Gianluca Basile & “Tiro Ignorante” (ENGLISH)

(from “Euroleague Basketball Magazine“, Season 2, Show 11)

Ignorance is bliss.

Don’t worry, we are still referring to basketball because EA7 Emporio Armani veteran guard Gianluca Basile trademarked his “own” shot calling it the ‘Tiro ignorante’, which means the ‘Ignorant shot’.

He usually tries this shot not only when his team needs three more points but also when everybody needs a boost of energy.

Generally in basketball it is a team effort that produces the basket be that a pass or penetration. Instead of which, you invent this shot all by yourself. I would not really recommend it because it is a bit stupid and you risk an air ball. You shouldn’t really try it“.

Basile became a legend in Italy, both with his previous club Fortitudo Bologna and the National Team, because of his amazing decisive shots.

A lot of it is down to work, for sure, but most of all it has to do with something called ‘instinct’.

It is impossible to train for this. You can train for other things but this shot just came out of nowhere“.

When it comes to long range shooting ability you better listen to what a player like Gianluca Basile has to say.
He has scored plenty of “ignorant shots” in his career but if he did that it is because he knows all the fundamentals of the game by heart.

When you are on the floor you know where the basket is. You don’t have to look for it, all it takes is a millisecond to look up and you know where it is. In the end it all comes down to skill“.

[#siamoquesti colpisce ancora] Grazie per lo spunto a @fabrianobasket e @theoriginalpoz

Ho letto una bella intervista a Gianmarco Pozzecco fatta da Stefano Valenti, sul sito della Lega Nazionale Pallacanestro. Ci sono alcuni passaggi che ritengo collegabili al pensiero espresso precedentemente in merito all’utilizzo dei giocatori italiani nei nostri campionati.

Dice coach (importante sottolinearlo) Pozzecco.

Su Di Bella che scende di categoria.

“Di Bella ha salvato Montegranaro. E’ gente che non gioca in A perché ci sono 5 stranieri che, in dollari, guadagnano meno. Non perché sono più forti”.

Su come vengono utilizzati i giocatori italiani.

“La differenza non la fanno i minuti giocati, ma il tipo di palloni che passa nelle loro mani. A Varese, Andrea Meneghin veniva prima degli stranieri. Oggi non accade più. Oggi solo Hackett ha questa considerazione, meritata. La quarta opzione di un attacco non saprà mai cos’è la pressione. E non farà mai quel salto di qualità. Qui l’italiano è la terza opzione. A volte anche la seconda. E vogliono viverla”.

E poi, attenzione, sui giovani. Lui ne ha, a Capo d’Orlando.

“Non so quanto giocherà Cefarelli. Come Laquintana o Ciribeni. Però hanno un ruolo. Avessi avuto sei visti, avrebbero chiuso il roster. Ma io dico che quelli dell’Under 20 dovrebbero giocare in A, non da noi. Però in questo Paese non s’avverte la necessità di interessarsi dei giovani, piace di più l’americano di 24 anni”.

Sul punto uno: sembra tutto chiarissimo. Se ci sono società di Serie A che iniziano il mercato dicendo di avere a disposizione un budget di 300.000 euro per la squadra, se abbiamo avuto una finalista scudetto con un milione di euro per la squadra, che ci si rivolga a giocatori meno costosi anche indipendentemente dal valore è appena ovvio.

Tutto ciò è evidentemente figlio di un sistema che annaspa, dove per troppo tempo si è scelto di abbassare l’asticella anziché tenerla dove avrebbe dovuto stare. A furia di abbassarla, ora si rade il suolo. A pagarne il conto sono gli atleti. Si può giocare una finale scudetto e non arrivare a 40 mila euro di ingaggio? Sì. Ma è giusto? Assolutamente no.

La vita dello sportivo è breve, bisogna ricordarselo. E se possono suonare scandalosi certi ingaggi che appartengono ad altri sport (o agli sport americani), di sicuro devono suonare scandalosi casi come questo. La Serie A è il massimo. E quando si arriva al massimo si deve poter ambire a guadagnare molto, specie se si richiede un livello di investimento personale e di efficienza molto elevato. Vale per tutte le professioni.

