, allenatori, giocatori, arbitri, impianti) e fare lo sport di livello professionistico laddove si è attrezzati in modo professionale.
  • Coloro che invece non possono/vogliono fare questo, si dedichino con maggiore attenzione all’aspetto formativo di ciascuna categoria, per garantire palestre/campi, allenatori/istruttori, dirigenti più qualificati a gestire lo sport di base.
  • Sullo sport di base: affrontare in modo deciso il problema dell’educazione fisica scolastica. Ora più che mai non è pensabile essere obbligati a pagare per l’avviamento allo sport e la scoperta delle varie discipline. Come si scopre di essere più portati per la fisica anziché per la filosofia, la scuola deve aiutare i bambini/ragazzi a scoprire se possono essere più abili nel calcio o nella corsa.

Nessuna ricetta segreta, solo una base di idee su cui ragionare per chi vorrà.

Pietro

L’ultimo giorno

Il 23 febbraio 2020 è stato l’ultimo giorno di una vita normale.

In trasferta con la Junior Casale, a Torino, giocando in extremis l’ultima partita “a porte aperte”. Alle 12, perché già tre ore dopo il Torino, nella stessa città ma nel calcio, lo avrebbe fatto a porte chiuse.

Erano giorni particolari, surreali.

Sapevamo, non sapevamo niente in realtà.

Avevamo bisogno di sapere perché avevamo risposte da dare a uomini, donne, ragazze e ragazzi, famiglie, prima ancora che dirigenti, allenatori, giocatori, staff.

Prima ancora che a noi stessi.

La frammentazione delle informazioni, dalle strumentalizzazioni politiche, alla confusione indotta da troppi pareri (di medici e soprattutto non), dalla semplice paura dell’ignoto.

C’era quella partita. Allora ci sembrava importante. Era un test, si giocava per agganciare il primo posto in classifica.

Oggi non conta più niente e non per la retorica, ma perché quella stagione iniziata tra mille difficoltà e grandi speranze non è mai finita.

Finì quella partita e non sapevamo cosa sarebbe accaduto.

Avremmo dovuto giocare la domenica successiva. Poi quella dopo. Poi sospensione. Poi chiusura.

Intorno a noi, cambiava tutto.

Dove si comprano le mascherine? Non si trova l’Amuchina, cosa posso comprare?

Ma poi, quale mascherina? E il disinfettante funziona davvero?

Riprenderemo. No. Forse sì. Invece no. Eh ma il calcio. Eh, non c’entra, chi ha potuto permetterselo economicamente ha creato le condizioni per riprendere. Per gli altri, non c’era storia, non c’era il modo. I tamponi? Impossibile pensare, allora, di farseli ogni settimana.

Nel frattempo un mondo si è fermato. Disgregato. Era il nostro.

Un gruppo di persone, con uno scopo comune. Svanito.

Nemmeno il modo, il tempo di un saluto tutti insieme.

Le videochiamate, le chat, via via sempre meno.

Dispersi.

E così molte altre cose. Nella solitudine delle nostre case.

Le ore dell’annuncio del primo lockdown. Chiamare i cari per dirsi: che facciamo? Facciamo i bravi, ecco che facciamo. Aspettiamo, pazientiamo. Soffriamo. Pensiamo. Troppo, a volte.

Un anno così, passato velocemente tra mille annunci, decisioni definitive che non lo erano, soluzioni che non lo erano, svolte che non lo erano.

Siamo ancora qui. Purtroppo non tutti, perché questa bestia che ha investito il mondo ne ha portati via e ne porta tanti con sé. Svaniti, nella memoria collettiva, non di chi quei lutti li ha sofferti, li soffre, li teme.

Siamo ancora qui, dopo le cantilene, i “celafaremo”, gli slogan pro e anti qualsiasi cosa.

Siamo ancora qui e il mondo di prima non è tornato ancora. Tornerà? Forse, forse no. Non abbiamo il pieno controllo, ancora, di questo inferno quotidiano che ci mette a confronto ogni giorno con il nostro specchio.

Tutto quello che volevo dire è che un anno fa, poco prima delle 14, è finita una partita. Suonata una sirena. Su tante, troppe cose della nostra vita.

E tutto quello che vorremmo è giocare un’altra partita. Una come quella. Ci manca persino quello che ci manda a fare in culo. Quelli, anzi, ce n’erano sempre. Mi mancate. Non vedo l’ora di rivedervi.

Pietro

Perché vedevamo poco (contiene sport, radio, internet e occhi chiusi)

“Good”.

Una parola sola, una parola semplice.

