Troppe squadre? Verso un “nuovo” sport

Dalle parole di Andrea Agnelli all’assemblea generale dell’#ECA, riportate da Tuttosport (link: http://bit.ly/3qsj6in), qualche spunto di riflessione sul mondo sportivo.

Parole molto interessanti del presidente dell’ECA Andrea Agnelli, che sostiene ragionamenti già svolti da altri sport (basket soprattutto) a livello continentale, ma che dovrebbero indurre lo sport professionistico a una riflessione complessiva.

Punti salienti:

  • Troppe squadre che diluiscono competitività e risorse
  • Una analisi (o un tentativo di) dei tifosi di sport odierni, a partire da ciò che vogliono vedere e da come lo guardano
  • Il leitmotiv della sostenibilità economica: se non si guarda anche al profitto, lo sport professionistico non può continuare a esistere a lungo (prima nel piccolo, poi nel più grande dei sistemi)

Aggiungo io:

  • Affidare il modello di sport alla nostalgia (dalla costruzione degli stadi, alla comunicazione, alla capacità delle leghe di essere tali e ragionare d’insieme, all’annosa questione televisiva… ce ne sarebbe da discutere per mesi) è sbagliato come riguardo qualsiasi argomento. Ogni storia va rispettata ma la storia è dinamica, ce lo insegnano i libri di testo.
  • Il riferimento alle troppe squadre, all’interesse che viene meno su troppe partite prive di reale valore competitivo deve interessare anche le competizioni nazionali (che nell’intendimento di Agnelli sono superate): la Serie A a 20 squadre non è verosimile, come la Serie B. Più squadre ci sono, meno risorse si dividono e più la qualità media cala, inevitabilmente.
  • Andrea Agnelli sui tifosi: “Dobbiamo anzitutto mettere i tifosi al centro: il sistema attuale non è fatto per i tifosi moderni. Le ricerche dicono che almeno un terzo di loro seguono almeno due squadre; il 10 per cento segue i giocatori, non i club. Molto probabilmente ci sono troppe partite che non sono competitive, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Non possiamo dare per scontati i tifosi, o rischiamo di perderli“. Agnelli si riferisce a una nuova tipologia di tifosi: meno ultras (per semplificare), più appassionati in senso lato. Persone meno disponibili a seguire un intero campionato o un’intera partita, molto più disponibili a guardare per ore una playlist su un giocatore o di giocate spettacolari, oltre che disponibili a pagare per ciò che desiderano vedere (e basta).

Nel mio piccolo:

  • Lavoro nel basket o attorno al basket da molti anni: è arrivato davvero il momento di stringere, di selezionare all’ingresso i club che ambiscono a far parte del professionismo, di regolamentare meglio l’attività dilettantistica e di ridurre il numero di squadre che vogliono farne parte. Perché ridurre non significa vietare, significa ottimizzare le risorse economiche e umane (dirigenti, allenatori, giocatori, arbitri, impianti) e fare lo sport di livello professionistico laddove si è attrezzati in modo professionale.
  • Coloro che invece non possono/vogliono fare questo, si dedichino con maggiore attenzione all’aspetto formativo di ciascuna categoria, per garantire palestre/campi, allenatori/istruttori, dirigenti più qualificati a gestire lo sport di base.
  • Sullo sport di base: affrontare in modo deciso il problema dell’educazione fisica scolastica. Ora più che mai non è pensabile essere obbligati a pagare per l’avviamento allo sport e la scoperta delle varie discipline. Come si scopre di essere più portati per la fisica anziché per la filosofia, la scuola deve aiutare i bambini/ragazzi a scoprire se possono essere più abili nel calcio o nella corsa.

Nessuna ricetta segreta, solo una base di idee su cui ragionare per chi vorrà.

Pietro

L’ultimo giorno

Il 23 febbraio 2020 è stato l’ultimo giorno di una vita normale.

