Suggerimento: “Klitschko”, il film

Per me, da vedere.

Perché racconta una bellissima storia d’amore tra fratelli. Il fatto che entrambi siano, contemporaneamente, detentori del titolo di campione del mondo dei pesi massimi (Wba, Wbo, Ibf e Ibo per Wladimir, Wbc per Vitali) la rende assolutamente unica.

Mi piace perché è una storia vera. Mi piace perché se questi due vengono percepiti come robot, di solito, finalmente queste immagini restituiscono loro la passione, la dedizione, il calore, il talento che dovrebbe essergli sempre riconosciuto.

Vitali che dice al fratello ormai grande “I nostri genitori mi hanno detto di prendermi cura di te da bambino, e non mi hanno ancora detto di smettere“, le immagini dell’uno e dell’altro a bordo ring mentre il consanguineo è a pochi metri di distanza al centro dell’azione, commuovono. Almeno me.

Ci vuole coraggio per dire al proprio fratello di andarsene via perché disturba, quando fino a quel momento hai diviso con lui ogni momento della tua vita. Ce ne vuole per toccare sportivamente il fondo, essere bollato da tutti come un perdente e diventare un campione, come ha fatto Wladimir. Il campione, anzi, visto che sembra ormai intoccabile.

Serve un gran cuore per combattere battaglie perse una dietro l’altra nei meandri della politica in Ucraina, accettare questa sfida mettendoci la faccia e talvolta il corpo, sapere di essere forse impotente di fronte a logiche diverse, magari perderla sempre ma non smettere mai di credere che la lotta sia giusta. E tornare dopo anni, e un ritiro dovuto a un grave infortunio, per riprendersi una cintura lasciata senza combattere. Come ha fatto Vitali.

Serve un gran carattere per resistere alla dura disciplina di un padre militare quando il mondo era ancora quello dell’Ovest contro l’Est in tutti i campi, quando il mondo era quello di Chernobyl. E quel padre – con spirito di sacrificio – accetterà il suo destino di esporsi a quella contaminazione, ricavandone un cancro che lo ha portato alla morte l’anno scorso. E serve il doppio del carattere per resistere alle tentazioni e alla voglia di cambiare, una volta usciti dall’Ucraina e scoprire che il mondo, là fuori, non sembrava poi così male come era stato descritto.

Serve un orgoglio incredibile per riproporsi sul ring dopo le sconfitte orribili riportate da Wladimir Klitschko contro Sanders e Brewster. Servono due palle così per continuare a combattere come ha fatto Vitali contro Lennox Lewis, finché non lo fermarono con una ferita spaventosa sopra l’occhio sinistro.

Serve un amore infinito per prendere un cellulare in mano e chiamare la mamma appena l’incontro è finito. E per chiedere a lei come sta.

Servono pugni devastanti per battere tutti gli avversari possibili. Serve un gran senso dell’ingiustizia per dire che è colpa di questi due meravigliosi uomini se i pesi massimi e la boxe sono in crisi, come se vincere sempre dominando fosse una colpa.

Per me, il regista Sebastian Dehnhardt ha fatto un bel lavoro nel cercare di raccontare tutto ciò.

Pietro

Io e la boxe: cosa cercavo, cosa ho trovato

Amanti delle figure retoriche, accomodatevi. Fuori.

Vi racconto i miei primi quattro mesi di pugilato, ma gli stereotipi non ci sono, o almeno non sono quelli che di norma affollano le storie di pugilato.

Almeno una cosa in comune con Roberto Cammarelle, star della nazionale italiana che tra poco sarà di scena alle Olimpiadi, ce l’ho: ho iniziato per dimagrire.

Non solo, però. La boxe, in me, c’è sempre stata.

È una cosa di famiglia: a oggi posso dire che tutto ciò che mi resta di un certo rapporto, che prevedeva – quando ero bambino – la visione comune con mio nonno de “La Grande Boxe” (con Rino Tommasi), e qualche grande incontro allora visibile sulle tv italiane. Eravamo in piena era Tyson.