Raccontava il tiro da tre punti di Robert Horry che sanciva la vittoria per 100-99 per i Los Angeles Lakers nella finale della Western Conference contro i Sacramento Kings.

Una rimonta da -24 coronata da quel tiro, per nulla costruito e del tutto fortuito nello sviluppo di una azione che aveva precedentemente visto sbagliare quelli che in quel momento erano il numero 1 e il numero 2 del Gioco (in quale ordine scegliete voi), ovvero Kobe Bryant in avvicinamento e Shaquille O’Neal dopo il rimbalzo d’attacco.

La smanacciata di un grande ex Lakers come Vlade Divac spedisce la palla proprio in direzione di. Horry e… “Good”. Senza questo episodio, probabilmente, non avremmo vissuto il “three-peat” gialloviola e magari avremmo visto vincere un titolo a una delle più entusiasmanti squadre dei primi anni di questo millennio, i Kings allenati da Rick Adelman con gente come Mike Bibby, Doug Christie, Predrag Stojakovic, Chris Webber e, appunto, Divac. Non lo sapremo mai.

Torniamo però al punto di prima, quel “Good”.

Non lo troverete in nessuna telecronaca perché a pronunciarla non fu un tele bensì un radiocronista. Già, e noi come lo sappiamo?

Lo sappiamo perché quella sera ero a Milano, per la precisione in via Deruta, insieme a Gianmaria Vacirca, Massimo Pisa e altri inquilini più o meno fissi del grande open space che ospitava varie redazioni e personaggi che poi, a vario titolo, avrebbero avuto un ruolo nel mondo dell’informazione sportiva.

Quella sera, prima di ogni “League Pass”, molto prima che arrivassero la fibra ottica e il 5G, internet offriva comunque dei modi ragionevoli per seguire quasi tutti gli eventi sportivi. Il play-by-play, che oggi appare del tutto obsoleto, era qualcosa di rivoluzionario. Allora, sempre in quegli uffici milanesi, si era stati in grado di produrre le dirette in streaming del campionato di Serie A di basket, irradiate “worldwide” e gratuitamente grazie ai diritti acquisiti da MP Web. Eravamo, però, in un momento in cui ancora troppa gente viaggiava a 56k e dunque non era in grado di fruire di quel prodotto.

Non c’erano i social network (allora si aggiornava il proprio nome di MSN Messenger o ICQ anziché lo stato di Facebook), e perfino la NBA doveva ancora esplorare la propria capacità di produrre contenuti multimediali e trasmetterli online.

Esistevano già le pay-tv e le dirette, certo, ma naturalmente c’era sempre qualche altra partita che si voleva vedere più di quella “in catalogo”.

NBA.com, però, offriva a chi soffriva (in senso clinico, probabilmente) una soluzione per alleviare la mancanza di immagini in diretta, se proprio non si poteva fare a meno di aspettare gli highlights e se la partita non era prevista dall’offerta televisiva (come era il caso di quel Lakers-Kings).

Sul sito ufficiale della Lega, infatti, era possibile accedere alle radiocronache di tutte le partite. Straordinario. Immergersi in quel mondo non già attraverso le immagini ma grazie alle voci, ai suoni, al rumore.

No, non era la stessa cosa e no, non è un momento di nostalgia. Anzi, si trattava solo di un palliativo per la fame che avevamo di vedere quella partita, un problema che oggi per fortuna non sussiste.

Quelle radiocronache le ho usate anche per lavoro, perché – pensai – se nessuno può vedere le partite, quanti ce ne saranno che passano la notte ad ascoltarle per poi scriverci sopra? Non so se la risposta fosse superiore a uno, una parte di me se lo augura e un’altra parte spera di no, perché dopo tutto a ognuno di noi fa piacere pensare di essere stati gli unici almeno in qualcosa.

A quelle notti ho ripensato questa mattina, mentre le raccontavo a un ragazzo che per un puro fatto anagrafico non può aver conosciuto l’era dei pionieri di internet e di certo non poteva sapere come si stesse nei primi anni ’90, la domenica sera, mentre si aspettavano con ansia i risultati e il commento alla giornata del campionato di Serie B2 di basket dalla voce del “signor Lazzaro”, storico commentatore per Radio Vela ad Agrigento (e a preallertare gli ascoltatori sull’inizio del programma veniva proposto sempre lo stesso pezzo: “Let’s Groove” degli Earth Wind & Fire) sapendo che non c’era altro modo di avere quelle notizie in modo più veloce.

Non era un modo né più giusto, né più umano, né più romantico: era semplicemente il modo più avanzato – per i tempi di allora – di avere le informazioni nel più breve tempo possibile.

Suona irreale in un’epoca in cui puoi guardare una partita Under 14 sul proprio cellulare (chiedo scusa, smartphone).

