Ho letto una bella intervista a Gianmarco Pozzecco fatta da Stefano Valenti, sul sito della Lega Nazionale Pallacanestro. Ci sono alcuni passaggi che ritengo collegabili al pensiero espresso precedentemente in merito all’utilizzo dei giocatori italiani nei nostri campionati.
Dice coach (importante sottolinearlo) Pozzecco.
Su Di Bella che scende di categoria.
“Di Bella ha salvato Montegranaro. E’ gente che non gioca in A perché ci sono 5 stranieri che, in dollari, guadagnano meno. Non perché sono più forti”.
Su come vengono utilizzati i giocatori italiani.
“La differenza non la fanno i minuti giocati, ma il tipo di palloni che passa nelle loro mani. A Varese, Andrea Meneghin veniva prima degli stranieri. Oggi non accade più. Oggi solo Hackett ha questa considerazione, meritata. La quarta opzione di un attacco non saprà mai cos’è la pressione. E non farà mai quel salto di qualità. Qui l’italiano è la terza opzione. A volte anche la seconda. E vogliono viverla”.
E poi, attenzione, sui giovani. Lui ne ha, a Capo d’Orlando.
“Non so quanto giocherà Cefarelli. Come Laquintana o Ciribeni. Però hanno un ruolo. Avessi avuto sei visti, avrebbero chiuso il roster. Ma io dico che quelli dell’Under 20 dovrebbero giocare in A, non da noi. Però in questo Paese non s’avverte la necessità di interessarsi dei giovani, piace di più l’americano di 24 anni”.
Sul punto uno: sembra tutto chiarissimo. Se ci sono società di Serie A che iniziano il mercato dicendo di avere a disposizione un budget di 300.000 euro per la squadra, se abbiamo avuto una finalista scudetto con un milione di euro per la squadra, che ci si rivolga a giocatori meno costosi anche indipendentemente dal valore è appena ovvio.
Tutto ciò è evidentemente figlio di un sistema che annaspa, dove per troppo tempo si è scelto di abbassare l’asticella anziché tenerla dove avrebbe dovuto stare. A furia di abbassarla, ora si rade il suolo. A pagarne il conto sono gli atleti. Si può giocare una finale scudetto e non arrivare a 40 mila euro di ingaggio? Sì. Ma è giusto? Assolutamente no.
La vita dello sportivo è breve, bisogna ricordarselo. E se possono suonare scandalosi certi ingaggi che appartengono ad altri sport (o agli sport americani), di sicuro devono suonare scandalosi casi come questo. La Serie A è il massimo. E quando si arriva al massimo si deve poter ambire a guadagnare molto, specie se si richiede un livello di investimento personale e di efficienza molto elevato. Vale per tutte le professioni.
Sul punto due: su questo Poz ha ragione in gran parte (perché abbiamo già visto che per diversi giocatori non è così, la considerazione nei club ce l’hanno). L’esperienza non è allenarsi con gli americani e guardarli dalla panchina. L’esperienza non si fa a 22-23 anni. A quell’età sei già un giocatore, oppure no. L’esperienza è superare la strizza di avere in mano il pallone che vale la partita. E averlo il prima possibile, per superarla prima possibile, e per essere determinante in più partite possibili.
Poi, intendiamoci, avere il pallone in mano non significa solo tirarlo. Significa averlo nelle azioni decisive, anche per passarlo, per non perderlo sotto pressione, per tenerlo quando l’avversario ti carica come una sveglia e cercare di segnare subendo fallo. Cose che si devono imparare presto.
Per restare a Pozzecco, la prima stagione tra i professionisti in doppia cifra per punti è quella con la Baker Livorno: 10.7 in 18.1 minuti, a 21 anni. Ma se non ne avesse giocati 10.3 a partita già nel 1991-92 con la Rex Udine, forse non li avrebbe fatti. E oggi, mi ripeto, l’aspetto fisico/atletico è decisamente più importante di quanto non lo fosse allora. Serve gente che salti, che corra E che sappia tenere la palla in mano. Per segnare, palleggiare o passare. Di sicuro per non perderlo.
Sul punto tre: eh, ma allora? Se anche la squadra allenata da Gianmarco Pozzecco, medaglia d’argento olimpica, icona della nostra pallacanestro, fa questo (legittimo) ragionamento, da quale parte deve arrivare l’inversione di rotta? Poi è chiaro che la risposta al punto tre è contenuta in parte nel punto uno.
Molti stranieri costano poco, o accettano meno di alcuni italiani. Facile, ci sono molti più giocatori stranieri e le squadre sono sempre quelle. Le fette della torta sempre più sottili. Altrimenti detto, il mercato è spesso saturo. Quindi è chiaro che bisogna accettare questa concorrenza, se si vuole ragionare a livello economico.
Oppure, l’alternativa esiste, si fa con meno giocatori, da intendersi anche come cambiarne meno nell’arco di una stagione. Investendo su quelli che costano magari di più, ma che possono renderti anche di più sul medio-lungo periodo. Per fare questo, occorre anche saper accettare un concetto molto semplice: le scommesse sono belle perché si possono anche perdere. O, se preferite, vincere più tardi.
Pietro