Stella tra le Stelle

L’esperienza della Stella Azzurra Roma all’adidas Next Gen di Euroleague Basketball, raccontata da coach Germano D’Arcangeli.

Quarantotto ore.

Tanto serve per attraversare un mondo, anzi più di uno.

Tante ne dovevano bastare a ragazzi molto giovani, per alcuni contesti “troppo” giovani, ma se c’è qualcosa di indiscutibile nello sport – e non solo – è l’ineluttabilità del dover essere pronti all’ora X.

Niente scuse, niente proroghe, niente ritardi ammessi.

Tal giorno a tale ora, che lo si voglia o meno, si alza una palla a due e si deve essere pronti. O meglio, si dovrebbe, perché anche questa può essere una scelta. Se è vero che si può scegliere per sé, però, è altrettanto vero che non si può scegliere per gli altri. Soprattutto per gli avversari. Che non aspettano, a cui non importa sapere se tu sei pronto.

Nel mezzo di queste quarantotto ore, minuto più minuto meno, si incastra la chiacchierata che segue con Germano D’Arcangeli, allenatore, ispiratore e maître à penser della Stella Azzurra Roma.

Germano D’Arcangeli

Tra la finale della tappa di Istanbul dell’adidas Next Gen, la più importante competizione europea per club a livello giovanile che ha visto la Stella arrivare appunto al match conclusivo e cedere contro il Real Madrid di Matteo Spagnolo, e una partita di Serie A2 contro la capolista Unieuro Forlì.

Matteo Spagnolo, “stellino” anche lui, ma soprattutto una altissima espressione di talento tutto italiano emerso, però, all’interno di una delle più grandi istituzioni sportive del mondo. La “Casa Blanca”, là dove non esiste altra idea possibile se non quella di vincere e di farlo anche con un certo qual stile, rappresentando al meglio il lusso, le tradizioni e gli eccessi della borghesia sportiva.

Contro la Stella, Spagnolo (che ha già debuttato in Nazionale tra i grandi) ha messo insieme 22 punti con 8 rimbalzi e 4 assist, ma più dei numeri contano molte altre cose. Le lasciamo descrivere a D’Arcangeli, che certamente più di chi scrive ha cognizione di quel genere di talento: “Spagnolo mi ha addirittura emozionato”, dice. “Non devo presentare il giocatore, parlo piuttosto della persona, della libertà d’animo con cui l’ho visto stare in campo con quella ‘storia’ addosso, alla realizzazione di quello che ho sempre pensato fosse una persona seria. Da padre, quale sono, vedere questo mi dà una grande gioia: Matteo è un ragazzo che non se la tira, che ha forza d’animo, che ha fatto cose bellissime ma soprattutto ha sviluppato un modo straordinario di stare in campo, di gestire quel genere di situazione. Possiamo forse dire che è stato un pioniere di un certo modo di fare da parte nostra: rappresenta il fatto che si può uscire da questa provincia del basket, che si può pendere uno zainetto e andare ‘a fare a schiaffi’ tra quelli bravi. Vederlo il più bravo tra i bravi dà soddisfazione, al di là del basket è un figlio che tutti noi vorremmo avere: Matteo il mondo tra le sue mani, è una delle persone che potrà contribuire a cambiare questo nostro mondo”. In che modo? “Aiutandoci a superare il nostro modo di ragionare per luoghi comuni. In Italia parliamo di far giocare i giovani in continuazione, forse sarebbe il caso di pensare di meno e fare di più. Personalmente mi piacerebbe che lui e persone come lui, di questa qualità, possano aiutare tutti in questo senso, ognuna nel proprio ambito”.

Matteo Visintin contro Matteo Spagnolo

L’incontro con Spagnolo a Istanbul è stata certamente un’emozione, ma che si traduce in una situazione “win-win” per uno come D’Arcangeli. Ha portato la sua Stella in finale battendo Brno, Saragozza e i padroni di cassa dell’Anadolu Efes, potendo nuovamente sfidare un colosso come il Real guidato da un ragazzo che, appunto, ha la Stella come tappa importante della sua formazione. “Un’avventura molto speciale, in tempi di grandi restrizioni come questa. Siamo stati in una autentica bolla, in un hotel con accesso diretto al campo e una grande e molto rigorosa macchina organizzativa da parte dell’Efes, che non ha risparmiato di riprendere nessuno, nemmeno il sottoscritto in caso di minime distrazioni. Sono le stesse modalità usate per i campionati giovanili in Turchia”.

Si parla di basket, si parla in particolare di basket giovanile e sappiamo quanto male stia facendo la pandemia proprio ai ragazzi, allo sport che più di tutti si è fermato, picconando le fondamenta della socialità, del crescere insieme e dello sviluppo individuale. Colpi potenzialmente mortali quando si parla di atleti destinati all’alto livello o desiderosi di raggiungerlo. Tempo che non torna, in annate troppo speciali per poter essere rinviate. Tornare dunque a giocare una competizione di questo tipo (ma non solo quella, ci si ritorna dopo) non può essere stato “normale” per i ragazzi della Stella. D’Arcangeli: “Per i ragazzi è stato come dover imparare di nuovo ad andare in bicicletta, non perché fossimo caduti e dovessimo riprenderci dalla botta ma perché avevamo dovuto smettere di andarci per un anno. Come squadra abbiamo fatto delle buone cose, mai come questa volta ho visto grandi motivazioni nei ragazzi, occhioni di chi ha il bisogno di giocare, esprimersi e divertirsi, mettere il corpo addosso, difendere, essere intensi, fare e non pensare [un concetto ricorrente, questo, ndr]. A livello europeo si gioca una pallacanestro ‘intellettualmente onesta’, dove conta di più il talento e meno la tattica, dove la strategia che ti serve per sopravvivere anche in un campionato senior non vale più quando incontri accelerazioni, fisicità e letture di quel livello. Quando competi così in alto, ‘non la racconti’. Faccio un esempio, parlavamo di. Spagnolo: il suo talento è stato più importante delle strategie del Real contro la nostra intensità. Loro hanno difeso di atletismo puro, facendo la differenza conquistando alcuni possessi più di noi nel momento cruciale. Se i miei giocatori vogliono essere professionisti ed essere tra i primi in Europa devono mettere sul campo quel livello di energia, di atletismo, di capacità di leggere, capire il gioco, di stare in campo”.