Sul punto due: su questo Poz ha ragione in gran parte (perché abbiamo già visto che per diversi giocatori non è così, la considerazione nei club ce l’hanno). L’esperienza non è allenarsi con gli americani e guardarli dalla panchina. L’esperienza non si fa a 22-23 anni. A quell’età sei già un giocatore, oppure no. L’esperienza è superare la strizza di avere in mano il pallone che vale la partita. E averlo il prima possibile, per superarla prima possibile, e per essere determinante in più partite possibili.

Poi, intendiamoci, avere il pallone in mano non significa solo tirarlo. Significa averlo nelle azioni decisive, anche per passarlo, per non perderlo sotto pressione, per tenerlo quando l’avversario ti carica come una sveglia e cercare di segnare subendo fallo. Cose che si devono imparare presto.

Per restare a Pozzecco, la prima stagione tra i professionisti in doppia cifra per punti è quella con la Baker Livorno: 10.7 in 18.1 minuti, a 21 anni. Ma se non ne avesse giocati 10.3 a partita già nel 1991-92 con la Rex Udine, forse non li avrebbe fatti. E oggi, mi ripeto, l’aspetto fisico/atletico è decisamente più importante di quanto non lo fosse allora. Serve gente che salti, che corra E che sappia tenere la palla in mano. Per segnare, palleggiare o passare. Di sicuro per non perderlo.

Sul punto tre: eh, ma allora? Se anche la squadra allenata da Gianmarco Pozzecco, medaglia d’argento olimpica, icona della nostra pallacanestro, fa questo (legittimo) ragionamento, da quale parte deve arrivare l’inversione di rotta? Poi è chiaro che la risposta al punto tre è contenuta in parte nel punto uno.

Molti stranieri costano poco, o accettano meno di alcuni italiani. Facile, ci sono molti più giocatori stranieri e le squadre sono sempre quelle. Le fette della torta sempre più sottili. Altrimenti detto, il mercato è spesso saturo. Quindi è chiaro che bisogna accettare questa concorrenza, se si vuole ragionare a livello economico.

Oppure, l’alternativa esiste, si fa con meno giocatori, da intendersi anche come cambiarne meno nell’arco di una stagione. Investendo su quelli che costano magari di più, ma che possono renderti anche di più sul medio-lungo periodo. Per fare questo, occorre anche saper accettare un concetto molto semplice: le scommesse sono belle perché si possono anche perdere. O, se preferite, vincere più tardi.

Pietro

40 anni di Poz, e la sua ultima partita (di @MicheleGazzetti)

Michele Gazzetti, giornalista di Sportitalia e soprattutto amante della pizza al taglio del Woodstock, mi ha riproposto il pezzo che scrisse la sera dell’ultima partita giocata da Gianmarco Pozzecco, ad Avellino con la sua Capo d’Orlando. Ve lo ripropongo qui, insieme al video del Poz che racconta in prima persona il suo addio al basket alla trasmissione “Sotto Canestro”, su La7.

Pietro

La fantasia nel basket è morta al minuto 36’14” di gara 3 tra Avellino e Capo d’Orlando. Meo Sacchetti, coach dei siciliani, chiama il cambio e se per Fabi è solo un ingresso in campo, per Pozzecco è la fine di una carriera, il passo d’addio del talento più anarchico ed esteticamente trascinante del basket italiano. Gianmarco si toglie la canotta blu svelando una maglietta artigianale che è una sorta di testamento cestistico scritto con il pennarello nero su tessuto bianco. Tra le scapole non ci sono le otto lettere del suo cognome ma solo la scritta Chicco, dedicata al suo ex compagno e amico Ravaglia scomparso in un incidente stradale nel 1999.

E poi una serie infinita di ringraziamenti: “Grazie per avermi sopportato. Grazie di tutto. Grazie Enzo“. La dedica per il presidente che l’ha voluto e coccolato e che non era presente al palazzetto perché agli arresti domiciliari.

Il basket si sente già orfano del personaggio più picaresco e istrionico che abbia mai calcato i parquet italiani, uno di quelli che o si odia o si ama alla follia. Come testimoniano d’altra parte le sue parole a caldo, intriso in un oceano di lacrime e sudore: “Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno cercato di capire in questi 30 anni, forse nessuno ci è riuscito. Chiedo scusa se ho sbagliato, l’ho fatto solo perchè avevo un amore spasmodico per questo sport“.