Cos’è che mi piaceva nella boxe, da piccolo? Boh. Gli unici match che ricordo, tra quelli visti a quell’età, sono il secondo incontro tra Mike Tyson e Frank Bruno, quello tra Francesco Damiani e Daniel Neto, e poi un match dell’allora rampante Evander Holyfield che fece saltare i denti a un avversario. Ma non ricordo, mi spiace, il nome dello sfortunato.

Poche ore fa i denti stavano per saltare a me, colpa/merito di un gancio sinistro portatomi da Massimo, uno dei miei compagni di palestra.

Sembra strano, ma è lì che per la prima volta – da quando bazzico a Milano – ho trovato un posto oltre a casa mia dove sentirmi totalmente libero. Ci ho messo mezzo minuto a farmi passare l’ansia e l’imbarazzo per la mia ridicola forma fisica.

Tredici chili dopo non posso dire di essere davvero in forma, ma di certo non assomiglio a quello che ero quando per la prima volta ho varcato la soglia della “Ursus”.

No, non è un post pubblicitario. Ma non mi costa niente dire che lì ho trovato una serie di persone che al sacco, saltando la corda o sul ring mi hanno subito fatto sentire uno di loro.

Ho spesso dato la colpa a Milano del mio senso di solitudine, non so se sia veramente colpa della città o del mio carattere, comunque è bello pensare di sentirmi meno solo quando indosso fasce, guanti e paradenti.

Anche se (eccola, la retorica) ovviamente sei solo quando i colpi li dai, ma soprattutto quando li prendi. Sempre Massimo, quello del gancio, una sera mi ha detto: “Da quando hai preso il primo vero pugno in faccia ti sei svegliato, hai cominciato a sentirti vivo”. Non saprei dire se prima non mi ci sentissi, ma sì, in un certo senso ha ragione.

E se ho ancora paura – lo ammetto – quando mi arriva qualche colpo particolarmente pesante, beh, mi passerà.

Ho vinto la vergogna per il mio corpo, ho vinto la paura di buttarmi a fare pugilato dopo non aver praticato seriamente nessuno sport, ho vinto anche la paura quando ho “sentito” il primo pugno di un certo peso, che mi ha procurato il primo occhio nero della mia vita.

Vincerò anche la paura di farmi troppo male. Perché stare sul ring mi piace. La mia collega Stefania Bianchini (che commenta la boxe con me a Eurosport, ed è stata campionessa mondiale di boxe e kick boxe) mi ha detto una volta una cosa illuminante: sul ring si trova la libertà di esprimersi, al contrario di tante realtà molto più rigorose e codificate (lei faceva riferimento alle arti marziali, ma di esempi se ne potrebbero fare altri).

Quando partono quei tre minuti sai che sarai tu, la paura dei pugni, il tuo avversario. Non resta che muoversi, studiare, capire, leggere le situazioni e tirare fuori il meglio che si ha dentro. Non diventerò mai un vero pugile, del resto non è per questo che ho intrapreso questa mia piccola avventura.

Volevo solo trovare un modo di migliorare me stesso. Sapevo che avrebbe fatto bene al mio fisico, non sapevo che mi avrebbe reso più libera la testa.

E per questo, al mio maestro Francesco e a tutti gli altri che lavorano in palestra con me, istruttori e allievi, non posso che dire grazie. Di cuore.

Pietro

Momenti che avrei voluto raccontare

Mi hanno sempre affascinato i perdenti, o per meglio dire gli sconfitti. Quelli che stanno dalla parte sbagliata del destino, o di un poster. A volte sono loro che hanno alle spalle le storie migliori, o comunque quelli che sul medesimo evento sportivo potrebbero avere cose più intense, emozioni più forti da raccontare. Punto di vista del tutto personale, ovviamente. Ma a me affascina il momento decisivo, e la prima cosa che cerco di guardare è la faccia di quella, di quello o di quelli a cui va male. Ecco, a braccio, una piccola lista di “highlights” che avrei voluto poter raccontare insieme a chi li ha vissuti, col registratore acceso.

Trevor Berbick mentre cerca di trovare l’equilibrio prima del knock-out, nel match perso contro Mike Tyson (che quella sera diventò per la prima volta campione del mondo).

Gigi Di Biagio che colpisce la traversa tirando l’ultimo rigore di Francia-Italia al Mondiali del 1998.