La Stella Azzurra in campo a Istanbul

Il riferimento al campionato senior è ovviamente a quello di Serie A2 Old Wild West, che in questa stagione è tornato ad avere tra i suoi protagonisti proprio “quelli della Stella”. Una scelta costosa e strategicamente necessaria per fornire a giocatori anagraficamente molto giovani un contesto competitivo adeguato e “garantito” (quando solo pochi mesi fa non era nemmeno ipotizzabile l’attività agonistica giovanile, nemmeno di livello nazionale), insieme ad alcuni elementi più esperti (lo statunitense Steve Thompson, il croato Sandi Marcius, Roberto Rullo e il playmaker classe ’99 Lazar Nikolic). Ma quanto è utile la Serie A2, per confrontarsi poi a quel livello giovanile in Europa?

La risposta di D’Arcangeli è interessante: “In assoluto il nostro campionato è molto lontano dalla fisicità di Zalgiris o Real a livello giovanile. Non capita quasi mai di confrontarsi a quegli ‘strappi’, a quell’atletismo, a quella velocità di gambe, mani e pensiero. La A2, però, ti offre pressione, la tensione dell’importanza del risultato: queste partite aiutano aiutato i giocatori da questo punto di vista. I ragazzi hanno assorbito momenti di stress, normali per chi è ultimo in classifica, affrontando le partite sempre con un po’ di acqua alla gola. Questa esperienza si è vista a Istanbul: l’anno scorso, a Monaco, contro il Real Madrid ci siamo presentati con una squadra che aveva probabilmente più talento, ma ci siamo sciolti come neve al sole. La A2, quindi, è stata importante perché ha insegnato ai giocatori qualcosa non sapevano di dover sapere. Si sono trovati a dover agire anche contro i molti imprevisti, tra partite rinviate, infortuni, risultati e altro ancora. A Istanbul abbiamo giocato la gara d’esordio senza un 2.14 come Kevin Ndzie, fermato per complicazioni burocratiche all’ingresso in Turchia. I ragazzi non si sono scomposti, sono stati bravi a gestire questa cosa e pensare solo a giocare, trovando le alternative necessarie per competere. Questa cosa viene dal campionato di A2: la gestione dell’imprevisto, degli arbitri, del contenere le conseguenze di episodi che possono generare un parziale”.

Nicola Giordano in azione

Un gruppo di giocatori che ha fatto prova di maturità, per quel livello, che ha agito in maniera compatta pur essendo allenati e “allevati” alla capacità di esprimere individualmente il proprio potenziale, ad uscire dal perfezionistico concetto dell’esecuzione maniacale per abbracciare quello dell’iniziativa, della presa di rischi, e dunque di coscienza, che significa anche saper aspettare il proprio “turno”. “Tutti i ragazzi che reclutiamo conoscono all’inizio quello che è il loro percorso”, spiega il coach, “cerchiamo di essere più trasparenti possibili: tutti, quando arrivano, hanno un’idea del loro percorso, non abbiamo mai chiesto a nessuno di venire a giocare tanto per giocare, ma di venire qui a esibirsi. Alla Stella bisogna perdere ogni retaggio, occorre costruire un muro culturale rispetto a quello che è il concetto della squadra comunemente usato. Nella nostra squadra si parlano almeno tre lingue diverse oltre all’italiano, che però è la nostra lingua comune nel nostro vivere, allenarci e giocare insieme. Tra di loro non ci sono pezzi di un qualche puzzle, abbiamo ‘i cintura nera di penetrazione’ e ‘i cintura nera di tiro’, per fare un esempio, e si esibiscono facendo una cosa che gli piace. Anche l’egoismo, però, rientra in un perimetro, sapendo tutti di avere un traguardo da tagliare con un ordine: poi, naturalmente, a parità di talento si cerca la cosa più importante per vincere. A livello individuale possiamo dire che questo è stato il momento di Nicola Giordano (21 punti, 5 assist e 4 rimbalzi contro il Real per il classe 2003, inserito nel quintetto ideale del torneo), il prossimo anno sarà il ‘turno’ di un 2004, poi di un 2005. Quando portammo Spagnolo al Next Gen – tornando a lui – era di tre anni più piccolo, ha giocato di altri che si godevano il proprio momento a coronamento di un percorso. Giordano ha doti morali incredibili, capacità tecniche anche per spegnere un avversario: era convinto di fare bene e lo ha dimostrato, ha monetizzato il lavoro fatto per arrivare fino a queste partite. Se c’è un segreto, che non è un segreto, è rispettare il proprio talento con la costanza”.

Ma 48 ore dopo Istanbul c’è stata la gara con Forlì, una sconfitta, che ha ribadito quale sia l’orizzonte immediato della Stella Azzurra, ovvero competere per cercare di ottenere una salvezza nel secondo campionato nazionale. Perché come dice D’Arcangeli, “il tempo di crogiolarci al sole rispetto a quanto fatto in Turchia non lo abbiamo”.

Pietro

How Samardo Samuels (@OlimpiaEA7Mi) is growin’ up

When I met Samardo Samuels for the first time, earlier this season, I din’t know what to expect from this guy.

Of course, I knew about his past basketball experiences (including the NBA), but I really wanted to meet him to know what kind of guy he was.

Funny, this is the first word I would associate to him. Samardo Samuels is definitely a funny guy: he’s talkative, he definitely embraced the “fashion mode” living in Milan, he’s genuine and I’d say he’s a naive, candid big boy. A football addicted (soccer, for US readers), who once dreamt to play in the Premier League for a top English club, who pretends that he cried when Roberto Baggio missed the decisive penalty in the 1994 World Cup Final and now he’s crazy for AC Milan and Mario Balotelli.

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Everybody recognized from the very first minute how important he had to be for EA7 Emporio Armani Milan: starting the season he was the only “center”, as Angelo Gigli (then loaned to Reggio Emilia) and CJ Wallace (who’s more a PF but he’s got size) where struggling with injuries and/or fitness.

Even after the arrival of Gani Lawal, Samardo is still the only one low-post big man in the team, where he can work either with his body (especially in the Italian League) than with his soft touch. But, during the season he also had his troubles to deal with.

A few games in Israel last season can’t be enough to say that he arrived in Milan experienced enough to know how to be consistent any given day, for practice or games. He was facing Euroleague Basketball, and a big role in a top European team for the first time of his life.

Entering EA7 practice facility, he saw that sign that welcomes everybody is coming in: “If you’re not here to win, you are in the wrong place”. Well, this is just a sign. But it reminds to everybody how bad this team needs to win. Milan is desperate to lift a trophy since 18 years now. In 1996, the “then-called” Stefanel Milan won the Italian League and Cup, coached by Euro legend Bogdan Tanjevic, led on the court by stars like Nando Gentile (Alessandro’s father), Dejan Bodiroga, Rolando Blackman, Gregor Fucka and specialists like the sharp-shooter Flavio Portaluppi, who’s currently in charge of the general manager position.