Sta di fatto che avendo avuto come abitudine la radio (e ancora grazie al Signor Lazzaro) per seguire la squadra per la quale si faceva il tifo, pareva naturale affidarsi a quel mezzo anche per seguire eventi di ben altro livello, oltre che essere una sfida personale (non quella con l’insonnia, persa da sempre, bensì quella con la comprensione dell’inglese).

Oggi la radio esiste ancora, mentre la qualità (nonché la quantità) dello streaming ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza.

I nostalgici diranno che forse era meglio prima, quando le cose le immaginavi prima di vederle (o a volte le immaginavi e basta), e tutto ciò avrebbe stimolato fantasia, creatività, originalità di pensiero.

Oggi abbiamo le immagini, sempre, tutte, per cui siamo messi di fronte ai fatti non opinabili: dunque, meno immaginazione.

Oppure, forse, la straordinaria opportunità di utilizzare il fatto per argomentare, alimentare la dialettica, il confronto su basi oggettive, tenersi il sentimento per quello che vale e per quello che è, vale a dire una fondamentale componente umana che in nessun caso deve assumere valore “scientifico”.

Troppo complicato? Forse, ma sto dormendo poco e questa frase è uscita un pò così. Vorrà dire qualcosa, o forse no.

Magari provate a leggerla, anzi, a chiudere gli occhi e farvela leggere. Se siete sufficientemente romantici vi sembrerà di ascoltare una radio e questo pensiero apparirà perfino magico.

Se invece appartenete a quelli che si avvicinano al cinismo come stile di vita, probabilmente finirete a prendervi in giro da soli prima che lo faccia la persona che avete costretto a leggervi questa roba mentre osservava i vostri occhi chiusi e l’espressione contrita alla ricerca di un qualche significato mistico.

Pietro

La parola del giorno: fisiologia

[Credit: il presidente della FIP Gianni Petrucci]

«Recalcati in diverse interviste lamentava ritardi nei pagamenti degli stipendi da parte di Montegranaro. Siamo andati a controllare e abbiamo visto che si trattava di arretrati di due mesi, fisiologici in qualsiasi sport. E stato esagerato». Parole riportate dal quotidiano Tuttosport.

Carlo Recalcati, che da commissario tecnico ha ottenuto con la Nazionale soltanto un bronzo Europeo e un argento Olimpico, lamenta da mesi la difficilissima situazione che sta attraversando la sua Sutor Montegranaro. Che, a oggi, non può più contare su un giocatore americano, essendosene giustamente andati tutti avendo trovato ingaggi altrove.

Tutto questo però è spiegabile con una parola:

fisiologia [fi-sio-lo-gì-a] s.f.
1 Scienza che studia le funzioni degli esseri animali e vegetali
2 fig. Funzionamento, attività normale di un organo, di un organismo, di un sistema: la f. dell’amministrazione pubblica
• sec. XVII

(dizionari.corriere.it)

In effetti è parecchio fisiologico pagare in ritardo, e mica solo gli atleti. Ma del resto, come ha detto il presidente della Legabasket Valentino Renzi durante una conferenza stampa lo scorso febbraio, il basket si regge da sempre sul volontariato, rispondendo a una domanda sulla qualità delle condizioni di lavoro nei club della Serie A di basket. Dove tanta gente lavora per passione, il che è evidentemente una colpa.

Pietro

Il dito e la luna (la wildcard e l’Italia)

Niente riflessioni sulla sponsorizzazione dei creatori di Angry Birds alla Finlandia. Parliamo di campo e di merito.

Ancora una volta ci sentiamo defraudati. Perché è tutto ingiusto. Sempre colpa di qualcuno. Ovviamente, per quanto ci riguarda, meritavamo sempre qualcosa in più di ciò che abbiamo ottenuto. Dal “questi siamo” di un c.t. Pianigiani quasi rassegnato durante le amichevoli estive al sentimento di scandalo per la Finlandia ammessa ai Mondiali tramite wild card. Una corsa dalla quale la nostra Federazione si era ritirata.

All’Italia del basket sono bastate sei vittorie (una sola dopo il girone iniziale) per pensare di essere tornata tra le grandi. Ottavo posto. Dopo un diciassettesimo due anni prima e addirittura una non qualificazione per l’edizione degli Europei del 2009, più due assenze consecutive ai giochi e una ai Mondiali. In sei partite, avremmo lavato via tutta questa roba qui.