Le sensazioni dell’intera nazionale francese di basket dopo l’incredibile tiro di Diamantidis che ha permesso alla Grecia di completare la rimonta nell’ultimo minuto della semifinale degli Europei 2005.

Bryon Russell che prova a marcare Micheal Jordan: non ho bisogno di spiegare altro. Se non conoscete l’episodio a cui mi riferisco è solo colpa vostra.

Sergei Liakhovich che crolla a pochi secondi dalla fine della sua difesa del titolo WBO dei pesi massimi contro Shannon Briggs. Avrebbe vinto ai punti.

Il nervosismo di Martina Hingis nella finale persa a “Roland Garros” nel 1999 contro Steffi Graf. Anzi, non era nervosa: proprio incazzata nera. E al pubblico francese non pareva vero di poterla fischiare in libertà.

I tiri liberi di Nick Anderson in gara-1 della Finale NBA tra Orlando Magic e Houston Rockets, nel 1995.

Ex aequo, Europei 2000: Van Der Sar che prova a salvare l’Olanda sciagurata ai rigori in semifinale contro l’Italia, e Toldo che deve arrendersi al 94′ della finale contro la Francia dopo quell’impresa miracolosa. Prima di farlo ancora nei supplementari, ma la partita “vera” era finita.

David Robinson che non riesce a venire a capo di Hakeem Olajuwon nella Finale della Western Conference 1995 tra San Antonio Spurs e Houston Rockets.

Roger Federer e la finale di “Roland Garros” contro Rafael Nadal nel 2011. Quei primi due set, porca miseria…

Pietro

Preview #MayweatherCotto: l’opinione di Vittorio Parisi

Meno un giorno al match tra Floyd Mayweather (42-0, 26 k.o.) e Miguel Cotto (37-2, 30 k.o.),  che a quanto pare non sarà trasmesso da nessuno in Italia (Grazie,  eh), non rimane che cercarsi uno streaming. Detto questo, per presentare al meglio uno dei più grandi eventi pugilistici dell’anno mi sono avvalso dell’esperienza di Vittorio Parisi, che è stato mio compagno di telecronaca a Eurosport e ha una conoscenza straordinaria del pugilato – oltre a essere Direttore d’Orchestra, lavorando in Italia e all’estero, e insegna Direzione d’Orchestra al Conservatorio di Musica “Giuseppe Verdi” di Milano.

La copertina di "Gong!"Vittorio scrive su Boxeringweb e ha fatto parte del “Championship Panel” di “The Ring Magazine” (la più importante rivista di boxe al mondo, da sempre), unico italiano. Vi consiglio, tra le altre cose, il suo libro “GONG! – Una storia dei pesi medi e dei pesi massimi” (Bradipolibri, 2010 – 18 euro). Prima della piccola intervista, è giusto fare la mia brutta figura con il mio pronostico: vorrei tanto vincesse Cotto, possibilmente con uno spettacolare knock-out, tanto per battere la noia. Ma credo che vincerà “Pretty Boy” in 8-9 riprese.

Dunque, Floyd Mayweather affronta Miguel Cotto e poi va in carcere, dal 1° giugno: come si affronta un avversario del genere sapendo questo?

“Credo che Mayweather sia concentrato sul match che farà, il pensiero dei pochi mesi di carcere, che non sarà nemmeno duro, sarà sicuramente ammorbidito dal pensiero dei soldi che comunque incasserà”.

Tra i due, almeno da quanto hanno lasciato trasparire, c’è molto rispetto. Sembrano due personalità compatibili, Cotto bada più alla sostanza, Floyd fa il Floyd: cioé fa vendere il match anche con il suo modo di essere.

“È Mayweather ad avere scelto di combattere con Cotto, e in questo periodo non ha molto interesse a comportarsi male in pubblico”.

Cotto, dice Mayweather, va considerato imbattuto perché Margarito lo ha sconfitto imbrogliando e Pacquiao ha voluto un peso concordato. Ha ragione o vuole solo rendere il match più appetibile?

Vuole rendere appetibile un match che si doveva fare 5-6 anni fa, non adesso. È però vero che Margarito ha probabilmente barato anche nel match contro Cotto, ma la lezione subita da Cotto contro Pacquiao non dipendeva certo dal peso. E poi nessuno ha obbligato il portoricano a firmare per quel peso”.