Per i profani della palla arancione, è come se si fosse ritirato il Roberto Baggio del basket. Due personaggi diametralmente opposti ma uniti da un grandissimo feeling con la poesia applicata allo sport.

Pozzecco, triestino classe 1972, aveva iniziato a predicare basket in serie A nella stagione 90/91 con la Rex Udine. Da lì una sfolgorante carriera con due perle indimenticabili: nel 1999 lo scudetto vinto con la “sua” Varese e nel 2004 la medaglia d’argento leadereggiando l’Italia alle Olimpiadi. Nel 2002, proprio contro Avellino, il record di punti in serie A, 42. Dopo l’esperienza in Russia, questa sua ultima stagione trionfale in cui è stato osannato in tutti i palazzetti italiani, anche da chi l’aveva insultato per anni.

Finisce la favola della Mosca Atomica, l’uomo che più di ogni altro ha saputo essere uno spot vivente per la pallacanestro. Uno dei pochi per cui vale la pena domandarsi che basket sarebbe stato senza lui in campo. Ci mancherai tantissimo Poz.

Auguri Poz (contiene intervista amarcord)

Gianmarco Pozzecco e la mia coppola. Belle coseIl 15 settembre 2012 Gianmarco Pozzecco compie quarant’anni. Solo per l’anagrafe, perché quanti anni possa avere il Poz nella sua testa lo può sapere davvero solo lui. Ho avuto la possibilità di conoscerlo lavorando per il mensile Dream Team, curavo la sua rubrica (potete immaginare il livello dei contenuti!), e una volta abbiamo fatto una intervista vera e propria. Quella che vi ripropongo qui sotto.

Ovviamente gli dedicammo la copertina, con la foto che vedete qui di fianco, scattata da Matteo Marchi: ritrae un Poz con la coppola (la mia, tra le altre cose), in omaggio alla sua stagione siciliana con Capo d’Orlando. Era la vigilia del suo ritorno da avversario contro la Fortitudo Bologna, ci incontrammo nel suo albergo. Totalmente immarcabile: mentre rispondeva alle mie domande dava consigli all’allora GM Vacirca su dove portare la fidanzata a mangiare, intratteneva altri clienti dell’hotel a caso, rompeva le palle ai compagni di squadra che passavano di lì. Marchi non ne poteva più.

Mi piace anche ricordare un’altra cifra tonda: 50, ovvero il numero della rivista che lui “diresse”. Dream Team chiuse i battenti qualche mese dopo, ma quella del “Pozzecco direttore” rimane una delle cose più divertenti che abbia mai fatto. E mi ricordo la sua emozione vera nel vedere le prime prove su carta di una rivista-tributo interamente dedicata a lui, in una stanza della vecchia sede dell’Olimpia Milano in via Caltanissetta. Poz piace a molti, altri lo detestano. Per me, semplicemente, è un grande.

Auguri Gianmarco!

(Intervista a Gianmarco Pozzecco, Dream Team 37, gennaio 2008)

Gianmarco, sei già tornato da avversario a Bologna, ora è il momento dell’ultima della carriera a Varese: cosa ti aspetti?

A Bologna l’ho vissuta come un preavviso di ciò che può succedere a Varese. Ci ho giocato quasi tre stagioni, ma ho instaurato rapporti quasi di fratellanza, ho conosciuto un sacco di amici che non vedevo l’ora di rivedere – Simone della Braseria, Ugo del Rivabella, Steve Fabiani, Abele Ferrarini, mille altri. Insomma, anche tornare a Bologna è stato qualcosa di molto particolare, ma dico e ribadisco che per me Varese è Varese”.

Nell’amore per la Effe la motivazione del tuo rifiuto alla Virtus Bologna.

Sì, ed è stata una scelta personale, nessuno mi ha mai condizionato. L’unico che poteva farlo era Giorgio Seragnoli. Andai a fatica a parlargli, chiedendogli se poteva essere un problema per lui, ma mi disse di no – forse solo se fosse stato ancora lui il presidente della Effe sarebbe stato diverso”.