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Not easy to face it, especially when the team that has dominated the last 7 years in Italy lost a lot of its power (Siena), and there are no more reliable title contender if we think it on a playoffs situation. Pick a team of your choice between Sassari, Siena, Rome and tell me who could beat Milan on a 7 games series, on paper. Yes, you know the answer.

That’s a big pressure, and everybody understood how much the team was feeling it during the quarterfinal series against Pistoia, a newcomer in the Beko Serie A League with a very short rotation: still, they pushed Milan to the limit, even leading by 1 at the halftime in game-5. In that meanwhile, EA7 was dealing with struggles on their game, arguing with referees, losing that confidence that led them to with the last 19 games of the regular season (19-0 since Daniel Hackett came).

In this situation, Samardo Samuels had worked good enough to figure out how to become a reliable starting center even at Euroleague Basketball level, being there day in and day out in the domestic league, improving his consistency in defense and overcoming a big injury that occurred in late november (he broke his right hand, then he came back in January). “When you’re forced to sit out injured you can better understand how the things are going, when you’re playing you’re just focused on that few things you have to do, and it’s more complicated to observe the whole thing”, he told me a few months ago.

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His impact before and after that injury was totally different: some insiders from the team told me that Samuels was a “coachable” guy, willing to improve and showing it. Sometimes, at practice, I saw him doing things that he never showed during the games: great passing, most of all. Then he started putting all his pieces together: his usual low-post moves, mid-range and long-range shooting (he scored a 3 pointer in the last 3 playoffs games), great passing from the post to find cutters and spot-up shooters. It’s safe to say that he is now the best center in this League.

Here are his numbers in the playoffs (5 games vs. Pistoia, 1 game vs. Sassari), compared to the regular season: Samuels is averaging 14.0 points (+2.6), shooting 65.9% on 2FG (+12.1), 36.4% on 3FG (+1.1), 70% on FT (+0.8), grabbing 6.7 rebounds (+1.6), even doing better on blocks (+0.5), assists (+0.1), turnovers (-0.1), plus minus (+1.0) and minutes played (+4.6).

Samuels signed a 2 years deal last summer: now it’s easy to understand why. He brought good technique and an interesting body. They bet on those qualities to make him a legit Euroleague starter and a difference maker. This is not 100% done yet, but we all can see the mark of progression.

Pietro

Performing Under Pressure [feat. @ReseRice4, @MaccabiElectra, @Euroleague]

Did you ever think that Tyrese Rice would be that kind of player that can collect a Euroleague championship PLUS a Final Four MVP Trophy?

I didn’t, I admit. Also, I was pretty sure that Real Madrid would win the final on Sunday night, wondering how the Israeli side could even try to get close to Sergio Rodriguez and his teammates.

I was wrong, and I have no problem in saying that.

Now, just a couple of samples to discuss one point. Tyrese Rice was a killer during the playoffs series against EA7 Emporio Armani Milan, he did it again in the Final Four. His layup that gave his team the victory in the semifinal against CSKA Moscow already was a play for the ages, due to the very particular moment of the game (and, I would say, in the history of both teams).

So, will Tyrese Rice be the player that everybody will try to sign in the offseason? Can he fit in any system with the same impact? Can he be the guy who runs a team all game long (all season long) or does he need to keep is current role of troublemaker coming off the bench (and then stay on the court to rely on is instinct)? How can you coach his instinct?

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In this play, Rice runs a pick and roll with Alex Tyus: the point guard recognizes how the defense react. In this situation, Real Madrid center’s Ioannis Bourousis doesn’t want to let Tyus get enough space for an alley-oop dunk, maybe the trademark play of the Rice-Tyus duo. That’s why he didn’t switched on the pick and roll, but that gave to Rice the opportunity to go for a downtown shot. Can you criticize this choice? Sure, you can. Even knowing that Tyrese Rice is not a pure shooter. But in basketball all your choices can be right or wrong. The point is: the offense has the key. “Every time an offensive player has an advantage over the defense, so the most important thing for me is to not do the same thing all the time. Sometimes you need to change your rhythm, sometimes you need to change your direction, sometimes you need to change the side of the pick-and-roll. Everything is in how you read the defense”. That what Olympiacos’ king Vassilis Spanoulis told me last year. “Read the defense”. Has Rice learned that lesson?

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In the second picture, we have the following offensive possession of Maccabi Electra: same play, same situation. Pick and roll between Alex Tyus and Tyrese Rice. Same positions, a different reaction from the defender. This time, Bourousis comes closer to Rice as Maccabi Electra’s point guard knocked down a three-pointer before. And Rice read the defense: no reason to force a “three” in front of a seven-footer, let Tyus fly with an alley-oop pass, as Bourousis defensive choice cleared all the space on the lane. Spanoulis was right in his sentence, and Rice proved it again. All you need to do is read the defense: yes, sure. But how many players can keep their focus to do it in a Euroleague final overtime?

Now, you’re a coach and you need a point guard to win the Euroleague: will Tyrese Rice be your man? And what will you ask him? Can he play better than he did? Would you bet on coaching his instinct and forcing him to play a different system? Sometimes players and coaches’ careers (and teams’ destinies) depends on the answer to that kind of questions. And, to be honest, you need some luck to make the right decision.

Pietro

@Euroleague: What’s next for @OlimpiaEA7Mi?

A good Euroleague season is over, for Milan. Not a one for the ages, in terms of titles won, but the 2013-14 campaign will be remembered for good reason. This is when Olimpia came back among the Top teams in Europe.

Milan’s fans waited 17 years before the team reached Euroleague’s quarterfinals. No matter if they were eliminated by Maccabi. My point is: gotta get there, gotta get consistent. One day, you’ll have all the right pieces to get it done and take the trophy. Not now.

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There are a few reasons. First, injuries: we cannot forget that EA7 played without forward Alessandro Gentile (class of ’92), who averaged 16.2 points in his last 4 Euroleague games. He was in his prime when he got injured against Cantù, and eventually missed the following weeks of competition. We cannot forget that Keith Langford came back from an injury a few days before the playoffs, after being sidelined for one month.

Then, David Blatt tactics (and his players’ execution) showed why Milan may belong to the Top 8 but not to the Top 4. They missed the experience to win game-1. They missed quick “game readers”, good passers and shooters to overcome struggles in game-3. They missed any offensive options in game-4, leaving all the responsibility to Langford (who did great before being exhausted), cutting all the big men out of the competition. Talking about defense, Ricky Hickman and Tyrese Rice destroyed them driving to the basket. And no one could even try to guard Big Sofo inside: for instance, EA7 won game-2, when Sofo played only 1’47 due to an injury).

