[Intervista rilasciata a Siena, prima di una partita tra Montepaschi e Panathinaikos, per il numero 40 della rivista Dream Team. Sarunas Jasikevicius era l’uomo copertina]
In maglia Panathinaikos è alla ricerca della sua quarta Eurolega con tre squadre diverse. In mezzo, anche l’esperienza NBA. Di solito non parla con nessuno, ma per DT ha fatto un’eccezione: parola a Sarunas Jasikevicius di Pietro Scibetta È il giocatore più importante d’Europa. È l’uomo che ha vinto l’Eurolega per tre volte di fila con due maglie diverse. È colui che – neanche fosse una rock star – ha mobilitato una folla di migliaia di ateniesi per il suo arrivo all’aeroporto, la scorsa estate. È il nuovo simbolo della pallacanestro europea, il giocatore che ogni allenatore vorrebbe allenare e che ogni tifoso vorrebbe applaudire. In due parole: Sarunas Jasikevicius.
JASI, L’EUROPEO
I lituani nella Top 50 della storia di European Club Basketball sono due: tu e Arvydas Sabonis.
“È un onore incredibile, davvero. Io sono una persona molto sentimentale, e quando leggo gli altri nomi della lista penso che praticamente tutti sono stati dei miei idoli di gioventù. Mi ricordo che passavo giornate intere in palestra a Kaunas per ammirare i campioni che si allenavano o giocavano. Essere stato scelto tra giocatori come questi è pazzesco. Quando sei ragazzino magari pensi alla NBA, ma non immagini mai di poter ricevere un riconoscimento come questo”.
Anche perché la tua carriera europea è iniziata lontano dai riflettori.
“Onestamente penso che l’inizio della mia carriera europea sia stato positivo. Ho iniziato a venire fuori prima al Lietuvos Rytas e poi con l’Olimpija Lubiana; è stato un percorso necessario per prepararmi alle grandi squadre. Se fossi rimasto a Kaunas, anziché andare negli States a 17 anni, forse sarei arrivato prima al Barcellona, ad esempio”.
Come mai non sei rimasto in patria?
“Allora la Lituania attraversava un momento storico difficile, poco dopo l’indipendenza, e così il richiamo degli USA era molto forte. Furono anche i miei genitori a spingermi perché andassi a studiare lì [all’inizio alla Solanco High School a Quarryville Pennsylvania, ndr], ed è stato davvero particolare vivere in posti dove c’erano praticamente solo studenti. Al college, a Maryland, eravamo 25.000, è davvero qualcosa di speciale. In Europa non sono così tanti quelli che continuano a studiare e giocare contemporaneamente, negli States invece bisogna dedicarsi al 100% a entrambe le cose”.
Da quello che abbiamo visto con foto e video, la tua accoglienza ad Atene è stata paragonabile a quella di un capo di stato.
“È stato incredibile, non mi era mai capitato di assistere a qualcosa del genere. Ma che volete farci, i greci sono così. Sapevo che ci sarebbe stata un po’ di gente all’aeroporto, ma sinceramente non potevo pensare che sarebbero stati così tanti. Avevano circondato la mia macchina, alcuni ci sono addirittura saltati sopra! È stato strano, completamente sorprendente”.
Ora, dopo Pesic e Gershon, lavori con Obradovic.
“Zeljko è l’allenatore più onesto di tutti. È una persona molto schietta, forse è anche la più semplice. Non pensa a inventare cose strane, abbiamo degli schemi semplici che si basano su ripetuti pick and roll. È stato un buon giocatore, capisce le nostre esigenze dentro e fuori dal campo, non è uno che ti tiene sette ore in palestra – anche se comunque si lavora duro. È un grande piacere giocare per lui, un uomo e un allenatore che rispettavo molto ancora prima di firmare per il Panathinaikos. Penso sia prima di tutto una grande persona, e per questo voglio davvero regalargli delle vittorie importanti”.
Il Panathinaikos ti ha preso per questo.
“E io adesso voglio solo vincere. Niente sostituisce il pensiero della vittoria, la festa con i compagni, la gioia dei tifosi. Sono stato fortunato a poter giocare così tante volte per vincere in passato e anche oggi so di avere delle possibilità importanti con questa squadra, che voglio sfruttare”.