Una notte difficile, comunque.

Sì, era un venerdì sera. Non sono stato bene per niente, e alla fine cambiai idea. Mi resi conto che era una cosa che non mi apparteneva. C’era una decisione da prendere, era un momento molto serio, ma quando mi immaginavo con la maglia della Virtus non mi accettavo. Non ho nulla contro la Virtus, l’ho detto 1.500 volte, però io alla fine ho giocato a Varese e alla Fortitudo, ed è giusto che uno come me abbia fatto una scelta di quel tipo, istintiva, perché io sono così”.

Quindi l’approdo in Sicilia, per tanti una pazzia.

Quando chiamai Enzo Sindoni gli dissi: ‘Le cose stanno così: posso andare alla Virtus, situazione vantaggiosa, gioco in Eurolega, mi allena una persona che stimo molto come Pillastrini, in una città dove ho casa, in una società che mi dà la possibilità di vincere…’. E lui: ‘Mi stai dicendo che vieni a Capo d’Orlando’. ‘Sì’. Una scelta che, fino a questo punto e al di là dei risultati, mi ha confortato. A giocare per le Vu Nere non ce l’avrei mai fatta”.

Da Bologna non te ne sei andato per scelta tua, ma di Jasmin Repesa.

Nella mia carriera ho vissuto momenti esaltanti e altri particolarmente brutti. Nel 1999, quando mi allontanai dalla Nazionale che poi vinse gli Europei, io ci rimasi di merda. Stessa storia nel 2003, quando Recalcati mi rifiutò prima dell’Europeo svedese; e poi ancora due anni dopo, quando Repesa mi mise fuori squadra prima dei playoff e loro vinsero lo scudetto. Sono stati tre momenti di difficoltà vera, di sofferenza”.

Però in qualche modo sei sempre tornato.

Ho sempre tratto energia positiva da queste situazioni. È logico che ho sofferto a vedere De Pol e Menego esultare da campioni d’Europa, appena dopo averlo fatto insieme per lo scudetto a Varese. Pensavo e penso tuttora che meritassi di giocare in quella Nazionale. Mi apparteneva di diritto, perché non vedevo così tanta gente più brava di me, onestamente. Però sono tutte cose che mi sono servite per crescere: quando le cose vanno male, non sempre tutto è negativo”.

È un pensiero che ora puoi rivolgere al tuo amico Belinelli?

A Marco dico proprio questo: per certi versi non giocare adesso è una cosa positiva. Ha ancora 21 anni e per lui non sono assolutamente preoccupato, ho tantissima fiducia. Anche lui ne ha nelle sue qualità, se è vero che ha detto di non voler essere considerato solo uno specialista. Deve solo riuscire a capire che tutto questo passerà, che avrà la possibilità di vendicarsi di tutto, prendendosi delle rivalse contro chi pensa che non è adatto a stare lì”.

Quindi tu confermi al 100% tutto ciò che sei stato, senza rimpianti.

Rifarei tutto: non sono andato in Francia nel 1999 e non ci andrei nemmeno adesso, ad esempio. Nella vita uno deve fare delle scelte: uso sempre l’esempio del contropiede tre contro uno con a destra Charlie Foiera e a sinistra Michael Jordan, in difesa Mutombo. Dai giustamente la palla a Jordan, che scivola e sbaglia. Riescono a dimostrarti, usando non so che tipo di macchinari, che se la davi a Foiera andava a segnare e vincevi la partita. Di conseguenza succede che la tua scelta per certi versi è sbagliata, ma la verità è che se hai Jordan a sinistra e dai la palla a Foiera sei un cretino!”.

Molto dipende anche dal momento.

Ci possono essere delle scelte che poi si rivelano sbagliate, ma rimangono giuste nel momento in cui le hai fatte. Io feci benissimo, secondo me, a non andare in Francia; Recalcati ha fatto malissimo a non chiamarmi in Svezia. Addirittura inventarono che rubai un pullman di notte, ma sul mio conto ne hanno dette di tutti i colori. Ma una spiegazione a tutto c’è…”.

Sarebbe?