Più tutte le storture del sistema basket in Italia: la ridicola copertura televisiva, la totale assenza di comunicazione (del prodotto, del brand, del gioco, dei personaggi, aggiungete a piacere), l’arroganza di pensare di avere ancora un campionato che sposta (ci sono ancora quelli che nel valutare/bocciare un giocatore dicono “eh ma non ha mai giocato in Italia”. Ah beh). Ormai si spostano solo pedine di piccolo-medio livello, che magari diventeranno bravi giocatori altrove.

L’Italia ha vissuto un biennio di gloria (2003 e 2004), e si è urlato in maniera unanime al miracolo. Questo perché, evidentemente, anche all’interno del movimento si pensava che la qualità media (o potenziale) del gruppo allora a disposizione di Recalcati non fosse tale da giustificare un bronzo europeo e un argento olimpico. Si andò oltre i limiti, siamo stati noi a voler vedere regole laddove c’erano soltanto (o quasi) delle magnifiche eccezioni.

Vorrei modestamente suggerire di pensare ad altro: la nuova presidenza di Lega, come tornare in televisione, farsi un giro per i siti delle altre leghe per crearne uno al passo coi tempi, studiare eventi effettivamente appassionanti, avere dei palazzetti funzionali (e dove si può lavorare addirittura con una connessione internet funzionante, visto che non è sempre così), stabilire regole certe e controlli finanziari che rendano credibili tutte le partite. Anche se si tratterà di spendere ancora meno di oggi, ma che siano soldi veri e non contratti firmati buoni per lodi futuri.

Questi, intanto, i risultati delle nazionali di Italia e Finlandia nelle competizioni maggiori dal 2005 a oggi: c’è davvero tutta sta gran differenza?

Europei 2005: Italia 9°, Finlandia non c’è

Mondiali 2006: Italia 9°, Finlandia non c’è

Europei 2007: Italia 9°, Finlandia non c’è

Olimpiadi 2008: assenti entrambe

Europei 2009: Italia e Finlandia assenti entrambe

Mondiali 2010: assenti entrambe

Europei 2011: Italia 17°, Finlandia 9°

Olimpiadi 2012: assenti entrambe

Europei 2013: Italia 8°, Finlandia 9°

Pietro

Qualche nota sulla regular season @Euroleague @OlimpiaEA7Mi #ifeeldevotion

VEDI ANCHE: il calendario delle Top 16

– Milano, per la prima volta nella storia di Euroleague Basketball, è l’unica formazione italiana qualificatasi nelle Top 16. Il suo record di 5-5 lo considero da 6 in pagella. In casa ha fatto quelllo che doveva, 1-4 in trasferta con questo panorama non bene. A Kaunas e Strasburgo poteva e doveva vincere. No alla logica sparagnina. Siena ha interrotto una striscia di 6 apparizioni consecutive alle Top 16. In due occasioni era stata anche l’unica formazione italiana a rappresentare la nostra pallacanestro a quello stadio della competizione (stagione 2009-10 e 2012-13).

Keith Langford ha chiuso la regular season al 9° posto per valutazione media (18.2). Il suo futuro compagno di squadra Daniel Hackett 3° con 19.4. Langford è anche 4° per punti segnati (16.2).

– Sempre Keith Langford è il miglior assistman della squadra con 3.1: l’EA7 Emporio Armani è però al 21° posto su 24 (13.5) e al 15° su 16 tra le qualificate al secondo turno (peggio solo il Partizan, 24° assoluto, con 11.8).

– A livello di ratio assist/palle perse, Milano è ancora al 20° posto (106.3%, concede agli avversari il 125%), mentre è al 14° tra le squadre di Top 16 (peggio Kaunas, 23° con 87.3%, e Partizan, 24° con 72.4%). La media generale è 123.4%.

– L’attacco vende i biglietti e la difesa vince le partite. Il Real Madrid attacca e difende, visto che in percentuale “reale” concede agli avversari il 41.6%. Milano concede il 49.1%: nessuno fa “meglio” tra le qualificate alle Top 16.

– Milano deve migliorare in furbizia e scelte di tiro: è al 4° posto per stoppate subite in media (con 3.5), il dato peggiore tra le qualificate alle Top 16.

– In attacco, una chiave per l’EA7 può essere quella di diminuire il numero di tiri da fuori e migliorare il dato ai tiri liberi, che è già buono: 8° posto per tentativi in media, con 17.8. Migliorabilissima la percentuale (10° posto con 74.7%). Il 30.3% da fuori è destinato probabilmente a migliorare con Kristjan Kangur in campo con continuità, ma dipende tutto dal ritmo con cui si muove la palla. Big issue.

– Curtis Jerrells (31), Alessandro Gentile (35), David Moss (37) e Keith Langford (54) hanno preso il 68.8% dei tiri da tre della squadra, con una percentuale realizzativa del 31.8%. Cambiare.