Il portoricano è un picchiatore, ha un gran pugno, ama portare l’avversario alle corde e bombardarlo. Ha una chance di riuscirci contro il miglior “schivatore” al mondo?

“Cotto è più un demolitore che un picchiatore e certo non può pensare, viste le sue caratteristiche e quelle del suo avversario, di vincere combattendo sulla media e lunga distanza. Però Mayweather è uno dei pugili che nella storia si trova meglio spalle alle corde e questo rende maledettamente difficili le cose per il portoricano”.

Banalmente: chi vince, e perché?

“A mio avviso Cotto ha possibilità se nei primi round riesce a rendere questo match un vero inferno ma per farlo dovrà comunque pagare un prezzo molto alto. Se entrambi sono al meglio della loro attuale condizione Cotto non ha più del 20% di possibilità di vincere. Quindi direi Mayweather anche se preferirei il rovescio. Lo statunitense non mi è simpatico, ma i match non si vincono con la simpatia”.

Pietro

Mayweather vs. Cotto. “PPV King vs. Superwelterweight Champion”

Interessanti, come sempre, i confronti proposti dalla pay-per-view americana HBO per promuovere i grandi eventi della boxe.

Il 5 Maggio (anzi, il “Cinco de Mayo“) l’imbattuto Floyd Mayweather Jr. (42-0, 26 k.o.) affronterà Miguel Cotto (37-2, 30 k.o.) con in palio la cintura Wbo dei pesi superwelter. Curioso, perché il match avrà luogo a Las Vegas (MGM Grand) dove “Pretty Boy Floyd” vive e nella stessa arena in cui ha combattuto le ultime cinque volte.

Curioso soprattutto perché si tratta del suo secondo incontro di sempre in questa categoria di peso. L’altro? Sempre un “Cinco de Mayo”, nel 2007. Affrontò il leggendario Oscar De La Hoya, oggi organizzatore di successo con la “Golden Boy Promotions”, e vinse per split decision, cioé ai punti con decisione non unanime.

Il cartellino di Chuck Giampa (116-112 per Oscar) andrebbe battuto all’asta: rimane l’unico giudizio sfavorevole per Mayweather in tutta la carriera. Come forse saprete, Mayweather andrà in carcere a giugno, in seguito a una condanna per tre mesi (violenza domestica).

Curioso davvero come si possa vivere da “Money” (l’altro suo soprannome) sapendo di dover andare dentro, anche se per un periodo relativamente breve, e pensare a un avversario difficilissimo come Cotto.

Lo considero imbattuto“, dice Mayweather, “perché ha perso contro Pacquiao in un match con il peso concordato voluto da Manny e contro Margarito che ha imbrogliato“. Il rispetto che emerge dalle parole dell’attuale campione Wbc dei welter nei confronti di Cotto è totale, tanto che ha deciso di affrontare l’incontro al limite delle 154 libbre (peso ideale per il portoricano) perché non ci siano scuse o polemiche successive.

Tornando alla HBO, prodotti come questo sono utili, utilissimi a far conoscere i personaggi (e le persone) dietro ai singoli eventi. Utili a generare interesse. A chi starò parlando? Ai soliti tre o quattro, già lo so. Pazienza.

Comunque sia guardatelo il confronto (qui sotto), e se vi riesce guardatevi anche il match. Tra un rigore per il Barça e un ennesimo scoop su Balotelli.

Pietro

Seth Mitchell. L’uomo che vorrebbe essere Re

Basta, non se ne può più. L’America è stanca. L’America ha bisogno di nuovi eroi. L’America vuole un nuovo campione. Non che non ce ne siano, nella boxe come in tante altre discipline, ma manca “quello vero”, il dominatore, il pezzo grosso. Il peso massimo, insomma.

L’America vuole un nuovo “heavyweight champion of the world” capace di riempire le arene, dare alle persone un motivo di spendere decine di dollari per il pay-per-view, smetterla di pensare ai tempi che furono, stroncare il dominio di Wladimir e Vitali Klitschko, dallo stile talmente noioso che la HBO non vuole nemmeno più trasmettere i loro incontri negli States.