Io ho venduto l’anima al diavolo per vincere lo scudetto a Varese, uno scudetto che mi permette ancora di vivere di rendita, perché altrimenti credo che mi sarei già ammazzato quattro o cinque anni fa. Rimane una cosa che mi resterà dentro per tutta la vita, e ho venduto l’anima al diavolo per riuscirci. Quindi tutte le sfighe che sono successe dopo sono arrivate perché il diavolo ogni tanto si presenta sempre con quel conto ancora da saldare. Io sono un dannato”.

Parole grosse.

Io ci credo veramente, anche perché quello scudetto ha tutto fuorché elementi di realtà. È assolutamente surreale. La stampa specializzata allora ci considerava una squadra di seconda se non di terza fascia, e devo dire che questa Pierrel ha delle analogie con quella squadra”.

In che senso?

Una su tutte è che stiamo bene insieme, come a Varese. Veramente, però, non per dire sempre ‘il gruppo di qua, il gruppo di là’: stiamo insieme perché ci piace”.

Altra tradizione e altra storia, però, Varese rispetto a Capo d’Orlando.

Senz’altro, è chiaro. Lì l’anno prima eravamo arrivati quarti e si giocava l’Eurolega, ma fondamentalmente nessuno ci considerava da titolo. Qui sulla carta siamo considerati ancora meno, però vediamo cosa succede”.

Peraltro anche senza di te la Pierrel ha fatto bene!

Meglio che abbiano iniziato senza di me! Perché poi sono arrivato io, a perdere 10 palloni a partita, tanto per far capire ai ragazzi con chi avevano a che fare”.

Ci spieghi una volta per tutte perché Pozzecco è un giocatore difficile da allenare?

Partendo dal presupposto che non sono un santo, sono convinto che a volte tutto viene portato all’esasperazione. Una volta per esempio Federico Danna [allenatore di Varese nella stagione 1999-2000, ndr] non mi mise in quintetto nella trasferta contro la Virtus Bologna. Io ebbi una reazione spropositata, quando poi mi rimise in campo mi tolse dopo tre o quattro minuti perchè avevo perso non so quanti palloni. Ho fatto scoppiare il finimondo, una cosa di cui mi vergogno tuttora. Quella sera lì il povero Hugo Sconochini venne trovato positivo al doping, e il giorno seguente sui giornali il titolo in grande era la mia lite furibonda con Danna, mentre in un angolo ‘Sconochini positivo’. Mah…”.

Cosa vuol dire quando dici che non sei un santo?

Beh, sulle critiche che ho ricevuto c’è sempre un fondo di verità. Ne ho fatte veramente di tutti i colori. Una volta rimasi a letto per un mese e mezzo con la broncopolmonite, prendendo quattro antibiotici al giorno, e nella prima partita che giocai al rientro restai in campo qualcosa come 28 minuti [20 in realtà, ndr], ma ero incazzato nero del minutaggio. Sono uscito di casa che ero un cadavere, ma io anche in quel momento ero convinto di essere il più forte di tutti. Andai da Charlie [Recalcati] il martedì e gli dissi ‘Qui non va bene: ho giocato 28, sei pazzo? Io devo giocarne almeno 35, altrimenti non gioco più!’. Mamma mia ragazzi…”.

A proposito di Hugo: l’hai visto su SKY a fare il commentatore?

Sì, per favore ditegli di tagliarsi i capelli”.

Finirai anche tu a commentare partite?

Spero non con quei capelli! Di Hugo posso anche parlarne male, è talmente un bel ragazzo! Però davvero, dalla TV non capivo se era Hugo Sconochini o una pecora: spero che ora gli abbiano tagliato la lana… So che sua moglie aveva un maglioncino nuovo, magari l’hanno fatto all’uncinetto con la lana di Hugo”.

C’è anche Boni che commenta, un altro che parla poco.

Mi dicono che massacra tutti. Mario Boni secondo me dovrebbero mandarlo a ‘Uomini e Donne’, sarebbe l’ideale. Una sera ce l’aveva anche con se stesso, ma è giusto così, è bello vedere qualcuno che apre bocca per dire quello che pensa. Non ha mai offeso nessuno”.