Now, the team has to complete their work: winning the domestic title the club is waiting since 1996. But with all due respect to this, Euroleague Basketball is where the best teams and players are looking at. So, now that Milan is back on track, what will they do this summer?

Will they keep looking at “hungry” players (they mean: the best combination available of age, skills and € or $) or will they keep the best players they have and rebuild a system to plan reaching the Final Four within 1-2 seasons?

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We all heard about Keith Langford and his Turkish passport case: he’s earning big money in Milan, and he is free agent. What to do with him? He just won the Alphonso Ford Trophy which proves is individual value. The team is trying not to spend big money anymore on a player. Will they bet on continuity re-signing Langford to play a third season in a row in Milan? Or will they keep their money to invest it somewhere else? This will be a first, strategic, important decision to make.

Will Daniel Hackett be the starting point guard returning to Euroleague? If so, has he proved he can run a team to the Euroleague championship level? The answer, for what we’ve seen in Tel Aviv, is no. After game-3 he said: “I have to do a better job to guide my teammates”. In game-4, he didn’t. But two games won’t define his career. We have to wait a full season in Milan, with enormous expectations on him. Then we’ll know 100%.

Point guards: Hackett-Jerrells a good pair? Not to reach the highest level, probably. None of them is a natural playmaker in the “traditional” meaning. But a top Euroleague team need this, togheter with a natural born long range shooter, a tough, experienced and consistent big man to give his team a chance against aggressive set defenses and try to stop big bodies on the other end.

What about the rest of perimeter? All said about Langford, Gentile will be back unless the NBA is not drafting him high. Cerella is a great teammate, has a good body to put him for some defensive plays, but he’s not a Euroleague top caliber player. Langford or not, they will need a scorer. Maybe a scoring point guard, sharing his position (and the court) with Hackett, and a “Jaycee Carroll lookalike” guard.

One of the big problems of this season came from the power forward position: Milan signed CJ Wallace to buy his experience (two Final Four with Barcelona), his basketball IQ (Princeton), his personality (one of the funniest guys in the planet) and his “stretch-four” skills to be the most important player in this position. He’s having a disappointing season on many levels. And that increased Nicolò Melli’s duties. The 22 years old man played some consistent game but still miss “that” consistency to be a reliable starter at this level. Maybe it will come with experience, after all. Maybe he’s still dealing with the expectations he had on him since he was a teenager. He’s a free agent: last year he didn’t reached a deal with the team to extend his contract. We’ll see. What about Kristjan Kangur? He suffered a long injury, struggled in finding his own position in the team. Never been a major player, indeed.

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Centers: when the team signed Samardo Samuels to a two-years deal, there was a lot of cricitism. However, the big boy from Jamaica showed that he has top level skills. Needs to be tougher, but he has a great upside. Good move for now, let’s see how much he’s improving. But you need another type of center behind him. Gani Lawal is an unbelievable athlete, but he struggled all the year with Luca Banchi’s defensive system. And he’s not a great offensive player. That’s why his teammates almost ignore him down low. He never gets the ball back to the basket. Never. This is a problem not only because he’s not scoring: the team should need someone who can catch the ball forcing the defense to pay attention on him, leaving space on the perimeter. And someone who can “read” the game in defense, most of all.

I disagree with those (in Italy) that are criticizing the team for being out of he Final Four. Yes, it will be played in Milan. Yes, Maccabi is not that strong if you compare it to Real Madrid or CSKA on paper. But it doesn’t mean that a team that no one expected to be at this level HAS to win or it’s a screwup.

All that said, that step the team have to make from Euroleague Top 8 to Top 4 is one of the most difficult in basketball. That’s why EA7’s offseason will be very, very interesting.

Pietro

Tale of the Tape: EA7 Milan (@OlimpiaEA7Mi) vs. Maccabi Tel Aviv (@MaccabiElectra) #RoadToFinal4 @Euroleague

One last, meaningless Top 16 game will not change what EA7 Emporio Armani Milan and Maccabi Electra Tel Aviv have done to qualify to the playoffs. They already know that their teams will square off in order to get a Final Four spot, and the Italian squad will also have the home court advantage.

Let’s talk about how they made it. They insist a lot on the concept of “being a team” (in Maccabi’s case, “being a nation”), that’s why I want to analyze their work as a team without putting individual stats on first.

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Can some numbers define their basketball style without mentioning the players? They can, imho.

What can you say about Milan, for example? One simple thing: they make the opponent playing bad. There is a number for that: the Performance Index Rating is now a common data (scouts, coaches and analysts rely more on the advanced stats), but in this situation it’s very useful (4th best in the Top 16, only 72.1 per game for their opponent).

EA7 is the 3rd best team in the Top 16 in terms of points allowed (average): 70.5. Only Panathinaikos (68.5) and Barcelona (70.2) did better than them. But Milano haven’t the Green’s athleticism or Blaugrana’s size in the paint.

Their defense comes from the backcourt, first: Daniel Hackett, Curtis Jerrells, Bruno Cerella and David Moss are the guys that can put an unbelievable pressure on you, no matter what’s your name. Just ask to Vassilis Spanoulis, who lost by 30 in Milan with the reigning champion Olympiacos.

Alessandro Gentile also has the body to do it (not the feet), Keith Langford “know he’s not Gary Payton” (using his words during an interview) but he can be very effective on the passing lines more than on 1vs1. Make the opponents uncomfortable in dribbling, calling plays, using screens will make them uncomfortable on passing inside, finding the right spots, and the fine timing to reach the big man.

All that work lead us to another number: the assist/turnovers ratio. Let’s stay on the defensive halfcourt. EA7 Milan is the only team in the Top 16 that allows a ratio under 100% (95.2%). Maccabi is 6th overall with 123.6%. Milan is also doing a tremendous job against the perimeter danger: they allow only 18.5 three-point goals per game, and only 30% three-point goals made. They also are among the best teams in the Top 16 in terms of Opponent True Shooting Percentage: 46.4% (4th). Maccabi is 9th with 47.6%. Another great stat for Milan: steals. They are 2nd in Top 16 with 7.5 (Maccabi 8th with 5.9). Athletes, big bodies and quick hands on the perimeter are factors.

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It will be a great test for Milan’s defense: Maccabi is the 5th team in the Top 16 for three-point goals attempted (23.1), but they allow the same number to their opponents (3rd). Keep in mind that we’re talking about two of the best three teams at this stage for three-point shooting percentage (EA7 is 2° with 40.7, Maccabi follow with 39.7%). The italian side is the 7th Top 16 team in “threes” attempted (22.3), Maccabi allows a 36% of three-pointers made (7th).