In trasferta con la Junior Casale, a Torino, giocando in extremis l’ultima partita “a porte aperte”. Alle 12, perché già tre ore dopo il Torino, nella stessa città ma nel calcio, lo avrebbe fatto a porte chiuse.

Erano giorni particolari, surreali.

Sapevamo, non sapevamo niente in realtà.

Avevamo bisogno di sapere perché avevamo risposte da dare a uomini, donne, ragazze e ragazzi, famiglie, prima ancora che dirigenti, allenatori, giocatori, staff.

Prima ancora che a noi stessi.

La frammentazione delle informazioni, dalle strumentalizzazioni politiche, alla confusione indotta da troppi pareri (di medici e soprattutto non), dalla semplice paura dell’ignoto.

C’era quella partita. Allora ci sembrava importante. Era un test, si giocava per agganciare il primo posto in classifica.

Oggi non conta più niente e non per la retorica, ma perché quella stagione iniziata tra mille difficoltà e grandi speranze non è mai finita.

Finì quella partita e non sapevamo cosa sarebbe accaduto.

Avremmo dovuto giocare la domenica successiva. Poi quella dopo. Poi sospensione. Poi chiusura.

Intorno a noi, cambiava tutto.

Dove si comprano le mascherine? Non si trova l’Amuchina, cosa posso comprare?

Ma poi, quale mascherina? E il disinfettante funziona davvero?

Riprenderemo. No. Forse sì. Invece no. Eh ma il calcio. Eh, non c’entra, chi ha potuto permetterselo economicamente ha creato le condizioni per riprendere. Per gli altri, non c’era storia, non c’era il modo. I tamponi? Impossibile pensare, allora, di farseli ogni settimana.

Nel frattempo un mondo si è fermato. Disgregato. Era il nostro.

Un gruppo di persone, con uno scopo comune. Svanito.

Nemmeno il modo, il tempo di un saluto tutti insieme.

Le videochiamate, le chat, via via sempre meno.

Dispersi.

E così molte altre cose. Nella solitudine delle nostre case.

Le ore dell’annuncio del primo lockdown. Chiamare i cari per dirsi: che facciamo? Facciamo i bravi, ecco che facciamo. Aspettiamo, pazientiamo. Soffriamo. Pensiamo. Troppo, a volte.

Un anno così, passato velocemente tra mille annunci, decisioni definitive che non lo erano, soluzioni che non lo erano, svolte che non lo erano.

Siamo ancora qui. Purtroppo non tutti, perché questa bestia che ha investito il mondo ne ha portati via e ne porta tanti con sé. Svaniti, nella memoria collettiva, non di chi quei lutti li ha sofferti, li soffre, li teme.

Siamo ancora qui, dopo le cantilene, i “celafaremo”, gli slogan pro e anti qualsiasi cosa.

Siamo ancora qui e il mondo di prima non è tornato ancora. Tornerà? Forse, forse no. Non abbiamo il pieno controllo, ancora, di questo inferno quotidiano che ci mette a confronto ogni giorno con il nostro specchio.

Tutto quello che volevo dire è che un anno fa, poco prima delle 14, è finita una partita. Suonata una sirena. Su tante, troppe cose della nostra vita.

E tutto quello che vorremmo è giocare un’altra partita. Una come quella. Ci manca persino quello che ci manda a fare in culo. Quelli, anzi, ce n’erano sempre. Mi mancate. Non vedo l’ora di rivedervi.

Pietro

Road Trip.

Viaggio_Bus

L’ora della sveglia è, più o meno, sempre quella.

Che sia per andare a seguire l’allenamento o per affrontare un viaggio.