“Tutti vogliono i campioni americani nei pesi massimi: se i Klitschko fossero americani, tutti sarebbero pazzi di loro”. Parola di Seth Mitchell: e chi è, direte voi? Seth è un pugile, peso massimo, compirà 30 anni il prossimo 29 maggio. Tra poco più di un mese, il 28 aprile, affronterà Chazz Whiterspoon (30-2 il record, 22 k.o.) in quello che sarà certamente il test più attendibile di una carriera iniziata quattro anni fa.

Mitchell non aveva tra i suoi sogni quello di diventare il nuovo Joe Louis. La boxe gli è capitata per caso. Giocava a football, e anche molto bene, come linebacker per la squadra della Michigan State University. Uno dotato, uno bravo, tanto che al suo ultimo anno di liceo (Gwinn Park High School a Brandywine, MD) era stato scelto come “Defensive Player of the Year” dalla Associated Press per lo stato del Maryland. Uno che, però, ha visto la sua carriera finire sul nascere dopo varie operazioni al ginocchio sinistro. Ma il football, in un certo senso, lo ha portato sul ring.

Dopo aver chiuso la sua esperienza universitaria con in tasca una laurea in “Criminal Justice”, Mitchell se ne stava a casa sua la sera del 10 giugno del 2006, a guardare la televisione. C’era la boxe. Ma soprattutto c’era il debutto da professionista di Tom Zbikowski. E chi è, ridirete voi?

“Tommy Z” aveva incrociato Mitchell sui campi di football, quando portava i colori di Notre Dame nel campionato NCAA. Ha firmato da poco per gli Indianapolis Colts nella NFL (gioca nel ruolo di defensive back), dopo aver giocato per i Baltimore Ravens. Quel 10 giugno, però, Zbikowski salì sul ring contro Robert Bell: vinse al primo round per k.o. tecnico.

“Vederlo combattere mi ha rimesso in circolo la voglia di competizione: se c’era riuscito lui, potevo farcela anche io”, pensò Mitchell. Da notare che quello fu l’unico incontro di Zbikowski fino all’anno scorso, quando a causa del lockout della NFL è tornato sul ring per alimentare la sua voglia di sport: altre tre vittorie, due delle quali prima del limite, combattendo tra i pesi massimi-leggeri.

Il primo di Seth allenatore è stato Andre Hunter, stupito dalla facilità con cui riusciva a stendere dei professionisti in allenamento. Mitchell ha portato sul ring i colori degli Spartans di Michigan State (bianco e verde), e pure il suo vecchio numero sui calzoncini (il 48).

La sua crescita come pugile è impressionante: negli ultimi nove incontri ha vinto sempre prima del limite, boxando per un totale di venti round (solo una volta si è andati oltre il terzo), mandando al tappeto un avversario dopo l’altro. L’ultimo è stato Timur Ibragimov (30-4-1), elemento dal record rispettabile anche se non si può dire che appartenga al gotha del pugilato. Non è durato nemmeno due round. Il record complessivo degli ultimi nove avversari schienati da Mitchell, al momento di salire sul ring con lui, era di 169 vittorie, 65 sconfitte e 12 pari. Pochi, dunque, gli avversari davvero comodi, record alla mano. Il suo, di record, parla di 24 vittorie e 1 pari, con 18 successi prima del limite.

Mitchell sembra essere, oggi, l’unica vera speranza nel panorama dei pesi massimi statunitensi, dopo che negli ultimi cinque anni si sono avvicinati ai fratelli Klitschko Chris Byrd, Calvin Brock, Ray Austin, Lamon Brewster, Tony Thompson, Hasim Rahman, Eddie Chambers, Chris Arreola, Kevin Johnson e Shannon Briggs, tutti respinti con perdite.

Rahman, tra l’altro, è stato l’ultimo statunitense ad avere alla vita una cintura tra le più prestigiose (Wbc), mentre Briggs vinse in maniera rocambolesca la cintura Wbo nel 2006 contro Sergei Liakhovich, all’ultimo secondo di un match che stava perdendo ai punti su tutti e tre i cartellini, per poi perderlo subito in una resa incondizionata contro Sultan Ibragimov. Nessuno di quei nomi, comunque, poteva rappresentare una seria minaccia per gli ucraini.