– Palle perse: su 127 totali, 48 portano la firma di Alessandro Gentile e Keith Langford (37.7%).

– Miglioramenti attesi da Gentile: selezione di tiro, più tiri liberi (ha subito 3.6 falli a partita) e maggiore percentuale (troppo poco 68.8% per lui).

– Milano è al 20° posto su 24 per percentuale “reale” con 45.1%. Anche qui è al 15° su 16 tra le qualificate alle Top 16 (Galatasaray 23° con 43%).

Nicolò Melli è il miglior rimbalzista della squadra con 6.2 (16° assoluto e 26° su 40 minuti).

– Motivi per venire al Forum a vedere le Top 16: Zelimir Obradovic e il suo Fenerbahçe Ulker Istanbul (con Bo McCalebb, Emir Preldzic, Bojan Bogdanovic), i bi-campioni in carica dell’Olympiacos Pireo di Vassilis Spanoulis, il Panathinaikos Atene di Dimitris Diamantidis, il Barcellona di Juan Carlos Navarro e di uno che mi fa impazzire (Kostas Papanikolaou), il Laboral Kutxa Vitoria perché che ve lo dico a fa’, l’Anadolu Efes Istanbul perché ormai sono amici, l’Unicaja Malaja dell’interessante coach Joan Plaza che porta in dote il figlio di Sabonis.

– Milano ha affrontato nel proprio girone di regular season il Real Madrid, una delle due formazioni a vincere tutte e 10 le partite. L’altra, l’Olympiacos, arriva tra poche settimane. Trattasi delle ultime due finaliste, non un caso.

– Avremo il piacere di rivedere al Mediolanum Forum di Assago gli ex milanesi Sergio Scariolo (allenatore Laboral Kutxa Vitoria) e i giocatori Antonis Fotsis e Jonas Maciulis (entrambi al Panathinaikos Atene). Con Scariolo ci sarà anche Walter Hodge, playmaker americano trattato da Milano nella passata stagione, ma non ceduto dai polacchi dello Zielona Gora.

Pietro

Compiti per l’Olimpia: rispettare Bamberg. E vincere.

Potrebbe non bastare dire che il Brose Baskets Bamberg ha vinto gli ultimi quattro campionati tedeschi. Dalle nostre parti è ancora molto lo snobismo nei confronti del basket in Germania, ma basterebbe dare un’occhiata ai bellissimi palazzetti, al seguito di un pubblico sempre più appassionato (ed educato), il sito web della Lega e delle società, il contorno di attività e intrattenimento pre, durante e post partita.

La Germania, per qualità e serietà di organizzazione, ha nettamente superato l’Italia. Per questo che un club come quello di Bamberg, cittadina di 70.000 abitanti dell’Alta Franconia, merita il massimo rispetto. Perché all’interno di un sistema virtuoso e funzionante ha saputo crescere per creare un ciclo vincente, non solo entro i confini domestici. Nella passata stagione si è qualificata per la prima volta alle Top 16 (così come l’altra formazione tedesca, l’Alba Berlino: 2-1 per “loro”, dunque, nel 2012-13), e seppur perdendo tutte le 14 gare della seconda fase ha sempre dimostrato di poter essere competitiva (7 di queste sconfitte sono arrivate con uno scarto compreso tra 1 e 3 punti).

Dalla passata stagione sono rimasti in otto giocatori, oltre all’allenatore Chris Fleming, in carica dal 2008 e costantemente cresciuto insieme alla sua squadra. Tra di loro ci sono esterni di qualità come lo slovacco Anton Gavel (4/4 da tre e 4 assist nella vittoria contro l’Anadolu Efes Istanbul) e il 32enne americano Casey Jacobsen: un passato da specialista NBA (tra Phoenix e New Orleans dal 2002 al 2005) e tornato al Bamberg nel 2009 dopo una prima esperienza nella stagione 2006-07. Nelle prime tre uscite in Eurolega ha tirato uno strepitoso 12/18 da fuori, se si scalda è una macchina.

Coach Luca Banchi ha studiato un piano per loro: creare le situazioni per attaccarli col pick and roll, quando non direttamente portando esterni fisici come Moss, Gentile e Langford spalle a canestro contro di loro e soprattutto contro l’altro esterno veterano della squadra, John Goldsberry (191 cm, quinta stagione a Bamberg, 5.7 assist in 18’ a partita in questa Eurolega). Il pick and roll non è esattamente un piano originale, visto che viene praticato a vario titolo ormai in quasi tutti gli schemi del mondo, ma l’importante è che i giocatori dell’Olimpia dimostrino voglia di battere il proprio uomo, creare vantaggi, squilibrare la difesa altrui. In una parola: personalità. Quella che al netto di infortuni e difficoltà oggettive è mancata nelle prime due trasferte europee (-39 tra Istanbul e Madrid), e che certamente bisognerà dimostrare davanti ai 6.800 della Stechert Arena, anche perché perdere, ritrovandosi 1-3 in classifica, costerebbe caro.