Switching to the offensive end, Milan has only 104.7% (15th) in assist-turnovers ratio, while Maccabi is 4th with 167.9%. That means one thing: they take care of the basketball. This is easier when you know your teammates (6 major Maccabi players were there last season, Blu and Schortsanitis played there in the past with the same coach), and Luca Banchi insists on this in every practice, every day with a team full of newcomers (only Gentile, Langford and Melli came back from 2012-13) that went into struggles and important changes during the season (a new point guard, Hackett, came in late December). But that tells a lot about the style: EA7 have a lot of dribblers, great (or fine) scorers in the backcourt, few playmakers, a lot of guys “making plays”, which is very different. Taking care of the ball also lead you to create more open looks. That’s why Maccabi is great (3rd) in True Shooting Percentage (49.8%), Milan is pretty good also with 48.3% (6th).

But if you ask to coaches around Europe, most of them will tell you that Milan has an unbelievable power on 1vs1 plays more than great shooters. For instance, there’s another number that could confirm that: EA7 is the second best team in the Top 16 in received fouls (21.8), Maccabi is 12th with (19.7).

One common point between those teams is on defensive rebounds: they are 11° and 12° (Milan 22.8, Maccabi 22.5), and both have to improve in boxing out and protect the paint. Maccabi is the 2° worst team in offensive rebounds allowed (11.4), Milan 8° with 10.3. The Italian are doing a better job in finding somewhere else those lost possessions.

The Israeli side has to do it if they want to win where only Real Madrid did in the whole season. But that in the first part of the season, before the decisive move of signing Hackett. Since then, they won all their home games (+12.8 margin in the Top 16, including the +30 vs Olympiacos and +28 against Barcelona).

Pietro

Quando Zalgiris-@EA7OlimpiaMi si giocò in campo neutro (in Eurocup)

Anno di grazia 1998. Belgrado. La Stefanel Milano con Franco Casalini in panchina affronta lo Zalgiris Kaunas nella finale di Eurocup.

Vinceranno i lituani, con uno straordinario Saulius Stombergas (35 punti), oggi head coach dello Zalgiris (qui il tabellino).

C’erano in campo Nando Gentile, papà di Alessandro, e pure Flavio Portaluppi, oggi general manager.

Milano era arrivata a quella partita dopo una stagione travagliata, conclusa con l’esonero di Franco Marcelletti e il ritorno di Casalini, che accettò l’incarico e guidò la squadra alla rimonta contro il Panathinaikos di Dino Radja (-19 all’andata, +25 al ritorno). Una cosa di “Arissiana” memoria, per i tifosi milanesi.

Il finale contro lo Zalgiris fu meno glorioso. Ma rimane, quella, l’ultima finale europea giocata dall’Olimpia.

Pietro

@marcocrespi, dimmi se ci ho preso

Quei pochi minuti dopo aver raggiunto il massimo vantaggio (28-35 a 3’16 dalla fine del terzo quarto) sono costati la partita a Siena in casa del Galatasaray.

Proprio lì, con la partita psicologicamente e tatticamente in mano, alcune inopportune deviazioni dal piano partita hanno concesso a Guler di esplodere quei 10 punti che hanno tolto il mabubrio dalle mani dei giocatori della Montepaschi.

Della quale, però, ho apprezzato la disciplina nei restanti 37′.

Siena ha compiuto delle scelte precise, per me, magari impopolari. Non attaccare il ferro, rinunciando di fatto ai tiri liberi (saranno 4 alla fine) accontentandosi dei tiri in sospensione. Non andare a rimbalzo d’attacco, o almeno non con tanti uomini. Cose che però hanno portato a diversi vantaggi, essendo situazioni scelte e non imposte dalle circostanze. Non attaccando il ferro si sono evitate palle perse dovute a contatti o eccessivo traffico (alla fine soltanto 6), e il tiratore (dalla media o da tre) era piazzato già per il rientro difensivo, non essendosi quasi mai verificata la situazione di inferiorità numerica in transizione dovuta (magari) a un giocatore che resta a terra dopo un contatto o troppo avanti rispetto alla palla, una volta recuperata dagli avversari.

E non mandare uomini a rimbalzo d’attacco ha avuto praticamente lo stesso effetto, perché dopo il tiro si era subito pronti a occupare gli spazi per evitare la transizione avversaria e riempire l’area. Anche perché, contro una squadra che cambiava sempre, magari il “piccolo” tirava contro un “lungo” lontano da canestro, e a rimbalzo poteva già esserci una situazione di mis-match favorevole.

La protezione dell’area è stata fatta egregiamente, con la gentile collaborazione dei tiratori del Galatasaray (2/19 da fuori), che di certo hanno rinforzato la scelta tecnica di Siena. Che, a dispetto dei numeri (12 rimbalzi offensivi concessi, non pochi contro 26 difensivi catturati) a mio avviso ha lavorato bene anche a rimbalzo. Poi, se hai una belva come Pops Mensah-Bonsu (che ha preso tanti rimbalzi offensivi – 8 – quanto tutta Siena) e tu sei leggero fisicamente per questo livello, la scienza tattica può poco di fronte all’evidenza.

Si voleva, insomma, una partita a basso ritmo, che poi si è tradotta in bassissimo punteggio, ma soprattutto di altissima disciplina, laddove sbagliare un tiro non era un problema mai, sbagliare una scelta, anche una sola, poteva compromettere molte certezze.

Per cui, anche se uscita dal campo sconfitta, con un record di 1-5 (ma ancora possibile la qualificazione alle Top 16, giocando in casa con Bayern, Zielona Gora e Malaga), io dico che sinceramente la Montepaschi di Istanbul mi è piaciuta. Mi è sembrata una squadra con un piano, molto chiaro, con una coesione e un’identità ben diverse rispetto anche solo alla partita di andata. Quindi ben allenata e dove, evidentemente, quelli che giocano sono “sulla stessa pagina”.

Poi magari Crespi mi risponde che mi sono inventato tutto, ma a volte val la pena tentare.

Pietro

UPDATE – Gli appunti di Marco Crespi

Talking About Practice

Nella passata stagione ho chiesto, invano, di poter vedere qualche allenamento dell’Olimpia Milano. Non perché mi interessasse fare la spia, né perché non avessi altro da fare o (magari) anche voglia di fare altro.

La risposta è sempre stata no, per team policy e soprattutto scelta (legittima, ma che non ho condiviso) dell’allenatore Sergio Scariolo. A Milano qualche mese fa è arrivato Luca Banchi, che ha certamente un approccio meno sofisticato a livello di gestione del rapporto umano, e ha riaperto le porte durante le sacre sedute di lavoro della sua squadra.