Boni ha detto che penserà al ritiro solo quando smetteranno di fischiarlo e inizieranno a dargli dei premi alla carriera.

Bene, allora organizzate voi che gliene diano, perché non se ne può più!”.

Pure tu aspetti i fischi e le targhe?

Io smetto comunque a fine stagione, che mi diano le targhe o meno. Anzi, per dirla con le parole del buon Commendator Zampetti [l’attore Guido Nicheli, ndr] che purtroppo non c’è più, vedo di tirar giù le ultime due targhe [a.k.a. ragazze] e poi smetto, perché da giocatori se ne beccano molte di più”.

Strage di cuori, a Capo d’Orlando?

Insomma… Da questo punto di vista è una città molto piccola, per cui non mi concedo facilmente. Cioè, mi concedo, ma diciamo che abituato alla Russia, dove c’era da star male, devo un attimino adattarmi… Poi, appena finisco di giocare, ho deciso che passerò un anno alla ricerca della donna della mia vita – e non è che sia molto semplice!”.

Tabellino del tuo primo ritorno a Varese: sconfitta di 16 e un ottimo 0/8 dal campo.

Beh, indipendentemente dalla partita l’accoglienza di quella sera rimane un ricordo incredibile e indelebile, l’emozione più alta della mia carriera insieme allo scudetto e al podio olimpico. Una cosa che non dimenticherò mai. Poi io sono un sentimentale, sembro quasi patetico certe volte: al palazzo erano tutti in piedi, io ho iniziato a piangere, tutto intorno a me c’era gente che piangeva… Insomma, è stato un momento pazzesco”.

E dire che due-tre campioni a Varese sono passati.

Anna Bonsignori, storica segretaria di Varese, venne a dirmi che i ritorni lei li aveva visti tutti, da Bob Morse a Meneghin, ma a una cosa del genere non aveva mai assistito. Per me Varese resta intoccabile, abbiamo costruito negli anni qualcosa di irripetibile, vincere con un gruppo di quel tipo è stato un’apoteosi”.

Però, ti diranno, gira e rigira hai vinto solo uno scudetto.

Ma non lo cambierei per nulla al mondo. Se me ne offrissero dieci altrove contro uno a Varese direi di no. Io litigavo sempre con Maurizia [Cacciatori, pallavolista e storica ex, ndr] che aveva vinto non so quanti scudetti e coppe. Ma le dicevo: tu hai vinto a Varese? No? E allora sta buona!

Non ammetti discussioni a riguardo.

Varese per me è la pallacanestro, non c’è altro. Poi sono affezionato a Bologna, a Udine dove ho giocato tre anni, sono sempre felice di tornare a Livorno, a Trieste ci sono nato… Ma Varese è un’altra cosa”.

Parlaci di com’è cominciata, allora, questa storia d’amore assoluta.

Varese è stata una crescita, non solo mia. Ho giocato con Toni Bulgheroni, con cui ho fatto anche il militare assieme; quando arrivai la prima volta venne suo fratello Edo a prendermi, che aveva due anni più di me. Mio padre ha giocato alla Robur e mi ha sempre parlato benissimo della famiglia Bulgheroni. Insomma, era tutto molto in famiglia. Poi Toni diventò prima DS e poi presidente, la nostra crescita è stata parallela – la mia e quella di Toni, Edo, Menego, Sandrino o di Zanus, che all’inizio doveva andare a Milano”.

Facevi parte dell’arredamento della Pallacanestro Varese.

Il clima era unico. Mi ricordo prima di gara-3 di finale scudetto: io, Bruno Arena dei Fichi d’India e tale Raimondo, a cena con altre cento persone. Questo Raimondo negli anni era sempre lì, col suo maglione rosso che mi inseguiva a bordocampo, quando facevo canestro praticamente esultavamo insieme, un personaggio mondiale. Quella sera si scherzava con tutti, Raimondo è uno che spara cazzate così buone che potrebbe fare TV ma insomma… quella era Varese. Finita la partita dello scudetto cena diciamo ‘ufficiale’ e poi tutti al nostro solito ristorante a festeggiare con la gente, i nostri amici. Poi si dice che non si vive di ricordi, ma vaffanculo! Di ricordi ci si vive, eccome – e ci godo pure!”.

