Perché vedevamo poco (contiene sport, radio, internet e occhi chiusi)

“Good”.

Una parola sola, una parola semplice.

Raccontava il tiro da tre punti di Robert Horry che sanciva la vittoria per 100-99 per i Los Angeles Lakers nella finale della Western Conference contro i Sacramento Kings.

Una rimonta da -24 coronata da quel tiro, per nulla costruito e del tutto fortuito nello sviluppo di una azione che aveva precedentemente visto sbagliare quelli che in quel momento erano il numero 1 e il numero 2 del Gioco (in quale ordine scegliete voi), ovvero Kobe Bryant in avvicinamento e Shaquille O’Neal dopo il rimbalzo d’attacco.

La smanacciata di un grande ex Lakers come Vlade Divac spedisce la palla proprio in direzione di. Horry e… “Good”. Senza questo episodio, probabilmente, non avremmo vissuto il “three-peat” gialloviola e magari avremmo visto vincere un titolo a una delle più entusiasmanti squadre dei primi anni di questo millennio, i Kings allenati da Rick Adelman con gente come Mike Bibby, Doug Christie, Predrag Stojakovic, Chris Webber e, appunto, Divac. Non lo sapremo mai.

Torniamo però al punto di prima, quel “Good”.

Non lo troverete in nessuna telecronaca perché a pronunciarla non fu un tele bensì un radiocronista. Già, e noi come lo sappiamo?

Lo sappiamo perché quella sera ero a Milano, per la precisione in via Deruta, insieme a Gianmaria Vacirca, Massimo Pisa e altri inquilini più o meno fissi del grande open space che ospitava varie redazioni e personaggi che poi, a vario titolo, avrebbero avuto un ruolo nel mondo dell’informazione sportiva.

Quella sera, prima di ogni “League Pass”, molto prima che arrivassero la fibra ottica e il 5G, internet offriva comunque dei modi ragionevoli per seguire quasi tutti gli eventi sportivi. Il play-by-play, che oggi appare del tutto obsoleto, era qualcosa di rivoluzionario. Allora, sempre in quegli uffici milanesi, si era stati in grado di produrre le dirette in streaming del campionato di Serie A di basket, irradiate “worldwide” e gratuitamente grazie ai diritti acquisiti da MP Web. Eravamo, però, in un momento in cui ancora troppa gente viaggiava a 56k e dunque non era in grado di fruire di quel prodotto.

Non c’erano i social network (allora si aggiornava il proprio nome di MSN Messenger o ICQ anziché lo stato di Facebook), e perfino la NBA doveva ancora esplorare la propria capacità di produrre contenuti multimediali e trasmetterli online.

Esistevano già le pay-tv e le dirette, certo, ma naturalmente c’era sempre qualche altra partita che si voleva vedere più di quella “in catalogo”.

NBA.com, però, offriva a chi soffriva (in senso clinico, probabilmente) una soluzione per alleviare la mancanza di immagini in diretta, se proprio non si poteva fare a meno di aspettare gli highlights e se la partita non era prevista dall’offerta televisiva (come era il caso di quel Lakers-Kings).

Sul sito ufficiale della Lega, infatti, era possibile accedere alle radiocronache di tutte le partite. Straordinario. Immergersi in quel mondo non già attraverso le immagini ma grazie alle voci, ai suoni, al rumore.

No, non era la stessa cosa e no, non è un momento di nostalgia. Anzi, si trattava solo di un palliativo per la fame che avevamo di vedere quella partita, un problema che oggi per fortuna non sussiste.

Quelle radiocronache le ho usate anche per lavoro, perché – pensai – se nessuno può vedere le partite, quanti ce ne saranno che passano la notte ad ascoltarle per poi scriverci sopra? Non so se la risposta fosse superiore a uno, una parte di me se lo augura e un’altra parte spera di no, perché dopo tutto a ognuno di noi fa piacere pensare di essere stati gli unici almeno in qualcosa.

A quelle notti ho ripensato questa mattina, mentre le raccontavo a un ragazzo che per un puro fatto anagrafico non può aver conosciuto l’era dei pionieri di internet e di certo non poteva sapere come si stesse nei primi anni ’90, la domenica sera, mentre si aspettavano con ansia i risultati e il commento alla giornata del campionato di Serie B2 di basket dalla voce del “signor Lazzaro”, storico commentatore per Radio Vela ad Agrigento (e a preallertare gli ascoltatori sull’inizio del programma veniva proposto sempre lo stesso pezzo: “Let’s Groove” degli Earth Wind & Fire) sapendo che non c’era altro modo di avere quelle notizie in modo più veloce.