Vado anche io all’allenamento ogni volta che posso, e questo perché è semplicemente bello per uno che fa il “giornalista di basket”, e che di base è un appassionato di basket. Perché mi ha riavvicinato al gioco, lo stesso che ho amato fin da piccolo andando (anche) agli allenamenti della squadra di Porto Empedocle (B2, allora), poi a Parigi, dove ho avuto la possibilità di vedere quotidianamente in palestra giocatori di livello assoluto (JR Reid, Richard Dacoury, Stéphane Risacher, Laurent Sciarra, Zarko Paspalj, Jure Zdovc, Eric Struelens e altri ancora) ed eccellenti allenatori, il migliore tra i quali rispondeva al nome di Bozidar Maljkovic.

Si imparano cose, per esempio a “leggere” le situazioni che poi si riproporranno durante la partita. Se anche non riesci ad acchiappare proprio tutto, almeno ti fai un’idea di quelli che sono gli orientamenti, l’idea di base, o (per chiamarla col nome più “giornalistico”) della filosofia di gioco.

Poi però c’è soprattutto il rumore della palla, osservare facce, reazioni, gesti, sorrisi, scazzi, momenti di stress particolare e di relax, la gestione di questi momenti con i carichi di lavoro in allenamento, la complicità che si instaura tra determinati elementi, quei piccoli cenni che diventano rituali con allenatori, ragazzi dello staff e giocatori che poi si traducono in familiarità, che non significa confidenza.

È un modo, insomma, di recuperare un certo rapporto umano che mi è mancato, e che probabilmente manca all’interno della nostra pallacanestro. Una piacevole riscoperta, che di sicuro restituisce un po’ di senso al lavoro che si fa nel seguire una squadra per una stagione intera. Ci si sente meno estranei, meno soloni, anche meno scemi a provare a immaginarsi delle cose per poter fare delle analisi evidentemente superficiali.

Tutto questo non rappresenta una novità per quei colleghi o semplici curiosi che sono abituati a frequentare gli allenamenti delle “loro” rispettive squadre. Lo è a Milano, e per questo ringrazio Luca Banchi che mi ha permesso di riscoprire quel lato meno distaccato e cinico che in molti altri momenti delle mie giornate è l’assoluto protagonista. Quelle due ore in palestra e mezza, per me, sono anche un modo di concentrarmi su ciò che amo davvero e lasciare fuori tutte quelle cose che nel corso del tempo si sono intromesse tra me e la passione genuina che mi ha condotto fino a qui.

E dunque, grazie.

Pietro

Compiti per l’Olimpia: rispettare Bamberg. E vincere.

Potrebbe non bastare dire che il Brose Baskets Bamberg ha vinto gli ultimi quattro campionati tedeschi. Dalle nostre parti è ancora molto lo snobismo nei confronti del basket in Germania, ma basterebbe dare un’occhiata ai bellissimi palazzetti, al seguito di un pubblico sempre più appassionato (ed educato), il sito web della Lega e delle società, il contorno di attività e intrattenimento pre, durante e post partita.

La Germania, per qualità e serietà di organizzazione, ha nettamente superato l’Italia. Per questo che un club come quello di Bamberg, cittadina di 70.000 abitanti dell’Alta Franconia, merita il massimo rispetto. Perché all’interno di un sistema virtuoso e funzionante ha saputo crescere per creare un ciclo vincente, non solo entro i confini domestici. Nella passata stagione si è qualificata per la prima volta alle Top 16 (così come l’altra formazione tedesca, l’Alba Berlino: 2-1 per “loro”, dunque, nel 2012-13), e seppur perdendo tutte le 14 gare della seconda fase ha sempre dimostrato di poter essere competitiva (7 di queste sconfitte sono arrivate con uno scarto compreso tra 1 e 3 punti).

Dalla passata stagione sono rimasti in otto giocatori, oltre all’allenatore Chris Fleming, in carica dal 2008 e costantemente cresciuto insieme alla sua squadra. Tra di loro ci sono esterni di qualità come lo slovacco Anton Gavel (4/4 da tre e 4 assist nella vittoria contro l’Anadolu Efes Istanbul) e il 32enne americano Casey Jacobsen: un passato da specialista NBA (tra Phoenix e New Orleans dal 2002 al 2005) e tornato al Bamberg nel 2009 dopo una prima esperienza nella stagione 2006-07. Nelle prime tre uscite in Eurolega ha tirato uno strepitoso 12/18 da fuori, se si scalda è una macchina.

Coach Luca Banchi ha studiato un piano per loro: creare le situazioni per attaccarli col pick and roll, quando non direttamente portando esterni fisici come Moss, Gentile e Langford spalle a canestro contro di loro e soprattutto contro l’altro esterno veterano della squadra, John Goldsberry (191 cm, quinta stagione a Bamberg, 5.7 assist in 18’ a partita in questa Eurolega). Il pick and roll non è esattamente un piano originale, visto che viene praticato a vario titolo ormai in quasi tutti gli schemi del mondo, ma l’importante è che i giocatori dell’Olimpia dimostrino voglia di battere il proprio uomo, creare vantaggi, squilibrare la difesa altrui. In una parola: personalità. Quella che al netto di infortuni e difficoltà oggettive è mancata nelle prime due trasferte europee (-39 tra Istanbul e Madrid), e che certamente bisognerà dimostrare davanti ai 6.800 della Stechert Arena, anche perché perdere, ritrovandosi 1-3 in classifica, costerebbe caro.

“Una volta avevamo un palazzetto molto piccolo e grezzo, con una sola tribuna”, raccontava Sven Schultze, che a Bamberg è nato 35 anni fa e ci ha debuttato come giocatore professionista, dal 1995 al 1998. Il futuro gli avrebbe riservato l’Olimpia targata Armani Jeans, con una finale scudetto e tanti tifosi conquistati col cuore e col mestiere (dal 2005 al 2007). Oggi, invece, Bamberg è “Freak City”, dove tutti, ma proprio tutti, sono pazzi per il basket.