Una tipica e battistiana giornata uggiosa mentre una volta sceso dall’auto inizi a sentire i rumori che ti ricordano quello che sta per succedere: altre auto in arrivo, gomme che pestano qualche pozzanghera e foglie ormai imbevute di acqua piovana, tonfi di un borsone che termina il suo breve lancio dalla mano di un indistinguibile ragazzo incappucciato, altri tonfi, quelli di portiere chiuse con quel misto di vigore e delicatezza che può scaturire solo la mattina, quando nella tua testa metti ordine tra le seguenti cose: il rimpianto di aver lasciato un letto che immagini ancora tiepido, la rassegna mentale (giunta alla decima edizione in poco più di sei minuti) per ripassare tutto ciò che puoi aver eventualmente dimenticato, la raccolta della lucidità e della brillantezza necessarie per essere vispo e giulivo* e relazionarti con chiunque possa chiederti istruzioni, chiarimenti, un saluto o più banalmente di prendere un caffè.

Un sabato così, quando la trazione delle ruote di un bus mette in moto non solamente un automezzo ma un processo di situazioni, idee, conversazioni, dormite e varie possibilità per raccogliere aneddoti da raccontare al ritorno.

All’inizio di una trasferta c’è una cosa che appare lontanissima, ed è la partita. Ci sarà tempo e modo, una volta più comodi.

Per quanto lontana, però, è un pensiero presente: è il motivo che ha riunito una serie di persone anche molto diverse tra loro per età, caratteristiche, trascorsi, visioni e aspirazioni. Quella cosa che banalmente si chiama “squadra” è composta da moltissimi elementi, ed è difficile – anche in corso d’opera – sapere quali sono quelli giusti affinché, per dirla alla francese, la maionese riesca bene.

Chimica, con matematica. Un concetto espresso un paio d’anni prima commentando la foto di un altro gruppo, un’altra squadra che solo a tratti fece vedere di cosa fosse capace perché solo a tratti riuscì a capirsi.

Il punto, spesso, è tutto qua: capirsi. Non necessariamente parlarsi ma sicuramente ascoltarsi. Ascoltare anche l’espressione di un volto in un dato momento può far girare una giornata, magari una partita.

In viaggio, dunque, è sempre la cosa più interessante che possa capitarti anche quando non succede niente, perché se non fossi partito non avresti nemmeno saputo che lì, in quel momento, ti saresti annoiato.

Avresti rinviato l’appuntamento con la noia invece di avere l’opportunità di conoscerla e quindi trovare il modo di dialogarci: correggere un comportamento, una abitudine, qualche dettaglioche nel prossimo viaggio la tenga lontana, o quantomeno ne riduca la presenza.

Azzerarla no, perché anche la noia serve. Serve a capire la differenza che c’è quando non ci annoiamo. Serve a farci prendere meglio coscienza di quello che amiamo fare, proprio quando non  lo stiamo facendo.

Un viaggio, tante volte, è tutto qui.

*: citazione dalla telecronaca di Nicolò Carosio di Inter-Real Madrid, finale di Coppa dei Campioni 1964, in riferimento al portiere nerazzurro Sarti in procinto di effettuare un rinvio da fondo campo.

Pietro

Back.

Si torna a scrivere.”

Si torna a scrivere?

Si torna a scrivere!

Parole identiche e un dettaglio diverso tutte le volte. Il punto, inteso come punto di vista.

Si torna a scrivere perché se uno comincia poi continua, no matter what.

Si torna a scrivere, che cosa lo vedremo poi.

Intanto, rieccoci qua, con un vecchio archivio e una immagine alla quale mi ero affezionato, legata a un giocatore molto, molto, molto particolare in tutti i sensi.

Ugly Sister’s back (for good?!)

Pietro

Gli allenatori che scrivono

Scrivo queste righe senza conoscere il risultato della partita tra Agrigento e Torino. Non perché non abbia importanza quel che avviene la domenica, e in questa partita in particolare, ma semplicemente perché ritengo che come in tutte le cose non possa e non debba essere un singolo momento a determinare il pensiero complessivo su una squadra o, come più piacevolmente mi piace considerarla, su un gruppo di persone.

Franco Ciani, con la sua nuova rubrica del sabato, me ne ha dato la voglia. Non sono tanti gli allenatori in grado di condividere, chi per natura umana e chi invece per impostazione professionale. Allenare, come scrivere, è del resto un’attività che impone a chi la fa di metterci tanto del proprio, un vero e proprio investimento emotivo. Ragion per cui, non tutti possono farlo allo stesso modo.