Non era un modo né più giusto, né più umano, né più romantico: era semplicemente il modo più avanzato – per i tempi di allora – di avere le informazioni nel più breve tempo possibile.

Suona irreale in un’epoca in cui puoi guardare una partita Under 14 sul proprio cellulare (chiedo scusa, smartphone).

Sta di fatto che avendo avuto come abitudine la radio (e ancora grazie al Signor Lazzaro) per seguire la squadra per la quale si faceva il tifo, pareva naturale affidarsi a quel mezzo anche per seguire eventi di ben altro livello, oltre che essere una sfida personale (non quella con l’insonnia, persa da sempre, bensì quella con la comprensione dell’inglese).

Oggi la radio esiste ancora, mentre la qualità (nonché la quantità) dello streaming ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza.

I nostalgici diranno che forse era meglio prima, quando le cose le immaginavi prima di vederle (o a volte le immaginavi e basta), e tutto ciò avrebbe stimolato fantasia, creatività, originalità di pensiero.

Oggi abbiamo le immagini, sempre, tutte, per cui siamo messi di fronte ai fatti non opinabili: dunque, meno immaginazione.

Oppure, forse, la straordinaria opportunità di utilizzare il fatto per argomentare, alimentare la dialettica, il confronto su basi oggettive, tenersi il sentimento per quello che vale e per quello che è, vale a dire una fondamentale componente umana che in nessun caso deve assumere valore “scientifico”.

Troppo complicato? Forse, ma sto dormendo poco e questa frase è uscita un pò così. Vorrà dire qualcosa, o forse no.

Magari provate a leggerla, anzi, a chiudere gli occhi e farvela leggere. Se siete sufficientemente romantici vi sembrerà di ascoltare una radio e questo pensiero apparirà perfino magico.

Se invece appartenete a quelli che si avvicinano al cinismo come stile di vita, probabilmente finirete a prendervi in giro da soli prima che lo faccia la persona che avete costretto a leggervi questa roba mentre osservava i vostri occhi chiusi e l’espressione contrita alla ricerca di un qualche significato mistico.

Pietro

Francesco Repice e Mario Balotelli

La copertina del libroMentre i tifosi italiani riscoprono Mario Balotelli – e lui si lascia riscoprire volentieri – ripubblico qui un piccolo estratto del libro “Inter, quella notte” (Libreria Dello Sport, 2011) scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice. Proprio il radiocronista Rai ha dedicato un pezzo a Balotelli, un “endorsement” in tempi non sospetti, non di certo un’improvvisa salita sul carro. Per questo, oggi, ve lo ripropongo qui così com’è in pagina, senza grassetti né aggiunte da parte mia.

Pietro

QUANTO CASINO PER MARIO

“Buuuuuuuuuu buuuuuuuuuuuuuuu”. Pomeriggio di una domenica qualsiasi a Verona; Chievo Verona-Inter. È sufficiente che Balotelli prenda la palla per scatenare la stupidità e l’ignoranza senza lacune di (per fortuna) pochi spettatori col cervello annacquato da chissà quali inarrivabili stronzate. Il cronista, verghianamente parlando, non fa altro che sottolineare quanto sta accadendo lasciandosi andare, poco verghianamente, ad un minimo di commento ovviamente sdegnato. Niente tuttavia che possa in qualche modo innescare la reazione piccata del presidente Campedelli, il quale a fine partita scende in sala stampa per dire che no, gli ululati razzisti non sono partiti dalla bocca dei tifosi di casa, bensì dai supporters interisti all’indirizzo di Luciano (ex Eriberto) e che sì, ancora una volta, i mezzi di comunicazione di massa se la sono presa con il povero Chievo senza azzardarsi a scalfire il granitico monolite morattiano con critiche extracalcistiche alla sua tifoseria.

Il cronista, presente alla tumultuosa conferenza stampa, fa sommessamente notare che gli ululati li ha sentiti con le sue orecchie e che il suo dovere è quello di portarli a conoscenza di chi ascolta a prescindere da dove partano e a chi siano indirizzati, perché questo è il sacrosanto diritto di chi sta seguendo la partita in radio ed è anche l’imprescindibile obbligo di chi quella partita sta raccontando. La signora Bedi Moratti, anche lei nei pressi, annuisce e il cronista si sente in qualche modo gratificato da una vicinanza così autorevole.