Pietro

[STASERA A MILANO] Sarunas Jasikevicius per Dream Team (aprile 2008)

[Intervista rilasciata a Siena, prima di una partita tra Montepaschi e Panathinaikos, per il numero 40 della rivista Dream Team. Sarunas Jasikevicius era l’uomo copertina]

In maglia Panathinaikos è alla ricerca della sua quarta Eurolega con tre squadre diverse. In mezzo, anche l’esperienza NBA. Di solito non parla con nessuno, ma per DT ha fatto un’eccezione: parola a Sarunas Jasikevicius di Pietro Scibetta È il giocatore più importante d’Europa. È l’uomo che ha vinto l’Eurolega per tre volte di fila con due maglie diverse. È colui che – neanche fosse una rock star – ha mobilitato una folla di migliaia di ateniesi per il suo arrivo all’aeroporto, la scorsa estate. È il nuovo simbolo della pallacanestro europea, il giocatore che ogni allenatore vorrebbe allenare e che ogni tifoso vorrebbe applaudire. In due parole: Sarunas Jasikevicius.

JASI, L’EUROPEO

I lituani nella Top 50 della storia di European Club Basketball sono due: tu e Arvydas Sabonis.

“È un onore incredibile, davvero. Io sono una persona molto sentimentale, e quando leggo gli altri nomi della lista penso che praticamente tutti sono stati dei miei idoli di gioventù. Mi ricordo che passavo giornate intere in palestra a Kaunas per ammirare i campioni che si allenavano o giocavano. Essere stato scelto tra giocatori come questi è pazzesco. Quando sei ragazzino magari pensi alla NBA, ma non immagini mai di poter ricevere un riconoscimento come questo”.

Anche perché la tua carriera europea è iniziata lontano dai riflettori.

“Onestamente penso che l’inizio della mia carriera europea sia stato positivo. Ho iniziato a venire fuori prima al Lietuvos Rytas e poi con l’Olimpija Lubiana; è stato un percorso necessario per prepararmi alle grandi squadre. Se fossi rimasto a Kaunas, anziché andare negli States a 17 anni, forse sarei arrivato prima al Barcellona, ad esempio”.

Come mai non sei rimasto in patria?

“Allora la Lituania attraversava un momento storico difficile, poco dopo l’indipendenza, e così il richiamo degli USA era molto forte. Furono anche i miei genitori a spingermi perché andassi a studiare lì [all’inizio alla Solanco High School a Quarryville Pennsylvania, ndr], ed è stato davvero particolare vivere in posti dove c’erano praticamente solo studenti. Al college, a Maryland, eravamo 25.000, è davvero qualcosa di speciale. In Europa non sono così tanti quelli che continuano a studiare e giocare contemporaneamente, negli States invece bisogna dedicarsi al 100% a entrambe le cose”.

Da quello che abbiamo visto con foto e video, la tua accoglienza ad Atene è stata paragonabile a quella di un capo di stato.

“È stato incredibile, non mi era mai capitato di assistere a qualcosa del genere. Ma che volete farci, i greci sono così. Sapevo che ci sarebbe stata un po’ di gente all’aeroporto, ma sinceramente non potevo pensare che sarebbero stati così tanti. Avevano circondato la mia macchina, alcuni ci sono addirittura saltati sopra! È stato strano, completamente sorprendente”.

Ora, dopo Pesic e Gershon, lavori con Obradovic.

“Zeljko è l’allenatore più onesto di tutti. È una persona molto schietta, forse è anche la più semplice. Non pensa a inventare cose strane, abbiamo degli schemi semplici che si basano su ripetuti pick and roll. È stato un buon giocatore, capisce le nostre esigenze dentro e fuori dal campo, non è uno che ti tiene sette ore in palestra – anche se comunque si lavora duro. È un grande piacere giocare per lui, un uomo e un allenatore che rispettavo molto ancora prima di firmare per il Panathinaikos. Penso sia prima di tutto una grande persona, e per questo voglio davvero regalargli delle vittorie importanti”.

Il Panathinaikos ti ha preso per questo.

“E io adesso voglio solo vincere. Niente sostituisce il pensiero della vittoria, la festa con i compagni, la gioia dei tifosi. Sono stato fortunato a poter giocare così tante volte per vincere in passato e anche oggi so di avere delle possibilità importanti con questa squadra, che voglio sfruttare”.

Sei arrivato ad Atene come una sorta di icona – o meglio, forse un talismano: se hai Jasikevicius, allora vinci…

“La gente non riesce a capire quanto sia difficile, perché in tanti pensano che, avendo grossi giocatori, le grandi squadre siano destinate a trionfare. È vero che io ho vinto tre volte di fila l’Eurolega, ma solo l’ultima volta [2004-05, ndr] è stata tutto sommata semplice: perdemmo l’ultima partita a febbraio [10 febbraio 2005, Barcellona-Maccabi 81-79, ndr], superammo Pesaro 2-0 per andare alle Final Four e così rendemmo le cose molto facili”.

Non è sempre stato così, però.

“A Barcellona ricordo due partite contro l’Olympiacos in cui rischiammo grosso, in una eravamo sotto di 12 a 5 minuti dalla fine e siamo riusciti a vincere. E non parlo neanche del tiro di Derrick Sharp contro lo Zalgiris nelle Top 16 2004: è stata l’unica volta della mia vita che ho pensato a un miracolo, sono rimasto letteralmente sconvolto da quel tiro. Per una settimana ho ripensato solo a quello, a come siamo riusciti a vincere quella partita e quindi a qualificarci per la Final Four di Tel Aviv. La gente davvero non si rende conto di quanti sforzi servano per vincere, sono davvero fortunato ad aver giocato in queste squadre. Sicuramente ci ho messo del mio, ma non avrei vinto niente senza i campioni intorno a me”.

Eppure si parlava male anche del tuo Maccabi: tanti dicevano che non difendevate.

“È vero, un sacco di gente ha detto questo di noi. Io dico: andate a vedere le cifre, le percentuali che abbiamo concesso agli avversari e certi parziali che abbiamo messo a segno. Penso che il mio Maccabi sia la squadra che ha giocato il basket migliore che io abbia mai visto, non so se qualcuno riuscirà ad arrivare a quel livello. In tutti gli sport di squadra si dice che per vincere bisogna essere cattivi e sporchi, difendere prima di tutto. Guardate nel calcio quante partite decisive finiscono per 1-0. Noi eravamo l’esatto opposto: avevamo dei passatori straordinari, eravamo davvero completi, avevamo realizzatori, atleti, grandissimi tifosi capaci di spingerci oltre i nostri limiti. Ancora oggi, quando mi riguardo gli highlight o delle intere partite, mi vengono i brividi”.

Perfino le vittorie di Barcellona e Tel Aviv a qualcuno non bastavano…

“Per questo il successo di Mosca l’ho assaporato in maniera particolare. Perché le critiche non mi sono mancate nemmeno dopo due titoli consecutivi: si diceva che avevo vinto solo le Final Four in casa. La verità è che ognuno può trovare difetti in tutto, se volessi potrei trovarli anche in Michael Jordan. Per questo la vittoria ‘fuori casa’ è stata particolarmente importante”.