Visto che smetti di giocare, i peggiori personaggi della tua carriera ce li dici?

Il più brutto in assoluto é Mergin Sina, il classico ‘scacciafighe’. Quando andavamo in giro facevo finta di non conoscerlo, in discoteca era impossibile beccare anche il più cesso che c’era se lui era nel raggio di un metro e mezzo. Però di una simpatia strepitosa… Aveva una cosa sola di bello, gli occhi verdi, ma in quella faccia lì sembravano due occhi pallati, da paura: vi giuro, una delle cose più terrificanti che abbia mai visto”.

E tra gli allenatori?

Nella Top Horror c’è di sicuro il momento in cui ho visto nudo Dado Lombardi, uno dei momenti più scioccanti della mia vita. Anche lui è un amico di famiglia, perché mio padre gli aveva fatto da vice in passato. Ci raccontò una storia in cui sosteneva di aver rotto otto denti a un tizio di Cantù, come se uno tirasse un pugno e poi contasse i denti rotti. Me la raccontò mentre si stava facendo massaggiare da Galleani, coperto dall’asciugamani, ma a un certo punto sradicò il buon Sandro, gettò via l’asciugamani e andò avanti nudo a raccontare. Avevo le lacrime agli occhi, una cosa indescrivibile”.

Basta così?

Beh no, merita una menzione speciale anche Charlie Foiera: situazione familiare allo sbando, con la mamma che fa i massaggi, il babbo che vende il cocco in spiaggia… [ride]. Il povero Charlie è rimasto sconvolto a vita dalla vista di un transessuale che stava con uno in giacca e cravatta nei bagni di una discoteca. E poi come dimenticare l’orchite di “Piccolo” Knezevic, una delle cose più brutte che ho visto nella mia vita”.

Chi ti è stato più vicino, tra i personaggi incontrati fuori dal campo?

È strano, perché io mi reputo una persona molto fortunata però alla fine mi trovo sempre con il nulla in mano. A Varese ho avuto amicizie pazzesche: Paolino, Andea Sterzi, Leo Fiore… Con loro e con Giorgino una volta abbiamo percorso il tratto Luino-Varese in tre ore e mezza anziché nei normali 25 minuti, perché ci siamo messi a cantare in ogni lingua possibile una canzone degli ‘All 4 One’! Personaggi magnifici, ma alla lunga – col fatto di andare a giocare altrove – ti allontani da tanti amici: prima li senti spesso, poi un pochino meno, poi addirittura finisce che li perdi di vista. Ho comunque un sacco di persone a cui voglio molto bene: Irma e Sergio, ad esempio, proprietari del ristorante dove andavo sempre a Livorno, che mi facevano sentire in famiglia. Una persona su tutte è Franco, purtroppo scomparso questa estate: per otto anni è stato un secondo padre, per me

Che Italia hai trovato dopo due anni in Russia?

A Mosca devo dire che è tutto un altro mondo. Un esempio: due persone che fanno un incidente sono capaci di bloccare per ore una strada a una corsia, perché non esiste che facciano la constatazione amichevole, e la gente rimane lì finché non arriva la polizia. Vivendo all’estero vedi cose che sul momento magari dai per scontate, poi però ti rendi conto quando torni che alcune cose all’estero funzionano diversamente – e ti chiedi come mai non sia lo stesso anche qui. Ti sei quasi dimenticato come vivevi prima”.

Adesso stai scoprendo il Sud.

Sono convinto che ormai in Italia cambiare città è quasi come cambiare nazione – tra Bologna e Capo d’Orlando sembrano due Paesi diversi. Capo d’Orlando è davvero un’isola felice. Io sono uno che ha paura di tutto – eppure mi è capitato di dormire con le chiavi appese fuori dalla porta di casa o di lasciare la macchina aperta con le chiavi nel cruscotto. Sono cose completamente sorprendenti per chi si immagina la Sicilia come il posto della mafia. Io, poi, sono passato da una città da 16 milioni di abitanti a una da 13.000. Qui c’è una familiarità incredibile, i miei vicini – che sono persone impagabili – ci sono per tutto quello di cui posso aver bisogno”.