Ecco, tutto questo per dire che Mario Balotelli non è un mio amico; che con Mario Balotelli non ho mai parlato, all’Inter, al Manchester City, come in Nazionale; che Mario Balotelli avrebbe tutti i motivi per essere un ragazzo felice (soldi, notorietà e calci al pallone); che Mario Balotelli dovrebbe apprezzare di più ciò che la natura e la fortuna gli hanno regalato. Tutto questo però per dire anche che Mario Balotelli, ogni volta che mette piede su un campo di calcio – esclusi quelli bellissimi della Premier League – viene fatto oggetto di “attenzioni” che, al di là di ogni umana comprensione, possono e devono essere considerate di stampo razzista. A meno che tutti non ci vogliamo nascondere dietro formulette di circostanza del tipo “gli ululati servono solo a scoraggiare l’avversario e non ad offenderlo”, oppure “gli ululati sono frutto dell’ignoranza di chi non conosce nemmeno il significato delladiscriminazione razziale” eccetera, eccetera…

Non è così! Quegli ululatisono figli dell’odio che come un tarlo velenoso sta rosicchiando dalle fondamenta le nostre curve. E l’odio ha una matrice ben precisa: proviene da ambienti riconoscibilissimi e rintracciabilissimi che stanno compiendo un’operazione subdola e strisciante: sfruttare il malcontento e la rabbia di parte della popolazione per seminare il germe dell’intolleranza e dell’odio razziale appunto. Non si spiegherebbero altrimenti striscioni apparsi persino in un’amichevole che la Nazionale di Cesare Prandelli ha recentemente disputato con la Romania. “Non esistono negri italiani”, quello srotolato in bella evidenza tra un gruppetto di non (colpevolmente) meglio identificati “Ultras Italiani” che hanno preso la cattiva abitudine – da un po’ di anni a questa parte – di seguire le partite degli azzurri.

Sarà bene che certi osservatorii facciano un salto di qualità e indichino a chi di dovere le culle di questi neonati dell’intolleranza che però rischiano di crescere e fare proseliti nei nostri stadi. Detto questo, il finale di Inter-Barcellona targato Mario Balotelli rischierebbe di far saltare i nervi anche al Mahatma Gandhi e di certo ha scatenato l’incazzatura nera, bianca, rossa, gialla e viola dei tifosi interisti senza distinzione di settore e di età. Un tiro da metà campo senza capo né coda; due tentativi di sottrarre palla all’avversario (Iniesta e Pedro!!!!!) di tacco a pochi metri dall’area di rigore di Julio Cesar; altrettanti mancati ripieghi sul giocatore blaugrana che se ne andava palla al piede senza incontrare la benché minima opposizione. Così sono andate le cose in quel convulso, drammatico, spettacolare, indimenticabile finale di partita tra la banda Mourinho e l’invincibile armata di Pep Guardiola.

E tutto questo con l’Inter in vantaggio per 3-1. Vale a dire che un gol in più o in meno in quei casi fa (come poi è puntualmente accaduto) tutta la differenza del mondo. E tutto questo in una semifinale d’andata di Champions League! Il cronista di cui sopra, mai dimenticherà gli sguardi lividi di rabbia dei seguaci della

Beneamata, quando Balotelli, al fischio finale dell’arbitro, indispettito (?!?!?!?!?!) dalla reazione degli spalti di San Siro decide di mettere in atto il gesto più profondamente insultante per un tifoso: scaraventare la maglia a terra, oltraggiarla, sancendo così di fatto il suo addio a Milano. Si narra che il dopo-partita di Inter-Barcellona sia stato alquanto turbolento per Mario Balotelli. Si narra che alcuni suoi compagni di squadra si siano fatti sentire con l’attaccante bresciano… e quando diciamo “sentire” usiamo un eufemismo. Del resto, la storia interista di Balotelli, specie con José Mourinho in panchina, è stata tutta un saliscendi di condanne e perdoni; di carezze e rimproveri; di bastoni e carote. E lui, SuperMario, nulla ha mai fatto per smussare gli spigoli di un carattere indubbiamente particolare: dal finale di Inter-Barcellona, al blitz di Striscia la notizia con tanto di maglia milanista al collo, ai novanta minuti di Inter-Siena con lo scudetto 2009 già cucito sul petto e lo Special One ad imprecare nonostante un gol segnato, perché quel pallone avrebbe dovuto metterlo in porta Ibra in corsa per la classifica cannonieri ed invece Balotelli non seppe resistere alla tentazione di calciare il pallone verso il portiere avversario piuttosto che porgerlo deferentemente al suo più famoso collega di reparto che, nel frattempo, si era già graziosamente accordato proprio con il Barcellona per andare a vincere l’unico trofeo che tutt’ora non può esibire nella sua lussureggiante bacheca: la Coppa dei Campioni.