Sei arrivato ad Atene come una sorta di icona – o meglio, forse un talismano: se hai Jasikevicius, allora vinci…
“La gente non riesce a capire quanto sia difficile, perché in tanti pensano che, avendo grossi giocatori, le grandi squadre siano destinate a trionfare. È vero che io ho vinto tre volte di fila l’Eurolega, ma solo l’ultima volta [2004-05, ndr] è stata tutto sommata semplice: perdemmo l’ultima partita a febbraio [10 febbraio 2005, Barcellona-Maccabi 81-79, ndr], superammo Pesaro 2-0 per andare alle Final Four e così rendemmo le cose molto facili”.
Non è sempre stato così, però.
“A Barcellona ricordo due partite contro l’Olympiacos in cui rischiammo grosso, in una eravamo sotto di 12 a 5 minuti dalla fine e siamo riusciti a vincere. E non parlo neanche del tiro di Derrick Sharp contro lo Zalgiris nelle Top 16 2004: è stata l’unica volta della mia vita che ho pensato a un miracolo, sono rimasto letteralmente sconvolto da quel tiro. Per una settimana ho ripensato solo a quello, a come siamo riusciti a vincere quella partita e quindi a qualificarci per la Final Four di Tel Aviv. La gente davvero non si rende conto di quanti sforzi servano per vincere, sono davvero fortunato ad aver giocato in queste squadre. Sicuramente ci ho messo del mio, ma non avrei vinto niente senza i campioni intorno a me”.
Eppure si parlava male anche del tuo Maccabi: tanti dicevano che non difendevate.
“È vero, un sacco di gente ha detto questo di noi. Io dico: andate a vedere le cifre, le percentuali che abbiamo concesso agli avversari e certi parziali che abbiamo messo a segno. Penso che il mio Maccabi sia la squadra che ha giocato il basket migliore che io abbia mai visto, non so se qualcuno riuscirà ad arrivare a quel livello. In tutti gli sport di squadra si dice che per vincere bisogna essere cattivi e sporchi, difendere prima di tutto. Guardate nel calcio quante partite decisive finiscono per 1-0. Noi eravamo l’esatto opposto: avevamo dei passatori straordinari, eravamo davvero completi, avevamo realizzatori, atleti, grandissimi tifosi capaci di spingerci oltre i nostri limiti. Ancora oggi, quando mi riguardo gli highlight o delle intere partite, mi vengono i brividi”.
Perfino le vittorie di Barcellona e Tel Aviv a qualcuno non bastavano…
“Per questo il successo di Mosca l’ho assaporato in maniera particolare. Perché le critiche non mi sono mancate nemmeno dopo due titoli consecutivi: si diceva che avevo vinto solo le Final Four in casa. La verità è che ognuno può trovare difetti in tutto, se volessi potrei trovarli anche in Michael Jordan. Per questo la vittoria ‘fuori casa’ è stata particolarmente importante”.
Barcellona, al di là delle vittorie, rimane la tua città preferita. È stato un addio difficile?
“Barcellona è nel mio cuore. Semplicemente, Pesic ha voluto un giocatore più difensivo per il suo sistema, così hanno firmato Ilievski. Di sicuro non c’erano problemi di accordo tra me e il presidente Laporta per il mio ingaggio, magari a posteriori è stato il favore più grande che il coach mi abbia mai fatto”.
Hai mai provato a pensare a quello che farai dopo la tua carriera?
“Sì, e sinceramente spero di restare nel basket, perché questa è la mia vita. Sono stato in questo mondo ogni giorno, da quando avevo sei anni”.
E cosa ti piacerebbe fare? L’agente? L’allenatore?
“L’agente? No, no…guarda che roba [ride, indicando il suo procuratore Maurizio Balducci, ndr], c’è da diventare matti con questo lavoro. Non so neppure se avrei la pazienza per fare l’allenatore. Magari il general manager, oppure lavorare per sviluppare le relazioni tra Eurolega e NBA, o comunque tra l’Eurolega e il resto del basket mondiale. Ecco, quello mi piacerebbe”.
JASI, L’AMERICANO
Come hai vissuto il tuo approdo nella Lega?
“La NBA per me era una sfida, una bella opportunità che non mi si era mai presentata. Avevo molte offerte, il problema era centrare o sbagliare la scelta. Andai ai Pacers dopo che con Rick Carlisle parlammo molto spesso al telefono e mi trovai benissimo con le sue idee. Una volta negli States, però, mi resi conto che era successo la stessa cosa che accade quando ti vogliono reclutare al college: al telefono ti dicono tutto quello che vuoi sentirti dire, poi arrivi sul posto e la situazione è il contrario di ciò che ti aspetti”.
In che senso?