“Una volta avevamo un palazzetto molto piccolo e grezzo, con una sola tribuna”, raccontava Sven Schultze, che a Bamberg è nato 35 anni fa e ci ha debuttato come giocatore professionista, dal 1995 al 1998. Il futuro gli avrebbe riservato l’Olimpia targata Armani Jeans, con una finale scudetto e tanti tifosi conquistati col cuore e col mestiere (dal 2005 al 2007). Oggi, invece, Bamberg è “Freak City”, dove tutti, ma proprio tutti, sono pazzi per il basket.

Pietro

#OlimpiaMente anche qui e su Soundcloud

Puntata 2

Si parla della prima settimana di partite ufficiali e anche di EA7 Emporio Armani-Cimberio, nell’immediata vigilia del derby.

Un libro e un album: dopo Angelo Gigli, è il turno di Bruno Cerella.

Inoltre salutiamo vecchi e nuovi amici dell’Olimpia Milano con le nostre rubriche.

Ospiti: Toni Cappellari, Gianmaria Vacirca.

[#siamoquesti colpisce ancora] Grazie per lo spunto a @fabrianobasket e @theoriginalpoz

Ho letto una bella intervista a Gianmarco Pozzecco fatta da Stefano Valenti, sul sito della Lega Nazionale Pallacanestro. Ci sono alcuni passaggi che ritengo collegabili al pensiero espresso precedentemente in merito all’utilizzo dei giocatori italiani nei nostri campionati.

Dice coach (importante sottolinearlo) Pozzecco.

Su Di Bella che scende di categoria.

“Di Bella ha salvato Montegranaro. E’ gente che non gioca in A perché ci sono 5 stranieri che, in dollari, guadagnano meno. Non perché sono più forti”.

Su come vengono utilizzati i giocatori italiani.

“La differenza non la fanno i minuti giocati, ma il tipo di palloni che passa nelle loro mani. A Varese, Andrea Meneghin veniva prima degli stranieri. Oggi non accade più. Oggi solo Hackett ha questa considerazione, meritata. La quarta opzione di un attacco non saprà mai cos’è la pressione. E non farà mai quel salto di qualità. Qui l’italiano è la terza opzione. A volte anche la seconda. E vogliono viverla”.

E poi, attenzione, sui giovani. Lui ne ha, a Capo d’Orlando.

“Non so quanto giocherà Cefarelli. Come Laquintana o Ciribeni. Però hanno un ruolo. Avessi avuto sei visti, avrebbero chiuso il roster. Ma io dico che quelli dell’Under 20 dovrebbero giocare in A, non da noi. Però in questo Paese non s’avverte la necessità di interessarsi dei giovani, piace di più l’americano di 24 anni”.

Sul punto uno: sembra tutto chiarissimo. Se ci sono società di Serie A che iniziano il mercato dicendo di avere a disposizione un budget di 300.000 euro per la squadra, se abbiamo avuto una finalista scudetto con un milione di euro per la squadra, che ci si rivolga a giocatori meno costosi anche indipendentemente dal valore è appena ovvio.

Tutto ciò è evidentemente figlio di un sistema che annaspa, dove per troppo tempo si è scelto di abbassare l’asticella anziché tenerla dove avrebbe dovuto stare. A furia di abbassarla, ora si rade il suolo. A pagarne il conto sono gli atleti. Si può giocare una finale scudetto e non arrivare a 40 mila euro di ingaggio? Sì. Ma è giusto? Assolutamente no.

La vita dello sportivo è breve, bisogna ricordarselo. E se possono suonare scandalosi certi ingaggi che appartengono ad altri sport (o agli sport americani), di sicuro devono suonare scandalosi casi come questo. La Serie A è il massimo. E quando si arriva al massimo si deve poter ambire a guadagnare molto, specie se si richiede un livello di investimento personale e di efficienza molto elevato. Vale per tutte le professioni.

Sul punto due: su questo Poz ha ragione in gran parte (perché abbiamo già visto che per diversi giocatori non è così, la considerazione nei club ce l’hanno). L’esperienza non è allenarsi con gli americani e guardarli dalla panchina. L’esperienza non si fa a 22-23 anni. A quell’età sei già un giocatore, oppure no. L’esperienza è superare la strizza di avere in mano il pallone che vale la partita. E averlo il prima possibile, per superarla prima possibile, e per essere determinante in più partite possibili.