In questi giorni Marco Crespi ha presentato il suo “#somethingdifferent”, il libro che racchiude le emozioni e le storie vissute dal coach durante la sua ultima stagione senese. Ho sempre molta ammirazione per gli allenatori che scrivono, che accettano di violare quella “privacy” difesa talvolta con una forza e un’ostinazione talmente forte da apparire – ai più – persino esagerate.

No, non è una critica a chi non lo fa. È un omaggio a chi ne ha il coraggio. Un allenatore, nella percezione generale, è la somma dei suoi risultati. Buoni e cattivi. Giudicato superficialmente per quello che c’è scritto sul tabellone alla fine delle partite, o per quello che dice la classifica. Allenatori bravissimi hanno perso tanto, allenatori meno bravi hanno vinto il doppio. La vita di questo mestiere è piena di queste storie e anche di leggende, in questo senso. Ma chi è un allenatore bravo? Il giocatore bravo? È solo quello che vince? Che vince cosa? Che vince quanto?

Se il metro di giudizio è la vittoria, il risultato, allora non basta mai. Perché puoi vincere l’Eurolega per dieci anni di fila, ci sarà comunque l’undicesimo da affrontare e non sai mai se sarà la stagione peggiore della tua vita. Allora ci sarà sempre qualcuno che dirà che non hai vinto tu, ma perché avevi una grande società alle spalle, o dei bravi assistenti, o allenavi/giocavi con dei fenomeni e allora sono buoni tutti. Lo stesso dovrebbe valere al contrario, superficialità per superficialità, ma non è sempre così. Anzi. Dopo tutto, meglio così.

La verità è che ridurre l’allenatore o il giocatore al numero di trofei in bacheca è del tutto svilente. Vincere non basta, e non è affatto l’unica cosa che conta. Altrimenti il basket non sarebbe un gioco così meravigliosamente razionale e irrazionale al tempo stesso, non sarebbe insieme scienza e passionalità, calcolo ed emozione. Non avrebbe quella capacità di rapire i cuori che invece gli appartiene, e che tiene in piedi tante persone in tutto il mondo che hanno un’unica visione e un’unica passione.

Il basket (e lo sport di squadra, in generale) vive di una sua particolare magia, è come l’arte, è come musica. È impossibile, però, separare le figure dell’allenatore e dei giocatori. Non siamo alle prese con un pittore e la sua tela, con un musicista e il suo spartito. Fanno tutti parte della stessa cosa, sono la stessa cosa. Quale che sia il risultato finale, sarà comunque il frutto di una importante esperienza umana. Collettiva. È un concetto solo apparentemente banale.

Ho letto l’ultimo articolo di Franco, e ho ripensato alla nostra conversazione di qualche giorno fa a Biella, dove al netto di una partita da giocare e da guardare erano ben altri i pensieri che avevamo in testa. Si parlava proprio della sua rubrica, di come scrive e del perché. E del fatto che scrivere adesso, in questo particolare momento di difficoltà della sua squadra, è oltremodo complicato.

“Uno potrebbe dire: che fa questo? Perde e ce la spiega?”. Non c’è nulla da “spiegare”, anche perché non tutti hanno poi la sincera curiosità di comprendere ciò che davvero può portare alla vittoria, alla sconfitta, alla riuscita o al fallimento di un’impresa sportiva. Forse non sarebbe nemmeno giusto pretenderlo, sono cose che fanno parte del gioco. Un gioco meraviglioso, non bisogna dimenticarlo mai.

Pietro

Contro le vittorie morali. @Euroleague, GD01

Sassari e Milano, in rigoroso ordine cronologico, hanno perso le loro gare inaugurali della stagione in Eurolega. Due partite diverse nello sviluppo, non per il risultato né per il peso specifico che avevano (o avrebbero avuto in caso di vittoria esterna).