Per affrontare i Klitschko servono sia la velocità che la potenza: io le ho entrambe”, assicura però Mitchell, che dovendo boxare invece che placcare ha dovuto anche modificare il suo regime di allenamento. “Ho dovuto allungare i miei muscoli rispetto al corpo che avevo già preparato per il football”, ha spiegato. Comincia presto, con la sveglia alle 4:30 per la corsa mattutina.

Quando ho iniziato a boxare l’ho fatto pensando di poter avere successo in questo sport, e quando lo lascerò spero di stare in salute, di avere una buona sicurezza economica e di essere stato il miglior pugile possibile”. Se il “migliore possibile” significherà “new heavyweight champion of the world”, però, ancora non lo sappiamo.

Pietro

(Ringrazio i riferimenti forniti da Boxrec.com per i virgolettati. Fonti: mlive.com, msuspartans.com, AFP)

Triste giorno per i cultori del genere: si ritira David Tua

David Tua Retires: Taking a Look Back at His Career – Boxing News.

Il 39enne pugile battente bandiera neozelandese David Tua lascia l’attività dopo 52 vittorie (43 prima del limite, 4 sconfitte e 2 pareggi. Finisce l’era di uno dei personaggi “cult” della boxe mondiale, per il suo look e per la struttura fisica decisamente inusuale per un pugile di alto livello (178 cm per 110.8 kg al peso ufficiale del suo ultimo incontro, quello perso contro il non eccezionale Monte Barrett).

Sul ring si è fatto valere per la potenza del suo pugno, che lo ha portato anche a sfidare Lennox Lewis per il titolo dei pesi massimi: perse nettamente ai punti l’11 novembre del 2000. Prima ancora, nel 1992, sorprese tutti a Barcellona, prendendosi il bronzo olimpico.

Nel link qui postato in cima a questo articolo trovate la sua intervista su Boxingscene.com, in cui parla della sua decisione di lasciare l’attività.

Non so dire perché ci si affezioni così tanto ad atleti come Tua: forse perché non avendo dei fisici “strutturati”, per quello che sarebbe il normale livello richiesto dalla competizione, danno una speranza a tutti di poter arrivare in alto, con tanto allenamento e sacrificio. Quindi, almeno per questo, va ringraziato.

Pietro

Cose che rischiate di dire o sentire parlando di sport

Nessuno è esente da responsabilità. Nemmeno io. A tutti capita di essere ignoranti in qualche materia o semplicemente supponenti. Mi sono venuti in mente alcuni concetti (o frasi, o abitudini) che ancora resistono e che ho ritrovato anche molto recentemente parlando dei tre sport che seguo abitualmente per lavoro, ed ecco le mie piccole Top 10. In grassetto le mie preferenze. Chiedo scusa per tutte le volte che ho peccato.

CALCIO

Il problema della coppa.
Gli episodi.
L’essere cinici.
Il carattere.
La parola Scudetto (Che, notoriamente, non si pronuncia).
La piazza.
Gli pseudonimi del catenaccio.
La tecnologia snatura il gioco.
L’inaspettata rapidità delle persone intelligenti nel ragionare per stereotipi.
I giovani si bruciano.

BASKET

“Di là”, “Al piano di sopra” (Cioé nella NBA).
“Non capisco quando è passi, è troppo complicato” (Te lo spiego, non serve la laurea).
“La NBA è un circo”.
“In Europa non sanno giocare, non schiacciano come gli americani”.
“Gli americani non sanno giocare, schiacciano e basta”.
Il parlare del basket che fu descrivendo ogni squadra come un’orchestra.
Il parlare del basket che fu descrivendo ogni giocatore come un artista.
Il parlare del basket che fu descrivendo ogni allenatore come un maestro.
Tradurre le partite in equazioni che si vogliono infallibili. Chiaramente dopo.
Anche qui, i giovani si bruciano.

BOXE

“Il nuovo Tyson”.
“Il Tyson bianco”.
Tyson, come idea generale.
“Ma ve lo rompono ancora il setto nasale?”.
“Si rischia a corteggiare le donne pugili! Ah Ah Ah”.
“Non è più la boxe di Foreman e Alì” (E te credo).
I Klitschko (qui Wladimir e qui Vitali) sono scarsi.
La boxe non interessa più a nessuno (Non è vero/1 -Non è vero /2).
“Ah, si, il filippino” (Manny Pacquiao).
“Sì, però i welter mica sono i massimi” (Eh, no. Rassegnatevi).