Poi, intendiamoci, avere il pallone in mano non significa solo tirarlo. Significa averlo nelle azioni decisive, anche per passarlo, per non perderlo sotto pressione, per tenerlo quando l’avversario ti carica come una sveglia e cercare di segnare subendo fallo. Cose che si devono imparare presto.

Per restare a Pozzecco, la prima stagione tra i professionisti in doppia cifra per punti è quella con la Baker Livorno: 10.7 in 18.1 minuti, a 21 anni. Ma se non ne avesse giocati 10.3 a partita già nel 1991-92 con la Rex Udine, forse non li avrebbe fatti. E oggi, mi ripeto, l’aspetto fisico/atletico è decisamente più importante di quanto non lo fosse allora. Serve gente che salti, che corra E che sappia tenere la palla in mano. Per segnare, palleggiare o passare. Di sicuro per non perderlo.

Sul punto tre: eh, ma allora? Se anche la squadra allenata da Gianmarco Pozzecco, medaglia d’argento olimpica, icona della nostra pallacanestro, fa questo (legittimo) ragionamento, da quale parte deve arrivare l’inversione di rotta? Poi è chiaro che la risposta al punto tre è contenuta in parte nel punto uno.

Molti stranieri costano poco, o accettano meno di alcuni italiani. Facile, ci sono molti più giocatori stranieri e le squadre sono sempre quelle. Le fette della torta sempre più sottili. Altrimenti detto, il mercato è spesso saturo. Quindi è chiaro che bisogna accettare questa concorrenza, se si vuole ragionare a livello economico.

Oppure, l’alternativa esiste, si fa con meno giocatori, da intendersi anche come cambiarne meno nell’arco di una stagione. Investendo su quelli che costano magari di più, ma che possono renderti anche di più sul medio-lungo periodo. Per fare questo, occorre anche saper accettare un concetto molto semplice: le scommesse sono belle perché si possono anche perdere. O, se preferite, vincere più tardi.

Pietro

PER DISCUTERE: Riflessioni, dopo la sirena, sul perché #siamoquesti

Nel periodo delle vittorie, durante la prima fase di Eurobasket per intenderci, è tornato di moda il refrain che vuole i nostri giocatori come poveri agnellini indifesi sacrificati per far giocare americani scarsi (o serbi, croati, sloveni, estoni, passaportati, fate voi).

Questo non è del tutto vero, anzi. Nel caso della Nazionale è assolutamente falso.

Il minutaggio complessivo belle gare giocate in Serie A (regular season+playoff) e NBA (regular season) dai giocatori della Nazionale. La media è 24.5.

– Aradori 26.1
– Gentile 23.5
– Rosselli 21.5
– Vitali 28.0
– Poeta 26.2
– Melli 17.6
– Belinelli 25.8
– Diener 33.9
– Cusin 14.6
– Datome 33.2
– Magro 10.9
– Cinciarini 32.8

I playmaker (Cinciarini 32.8, Diener 33.9, Poeta 26.2) sono quelli che mediamente hanno giocato di più. Vitali è un giocatore atipico, si può considerare playmaker: 28.0 minuti di media a Cremona.

Tra gli esterni, Gentile ha giocato 23.5 di media superando molti infortuni in una squadra dove aveva la concorrenza di Keith Langford e Malik Hairston. Aradori è stato un giocatore determinante per Cantù, con i suoi 26.1 minuti. Rosselli (21.5) ha dato un contributo di sostanza a Venezia, ma ovviamente non è un giocatore che ha nel suo passato l’altissimo livello, tantomeno europeo. E Belinelli ha giocato 25.8 minuti a partita nella NBA in una squadra da playoff.

I lunghi, in questa Nazionale, erano i giocatori numericamente più scarsi e quelli col minutaggio più ridotto. Melli era il cambio di Antonis Fotsis a Milano (17.6 minuti), anche se spesso veniva impiegato insieme al greco. Cusin ha chiuso con soli 14.6 minuti, ma è partito ininterrottamente in quintetto per le prime 18 giornate di Serie A. Poi ha avuto un calo. Magro, con i suoi 10.9 minuti, era il cambio del centro a Venezia, squadra non certo di vertice, e a questo livello è difficile da collocare.

Poi, non va dimenticato, ci sono gli assenti (media 24.7): Hackett (25.7), Gigli (27.2), Polonara (20.5), Mancinelli (14.0) e i due NBA Bargnani (28.7), Gallinari (32.5).