Hai accennato all’inizio a Enzo Sindoni: che rapporto c’è con il tuo attuale presidente?

Credo che sia una persona estremamente sentimentale, molto genuina e affettuosa. Vi potrei leggere il suo ultimo messaggio, qualcosa di commovente: come si fa a non giocare per uno così?”.

Insomma, alla faccia di chi ha un po’ sorriso della tua scelta di firmare lì.

Dirò di più: adesso nel basket se ti danno 10 devi fare 10, se sul contratto c’è scritto che puoi andare due volte in bagno, alla terza ti multano – insomma, se fai o vuoi qualcosa di extra paghi. Qui sono venuti i miei genitori a trovarmi, io li adoro, ma dopo una settimana che ce li avevo per casa mi avevano fatto due palle grosse così… Sindoni lo è venuto a sapere, li ha portati a vedere tre appartamenti e li ospiterà fino a fine stagione!”.

Poz, ci avviamo alla conclusione, anche perché ti reclamano [squilla più volte il suo cellulare, la serata è lunga e il Poz è sempre molto richiesto, ndr]. Via ai quintetti: te escluso, i più forti che hai mai visto, giocandoci contro o assieme…

Io fuori? Ma stiamo scherzando? Sarei chiaramente il titolare!”.

Allora metti il tuo cambio e gli altri quattro titolari.

Allora: Michael Ray Richardson, Arijan Komazec, Charlie Foiera, Vinny Del Negro e Arvydas Sabonis. Anzi, togli Foiera e metti Danilovic!”.

E i più scarsi?

Facile: Foiera Charlie, Charlie Foiera, quello di Bertinoro a cui ho fatto da testimone di nozze, quello che gioca a Ferrara col numero 16, il mio compagno di squadra a Varese dopo lo scudetto”.

Il quintetto dei tuoi amici?

Oh Madonna, una volta era facilissimo, ne mettevo dieci e via! Adesso ragazzi miei, che dire… Proviamo: Orsini, Malavasi, Van Den Spiegel… Ce ne son troppi, dai… De Pol, Meneghin, Loncar, che va di sicuro in quintetto, Bill Edwards, Gorenc, il numero uno, Charlie Foiera… Ho giocato troppi anni, cavolo… Giovanni Sabbia, Bonsignori, Calbini… troppa roba… Delfino, Smodis, Basile… Sono troppi!”.

Van Den Spiegel ti ha mai dato una percentuale sullo stipendio, visti i pick and roll alla Effe?

Poteva davvero farlo! È diventato uno dei giocatori più ricchi d’Europa, guadagna un milione di euro! È un ragazzo di un’intelligenza fuori dal normale”.

Una curiosità: tu, Pecile, Cavaliero, Attruia… Tutti triestini e tutti playmaker, chi più chi meno. E tutti dei gran personaggi!

È vero, non siamo mica normali! Non so, sarà la bora che porta via le cellule, ci fa ingerire determinati virus. Forse è perché siamo isolati… Boh! Comunque è vero che non siamo normali. Prendi Attruia: una sera lo stavo cercando in discoteca al Pineta perché dovevamo andare via e l’ho trovato da solo in un angolo che leggeva un libro. S’è mai visto uno che legge un libro in discoteca?

Poz, per chiudere sul serio: le tue considerazioni guardando indietro tutta la tua carriera?

Quanto mi son divertito ragazzi! Avrei potuto far di più, di meno, non lo so, ma ne ho viste di tutti i colori. Credo che la qualità della vita è la cosa che conta di più, e poi ho giocato con dei tegoli [cretini???, ndr] mai visti. Anche questi di Capo d’Orlando, ragazzi miei, sono degli imbecilli… A Messina una sera siamo usciti che sembravamo gli hooligan! Da un po’ di tempo gira questa frase mia – ‘Fai quello che non ho fatto io e andrà tutto bene’ – e sembra che sia una gran genialata. Ma l’unico consiglio reale che do a un ragazzino che gioca è: ‘Diventa un giocatore e inizia a guadagnare: ti diverti come un porco!’. Forse perché è un ambiente sano, fatto di gente incredibile. Per me, purtroppo, ormai è finita”.