“Ho un grande rispetto sia per Donnie Walsh (GM), per Larry Bird (Presidente) e per l’organizzazione dei Pacers, che credo abbia pochi eguali nella NBA. Ma non capisco perché hanno firmato dei giocatori in contrapposizione con lo stile del loro allenatore. Loro due volevano un basket veloce e aggressivo, divertente per i tifosi, mentre Rick voleva un ritmo controllato, alla serba. In più, in uno spogliatoio con gente come Ron Artest, Jamaal Tinsley, Stephen Jackson e Jermaine O’Neal, forse ci voleva un allenatore con maggiore personalità”.
Un errore, quindi.
“Ho sbagliato ad andare lì, senza dubbio. Se avessi scelto un’altra squadra le cose sarebbero andate diversamente. Penso comunque di aver dimostrato di poter giocare, anche se spesso mi usavano come guardia. Per un mese e mezzo Carlisle mi disse di voler giocare tanti pick and roll, di voler correre, ma non si fece mai niente di tutto questo”.
Da lì ai Golden State Warriors, altra situazione infelice.
“Ti dico un aneddoto per spiegare come funziona la NBA. Appena scambiato a Golden State sono andato a parlare con Don Nelson. Lui, seduto di fronte a me, mi fissò serio e mi chiese: ‘Allora, che sai fare?’. So bene che il fatto di essere arrivato lì era anche una questione di salary cap più che tecnica, ma lui con me fu sincero. Mi disse: ‘Il mio miglior giocatore è Baron Davis e fa il playmaker, il mio miglior prospetto è una guardia che sto cercando di far giocare da play, Monta Ellis. Giocherai quando uno dei due sarà indisponibile’. Ed è stato di parola: quando Baron si fece male giocai un po’, poi passai il tempo a sventolare asciugamani. Questa è stata la mia NBA ed è un po’ frustrante che sia andata così, perché penso che da un’altra parte avrei potuto essere un giocatore importante”.
Di certo non potevi esserne soddisfatto.
“Chiaro, però ho fatto più di 7 punti e 3 assist di media con Indiana in meno di 20 minuti, ho giocato il Rookie Game, insomma, non è che proprio non ho fatto nulla. La gente si aspettava di vedermi come al Maccabi ed è stato un dispiacere giocare poco, ma penso di aver dimostrato di essere a quel livello”.
Forse era semplicemente una realtà troppo diversa.
“La NBA è un mondo strano. Secondo me solo cinque o sei club giocano per vincere, tanto è vero che sono sempre gli stessi a disputarsi l’anello. Le altre franchigie sono nelle mani di ricconi che vogliono far divertire i propri figli con la loro squadretta, o qualcosa del genere”.
JASI, IL LITUANO
Parlaci del tuo rapporto con la Nazionale.
“È bellissimo giocare per la Lituania: lasciarla era il lato negativo di andare al college, ma allora non capivo l’importanza di giocare in Nazionale. Adesso per me non c’è nulla di più importante, nessuna squadra di club può essere paragonata alla tua Nazionale. Si tratta di continuare quello che Sabonis e Marciulonis hanno iniziato, la gente da noi è molto orgogliosa della squadra, pazza per il basket – e poi giochiamo una bella pallacanestro”.
Sembra anche che le critiche non vi tocchino.
“Quando perdiamo o giochiamo male tutti a scrivere che nello spogliatoio qualcosa non va o che c’è egoismo da parte di qualcuno. In undici anni non ho mai vissuto una brutta atmosfera con la Nazionale, perché è fatta di gente che ha passato una vita a giocare contro o insieme, dalle giovanili in su, tra Vilnius, Kaunas o Klaipeda – insomma, gente cresciuta insieme. Quando ci ritroviamo siamo peggio dei bambini…”.
Per dire di quanto siete rispettati da noi, la vittoria dell’Italia sulla Lituania nella semifinale olimpica del 2004 è stata celebrata forse più degli Europei del ’99.
“Quella volta contro l’Italia abbiamo giocato malissimo, non abbiamo fatto ciò che serviva. Abbiamo pagato caro il nostro cattivo atteggiamento in difesa, sprecando una grossa opportunità di vincere le Olimpiadi”.
Non ci siete andati lontanissimi neanche in Australia nel 2000. Semifinale persa d’un soffio contro gli USA…
“Ogni volta mi si ricorda quel tiro da metà campo a Sydney contro gli americani. Non penso ci fosse una sola possibilità che potesse entrare, o meglio, la probabilità era la stessa di scalare l’Everest. Eppure tutti a dirmi che ho avuto tra le mani la palla della vittoria!”.
Forse perché, quando l’arancia è nella mani di Jasi, di solito quello che segue è un canestro…