Giocare sotto ai 25 minuti di media non è un delitto. Nell’ultimo campionato solamente 26 giocatori hanno avuto una media di almeno 30 minuti in campo. Tra loro ci sono Travis Diener (2° con 33.9), Gigi Datome (5° con 33.1), Andrea Cinciarini (8° con 32.8), il fratello Daniele Cinciarini (9° con 32.3). Poi solo stranieri.

Questi numeri vogliono dire che è vero l’esatto contrario della tesi iniziale, e cioè che non è vero che gli italiani sono snobbati? No, non per forza. Ma vuol dire che quelli che possono giocare, giocano. Il problema si pone in precedenza. Per acquisire esperienza, per essere competitivi, devono giocare prima.

L’esempio di Datome è emblematico. Siena lo ha avuto per diverse stagioni, ma non ha mai giocato. Era giovane, vero, ma il talento lo si vedeva. Tecnico e atletico. E Siena era già una squadra molto forte, che poteva permettersi di dargli dei minuti, e non l’ha fatto.

Non è un’accusa a Siena, è una constatazione. I giocatori italiani giovani giocano poco, e questo perché molto spesso sono gli stessi allenatori a non ritenerli pronti. Spesso, peraltro, non lo sono davvero. Ma se non iniziano a giocare non lo saranno mai.

Milano ha due giocatori in Nazionale, di 21 e 22 anni. Bene. Gentile e Melli hanno storie diverse, avranno futuri diversi, e hanno avuto gestioni diverse. Comunque sia è importante (non solo per Milano) che questi ragazzi giochino partite importanti, che giochino l’Eurolega. Cantù ha fatto assaggiare l’Eurolega a Cinciarini nel 2011-12, a Cusin nell’ultima stagione, mentre Aradori l’aveva già fatto a Siena. Assaggiato solo, perché Pietro in Toscana non giocava molto, peraltro nella squadra del c.t. azzurro.

Quindi si pone un altro problema. Sull’esperienza l’abbiamo capito. Ma ci si mette in testa che questi ragazzi devono lavorare molto di più in tenera età soprattutto a livello fisico? A volte il confronto con altre nazionali giovanili di paesi con meno storia cestistica è impietoso. E anche a livello tecnico. Devono saper palleggiare, devono fare canestro quando tirano da liberi, devono avere almeno un movimento spalle a canestro, parlando solo di attacco. Sembrano cose scontate, non lo sono.

L’altro problema, allora, è proprio la qualità. I nostri giocatori hanno mercato all’estero? Sì? No? Questa per me è una domanda importante. Se sì, perché non ci vanno? In Italia molti club hanno problemi, fanno appelli, mancano i soldi, e si dice che gli stranieri sono favoriti. E allora perché restare? Per la maglia? Per un posto? Se invece non sono ricercati, perché? Non sono ritenuti di livello? Chiedono troppo?

Ad ogni modo, abbiamo diversi buoni giocatori che però hanno espresso (insieme alle loro qualità) molti limiti, in un contesto europeo. Limiti noti, limiti che hanno fatto dire a Pianigiani “Questi siamo” o #siamoquesti, come da hashtag.

Non sono 6 vittorie e 5 sconfitte che mi fanno cambiare opinione. Il basket italiano vive molti problemi. Mancano strutture dove allenarsi, soprattutto. Nei club professionistici (ma anche quelli “dilettantistici”, per modo di dire) dovrebbe essere la norma avere strutture adeguate a quello che OGGI significa competere nello sport professionistico. Sarà anche bella la retorica delle società-famiglia, delle nozze coi fichi secchi, e cose del genere.

La realtà è che bisogna adeguarsi a un mondo che è cambiato, e bisogna farlo in fretta. Le sconfitte in serie nella fase decisiva degli Europei hanno dimostrato, a mio avviso, che i giocatori italiani ci mettono quello che hanno. Ma quello che hanno non basta per sopperire alle tante, troppe problematiche che abbiamo.

Poi, 6 vittorie e 5 sconfitte non bastano per dimenticare cos’era la Nazionale al Torneo Acropolis ad agosto, non bastano per far dire al presidente Petrucci che il basket italiano tira e sta benone. Non è così, detto col dovuto rispetto.

Alessandro Gentile, classe 1992, in una intervista mi ha detto: “Il basket italiano si sta avviando verso la sua fine”. Ripeto, classe 1992. La vede dal campo, con meno fronzoli, non sempre sono d’accordo con lui ma ne rispetto l’essere schietto. E se la vede così un ragazzo destinato a vivere una grande carriera, che gioca in uno dei club più affidabili al mondo a livello economico, io mi farei venire almeno il dubbio che possa aver detto una cosa importante.

Pietro