Pietro

C’era Milan-Juve, chissenefrega di loro. Giusto? Giusto un…

Per evitare equivoci, io capisco, ci mancherebbe. Capisco che il calcio sia lo sport più popolare d’Italia e del mondo, capisco che ci sono milioni di tifosi ovunque ansiosi di sapere come va a finire la sfida tra le prime due squadre del campionato italiano, lo capisco perché interessava anche a noi alla Porsche Arena di Stoccarda.

TUTTI I RISULTATI DI STOCCARDA

Quello che non accetto, però, è il fatto di considerare che siccome c’è quella partita di calcio tutto il resto non esiste. E non esiste perché “non ci interessa”. Una cosa che mi sono sentito dire da diversi colleghi con riferimento alla riunione di boxe che sono andato a vedere: dunque “non ci interessa” il mondiale dei pesi massimi (certo, nella versione Wba e senza i Klitschko, ma parliamo comunque di top della categoria), non interessa che ci siano due pugili italiani nel sottoclou. Un pensiero sul mondiale: per quattro persone diverse che fanno quattro lavori diversi aveva vinto Marco Huck, i cartellini di tre e quattro punti a vantaggio di Povetkin sono fantasie senza senso.

Allora parliamo di due ragazzi che accettano sfide difficilissime, a volte al di sopra delle loro possibilità, perché cercano di avere (e giocarsi) almeno un´opportunità, oltre che fare qualche soldo. Roberto Cocco (seguito a Stoccarda da Maurizio Tasso), per esempio, lavora alla Fiat e fa il combattente: dico combattente e non pugile perché pratica anche Thay e Kickboxe, ed è pure parecchio bravo (ha combattuto due settimane fa (contro Arthur Kyshenko). Se avesse avuto, come i tedeschi, un promoter in grado di proteggere il suo percorso di carriera con avversari alla portata, e la capacità di aumentare il numero delle vittorie, oggi sarebbe in una buona posizione di classifica e non dovrebbe semplicemente fare da test per un pugile come Robert Woge, ex campione tedesco dei dilettanti, che non è nulla di speciale. Woge ha vinto, Cocco non ha fatto uno dei suoi migliori match, pace. Nello sport si vince e si perde.

Salvatore Annunziata, invece, lavora al mercato con suo padre tutti i giorni, e si allena almeno due ore in palestra con Biagio Zurlo a Torre Annunziata. Ha perso pure lui, contro Jack Culcay (ex campione mondiale dei dilettanti), in un match in cui con un po’ di lucidità in più avrebbe potuto fare meglio. Ha preso un diretto destro al settimo round che lo ha mandato al tappeto, poco dopo l´arbitro ha fermato tutto. Pure lui è venuto qui, sapendo molto poco del suo avversario (perché come immaginerete durante il mercato c’è poco tempo per fare scouting), e lo ha fatto perché sta cercando “una soddisfazione. Mi dicono: ma che ci vai a fare? A perdere? E perdo, ma almeno vengo qui a giocarmela con avversari di buon livello, davanti a migliaia di persone, con l´incontro trasmesso alla tv tedesca. Magari fa piacere ai tanti napoletani che vivono in Germania vedere uno delle nostre parti in televisione, no?”.

Una soddisfazione, magari, potrebbe essere un’altra chance per il titolo italiano. Oppure qualche altra opportunità di venire a prendere una buona borsa in Germania a fronte di quelle miserie che si offrono dalle nostre parti.

A quelli che si offendono e bollano chi critica lo sport italiano come “esterofili” consigliamo di venire a vedere una volta tanto come funzionano le cose, dove funzionano. Perché tra il servizio “navetta” in Porsche e il fare tutto da soli ci deve pur essere una via di mezzo. Perché è totalmente ingiusto ricordarsi che in Italia si fa pugilato (o scherma, o atletica) solo quando ci sono le Olimpiadi. E perché la difesa di impianti vetusti e organizzazioni difettose non può più essere giustificata con “le tradizioni”, “il sapore delle sfide antiche”.