Che storia. Grazie a quella partenza, l’Inter di Moratti ha potuto ingaggiare tale Samuel Eto’o e vincere la Champions League l’anno seguente dopo centottanta minuti da delirio proprio contro il Barcellona di Zlatan. Sono le storie infinite che può regalare il calcio quando la logica del campo condurrebbe su una strada diversa da quella del Santiago Bernabeu. E dire che Mario Balotelli, un piccolo paragrafo di quella magnifica storia è, nel bene e nel male, riuscito a scriverlo. Da qui i rimpianti, finanche la rabbia per non essere riusciti a trattenere un talento così scintillante nel campionato italiano. Ci sta provando Cesare Prandelli a restituire Mario Balotelli a quello che è e rimane il suo Paese.

La maglia azzurra è forse l’unica capace di convincere SuperMario a convogliare tutta la sua forza in un progetto italianissimo come quello della nazionale. Gli Europei, il Mondiale brasiliano, obiettivi ambiziosi e nobilissimi che sono entrati nella testa e nel mirino di un giocatore straordinario quanto inquieto. Sarebbe bellissimo vederlo esultare, vincere, gioire con la maglia azzurra sulle spalle. Da titolare, da protagonista, da italiano vero. Alla faccia dei “buuuuuuuuuuuuuuuu”; alla faccia di quelli che “non esistono negri italiani”; alla faccia dei neo-razzisti che infestano i nostri stadi e che per quanto pochi possano essere fanno venire il voltastomaco solo a sentirli e vederli nelle loro infami manifestazioni di intolleranza e disprezzo verso un ragazzo con la pelle nera.

Quando Mario capirà che zittendo questi personaggi, impartirà loro una lezione severissima di civiltà e riscatterà quei suoi colleghi e non, di certo meno famosi, che sopportano quotidianamente vessazioni di ogni genere, allora anche chi racconta e vede calcio con gli occhi puliti della passione potrà urlare al cielo che sovrasta uno stadio di calcio tutta la gioia di un gol, di una vittoria firmata Mario Balotelli. Io ci spero, ci conto. Io sto con Mario Balotelli.

Video Killed una cippa, altro che

Grazie a Carlo Genta e Franco Piantanida di Radio24. Grazie perché ho potuto riprovare la sensazione di stare in uno studio radiofonico. Mi è capitato qualche altra volta, negli ultimi tempi, di parlare al telefono con una radio, ma stare seduto davanti al microfono in un ambiente così ovattato da farti sembrare lontano chilometri dai tuoi abituali posti, no.

Più precisamente non accadeva da undici anni: a Parigi, per la piccola Aligre FM, ho condotto per quasi un anno un programma radiofonico settimanale, in diretta. Si chiamava “L’Italie en direct au quotidien”, andava in onda tutti i giorni tranne al sabato (la domenica, registrato, alle 10.30, gli altri giorni alle 6.30) e si parlava di Italia e di italiani, a beneficio di connazionali oppure persone che hanno origini nostrane, con l’obiettivo di condividere con loro almeno un pezzo della vita quotidiana che si erano lasciati (per un dato periodo o per sempre) alle spalle. A me, ovviamente, toccava lo sport.

La radio credo sia l’unico posto dove sai perfettamente di essere “disponibile” per chiunque possa ascoltarti, ma allo stesso tempo ti dà una sensazione di meravigliosa solitudine. Quella che ti permette di poter dire la tua con la massima serenità. Il calore delle cuffie ti fa sentire a tuo agio.

Il “ritorno”, poi, produce un effetto molto particolare: le tue parole ti arrivano con grande chiarezza, quasi scandite, pulite. La conseguenza più ovvia è che se c’è una cosa che succede in radio, è che parli a te stesso. La bellezza sta proprio in questo. Non significa parlare da soli, anzi, è come quelle parole, le stesse che stai pronunciando, ti dicano: “Eccoci, siamo noi. Lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba. Ecco quello che stai dicendo. Speriamo che sia uguale a quello che stai pensando, perché da adesso non sono più solo parole tue. Sono fuori, andate. E chi le ha ascoltate penserà a te associandoti a quelle parole, buone, cattive, giuste o sbagliate che siano”.

La radio, insomma, ti libera e ti responsabilizza: ti fa dire tutto quello che vuoi e ti mette di fronte alle cose che hai detto nello stesso momento. Se un giorno dovessi tornare a “fare radio”, sarebbe bellissimo. Intanto, grazie di cuore a chi mi ha permesso di vivere una bella ora parlando di ciò che mi appassiona da sempre.

Se avete voglia di ascoltare la puntata di “Palla a Spicchi” di questo venerdì su Radio24, cliccate qui.

Pietro