Barcellona, al di là delle vittorie, rimane la tua città preferita. È stato un addio difficile?

“Barcellona è nel mio cuore. Semplicemente, Pesic ha voluto un giocatore più difensivo per il suo sistema, così hanno firmato Ilievski. Di sicuro non c’erano problemi di accordo tra me e il presidente Laporta per il mio ingaggio, magari a posteriori è stato il favore più grande che il coach mi abbia mai fatto”.

Hai mai provato a pensare a quello che farai dopo la tua carriera?

“Sì, e sinceramente spero di restare nel basket, perché questa è la mia vita. Sono stato in questo mondo ogni giorno, da quando avevo sei anni”.

E cosa ti piacerebbe fare? L’agente? L’allenatore?

“L’agente? No, no…guarda che roba [ride, indicando il suo procuratore Maurizio Balducci, ndr], c’è da diventare matti con questo lavoro. Non so neppure se avrei la pazienza per fare l’allenatore. Magari il general manager, oppure lavorare per sviluppare le relazioni tra Eurolega e NBA, o comunque tra l’Eurolega e il resto del basket mondiale. Ecco, quello mi piacerebbe”.

JASI, L’AMERICANO

Come hai vissuto il tuo approdo nella Lega?

“La NBA per me era una sfida, una bella opportunità che non mi si era mai presentata. Avevo molte offerte, il problema era centrare o sbagliare la scelta. Andai ai Pacers dopo che con Rick Carlisle parlammo molto spesso al telefono e mi trovai benissimo con le sue idee. Una volta negli States, però, mi resi conto che era successo la stessa cosa che accade quando ti vogliono reclutare al college: al telefono ti dicono tutto quello che vuoi sentirti dire, poi arrivi sul posto e la situazione è il contrario di ciò che ti aspetti”.

In che senso?

“Ho un grande rispetto sia per Donnie Walsh (GM), per Larry Bird (Presidente) e per l’organizzazione dei Pacers, che credo abbia pochi eguali nella NBA. Ma non capisco perché hanno firmato dei giocatori in contrapposizione con lo stile del loro allenatore. Loro due volevano un basket veloce e aggressivo, divertente per i tifosi, mentre Rick voleva un ritmo controllato, alla serba. In più, in uno spogliatoio con gente come Ron Artest, Jamaal Tinsley, Stephen Jackson e Jermaine O’Neal, forse ci voleva un allenatore con maggiore personalità”.

Un errore, quindi.

“Ho sbagliato ad andare lì, senza dubbio. Se avessi scelto un’altra squadra le cose sarebbero andate diversamente. Penso comunque di aver dimostrato di poter giocare, anche se spesso mi usavano come guardia. Per un mese e mezzo Carlisle mi disse di voler giocare tanti pick and roll, di voler correre, ma non si fece mai niente di tutto questo”.


Da lì ai Golden State Warriors, altra situazione infelice.

“Ti dico un aneddoto per spiegare come funziona la NBA. Appena scambiato a Golden State sono andato a parlare con Don Nelson. Lui, seduto di fronte a me, mi fissò serio e mi chiese: ‘Allora, che sai fare?’. So bene che il fatto di essere arrivato lì era anche una questione di salary cap più che tecnica, ma lui con me fu sincero. Mi disse: ‘Il mio miglior giocatore è Baron Davis e fa il playmaker, il mio miglior prospetto è una guardia che sto cercando di far giocare da play, Monta Ellis. Giocherai quando uno dei due sarà indisponibile’. Ed è stato di parola: quando Baron si fece male giocai un po’, poi passai il tempo a sventolare asciugamani. Questa è stata la mia NBA ed è un po’ frustrante che sia andata così, perché penso che da un’altra parte avrei potuto essere un giocatore importante”.

Di certo non potevi esserne soddisfatto.

“Chiaro, però ho fatto più di 7 punti e 3 assist di media con Indiana in meno di 20 minuti, ho giocato il Rookie Game, insomma, non è che proprio non ho fatto nulla. La gente si aspettava di vedermi come al Maccabi ed è stato un dispiacere giocare poco, ma penso di aver dimostrato di essere a quel livello”.

Forse era semplicemente una realtà troppo diversa.

“La NBA è un mondo strano. Secondo me solo cinque o sei club giocano per vincere, tanto è vero che sono sempre gli stessi a disputarsi l’anello. Le altre franchigie sono nelle mani di ricconi che vogliono far divertire i propri figli con la loro squadretta, o qualcosa del genere”.

JASI, IL LITUANO

Parlaci del tuo rapporto con la Nazionale.

“È bellissimo giocare per la Lituania: lasciarla era il lato negativo di andare al college, ma allora non capivo l’importanza di giocare in Nazionale. Adesso per me non c’è nulla di più importante, nessuna squadra di club può essere paragonata alla tua Nazionale. Si tratta di continuare quello che Sabonis e Marciulonis hanno iniziato, la gente da noi è molto orgogliosa della squadra, pazza per il basket – e poi giochiamo una bella pallacanestro”.

Sembra anche che le critiche non vi tocchino.

“Quando perdiamo o giochiamo male tutti a scrivere che nello spogliatoio qualcosa non va o che c’è egoismo da parte di qualcuno. In undici anni non ho mai vissuto una brutta atmosfera con la Nazionale, perché è fatta di gente che ha passato una vita a giocare contro o insieme, dalle giovanili in su, tra Vilnius, Kaunas o Klaipeda – insomma, gente cresciuta insieme. Quando ci ritroviamo siamo peggio dei bambini…”.

Per dire di quanto siete rispettati da noi, la vittoria dell’Italia sulla Lituania nella semifinale olimpica del 2004 è stata celebrata forse più degli Europei del ’99.

“Quella volta contro l’Italia abbiamo giocato malissimo, non abbiamo fatto ciò che serviva. Abbiamo pagato caro il nostro cattivo atteggiamento in difesa, sprecando una grossa opportunità di vincere le Olimpiadi”.

Non ci siete andati lontanissimi neanche in Australia nel 2000. Semifinale persa d’un soffio contro gli USA…

“Ogni volta mi si ricorda quel tiro da metà campo a Sydney contro gli americani. Non penso ci fosse una sola possibilità che potesse entrare, o meglio, la probabilità era la stessa di scalare l’Everest. Eppure tutti a dirmi che ho avuto tra le mani la palla della vittoria!”.

Forse perché, quando l’arancia è nella mani di Jasi, di solito quello che segue è un canestro…