E perché i Roberto Cocco, i Salvatore Annunziata e tutti gli altri pugili che provano a essere professionisti perché amano quello che fanno meritano di essere rispettati, e aiutati una volta che hanno dimostrato di avere delle qualità. Come la merita lo spagnolo Roberto Santos (che di lavoro fa il guardiano di notte in un campeggio), venuto a Stoccarda per affrontare il pompatissimo Dominik Britsch per il titolo dell´Unione Europea per andarsene via con un pari. Perché aveva vinto, ma non avendo nessuno alle spalle finisce che se pareggia gli va pure bene. Quindi, se per caso si trovassero due minutini di tempo tra un ricorso della Juve per uno scudetto di sei anni fa o qualche altra urgentissima polemica a proposito di griglie arbitrali, fuorigioco e “quanti rigori a noi e quanti rigori a loro”, le “istituzioni” sportive potrebbero anche cercare di capire come aiutare queste persone, e chi vuole essere come loro, magari sognando di diventare come Francesco Damiani invece che come Roberto Pruzzo.

Pietro

Dovevo venire a Stoccarda per risentirla

Il faccia a faccia tra Marco Huck e Alexander Povetkin dopo il peso. Sulla destra la cintura Wba

Oggi pomeriggio, in un angolo non troppo comodo di un centro commerciale di Stoccarda (per una volta non esaltiamo la perfezione tedesca) sono state effettuate le operazioni di peso dei pugili che saranno di scena domani sera alla Porsche Arena, il cui main event possiamo identificarlo nell´incontro valido per il titolo dei pesi massimi Wba tra il detentore russo, l´imbattuto e medaglia d´oro olimpica 2004 Alexander Povetkin, contro lo sfidante Marco Huck, campione dei massimi-leggeri Wbo salito apposta di categoria.

Non sono mancate le cose curiose: prima di tutto Salvatore Annunziata (superwelter) non ce l´ha fatta a presentarsi in tempo. Il suo avversario Jack Culcay, tedesco imbattuto in dieci match, ha dovuto fare da solo. Motivazione del mancato arrivo del pugile campano? Stando allo speaker ufficiale sarebbe stato vittima di un caso di omonimia e fermato per un controllo al momento di prendere il volo per la Germania (in realtà si è trattato solo di un piccolo problema con un documento).
La locandina ufficiale dell´evento al centro commerciale

In albergo, insieme ad altri due validissimi connazionali come Alessandro Ferrarini (matchmaker) e Biagio Zurlo (allenatore e manager di Annunziata), ci sono anche Oleksiy Mazikin, peso massimo ucraino che affronta un altro tedesco imbattuto, Edmund Gerber, lo spagnolo Roberto Santos (sfidante di Dominik Britsch, imbattuto pure lui, per il titolo dell´Unione Europea dei pesi medi) insieme a moglie, padre e staff, mentre il medio-massimo torinese Roberto Cocco era pure lui in ritardo a causa di una coincidenza da Parigi e non ha fatto in tempo a cambiarsi prima di arrivare al peso. Il suo avversario, manco a dirlo, imbattuto: Robert Woge.

Con tutti questi imbattuti verrebbe il sospetto di avere a che fare con tanti fenomeni, tanto che l´incontro di Britsch viene messo in scaletta come ultimo e quindi main event vero e proprio, dal momento che ci si aspettano molti tifosi per lui. Ma di fenomenale, a prima vista, ha solo il taglio di capelli. Altri come Marcos Nader e lo stesso Gerber bisogna ancora valutarli contro avversari di alto livello. Bisogna vedere se Santos lo puo´ spettinare o meno. Di Povetkin e Huck, magari, parlo domani prima, se riesco durante e poi dopo l´incontro.

Intanto vi segnalo che Santos ha indicato come sua musica ufficiale per la salita sul ring un superclassico come “Eye Of The Tiger”. Se non la conoscete, sia chiaro, rimane un vostro problema. Mentre Annunziata porta una chicca assoluta. Chi ha visto Karate Kid sa di cosa parlo. Signore, Signori, direttamente dalla voce di Joe Esposito: “You´re The Best Around”. Eccola.

Pietro