Il Banco di Sardegna cede 88-86 sul campo del Niznhy Novgorod, l’EA7 77-74 su quello del Fenerbahçe Ulker Istanbul. Hanno perso, non hanno quasi vinto.

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Riassumendo, non sono state “imprese sfiorate”. Sono state due partite assolutamente vincibili, perse per motivi diversi: i sardi pagano l’improvvisazione, che ormai hanno elevato ad arte. Solo che al netto del talento a disposizione essa si traduce in tiri poco equilibrati, palle perse evitabili, punti subiti in contropiede e punizioni puntuali nella propria metà campo su rotazioni difensive allegre. Per questo, fermo restando la simpatia nei confronti di Meo Sacchetti e dei suoi giocatori, ritengo che questo modo di giocare a basket sia fortemente limitante. Ok, puo’ essere divertente (e non sempre lo è, risultati o non risultati), ma la simpatia ha un costo quando diventa leggerezza, nel senso negativo del termine. Come quello di perdere troppo rapidamente un vantaggio esterno di 17 punti e incassare un k.o. contro una squadra che era pure lei esordiente in Eurolega e non ha le ambizioni (né il potenziale) di una Kazan, tanto per rimanere nel girone A e in Russia.

Quanto a Milano, non affondare dopo un bruttissimo inizio è stato certamente un bel segnale. Si continuano a vedere, rispetto allo scorso anno, troppi pick and roll, ricezioni statiche in post basso (nonostante le quali Samardo Samuels ha saputo produrre), cose buone fatto soprattutto con il quintetto “leggero”, con Kleiza (male, e se non gira in Europa sono guai) e Melli. Una soluzione che può funzionare in determinati frangenti ma non è assolutamente una delle priorità, o almeno non dovrebbe esserlo se si vuole fare un passo avanti rispetto alla scorsa stagione. C’è da dire che Shawn James ha ancora pochi minuti da dare dopo una lunga inattività, ma i suoi sprazzi sono molto incoraggianti se si ripensa ai tantissimi errori di attenzione e applicazione tattica del suo predecessore, Gani Lawal. In una parola, consistenza.

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Di sicuro hanno pesato tre triple non esattamente costruite (di Hickman e Goudelock), da parte di un Fenerbahçe che continua a non fare onore alla reputazione del suo allenatore, Zeljko Obradovic. È una squadra profonda, con qualità individuali importanti, ma poco intelligente nell’interpretazione del gioco. Lo era l’anno scorso, lo è ancora oggi. Vedremo tra qualche mese, visto che qualcosa è cambiato negli uomini. Milano ha avuto numeri da Brooks… da Brooks, nel primo quarto. Poi basta. È chiaro che non è ancora “dentro” ai giochi, ma è altrettanto chiaro che codesti giochi per il momento manchino di “aria”. La circolazione della palla non è ottimale, non lo è la distribuzione degli spazi, non si ha la sensazione che proprio tutti i giocatori possano essere sfruttati secondo le loro qualità.

Queste due partite, per me, dicono che Sassari e Milano se la giocano per le Top 16, ma la concorrenza (dal basso) incita alla massima attenzione. Basti vedere la partita giocata dallo Zalgiris Kaunas a Madrid o dal Bayern Monaco a Barcellona, e pure dal Turow Zgorzelec in casa del Panathinaikos. Per questo, i primi 2 punti prendibili e non presi rischiano di pesare. Per questo, a mio parere, queste sconfitte sono assolutamente rimediabili ma non sono per niente delle vittorie morali.

Pietro

La parola del giorno: fisiologia

[Credit: il presidente della FIP Gianni Petrucci]

«Recalcati in diverse interviste lamentava ritardi nei pagamenti degli stipendi da parte di Montegranaro. Siamo andati a controllare e abbiamo visto che si trattava di arretrati di due mesi, fisiologici in qualsiasi sport. E stato esagerato». Parole riportate dal quotidiano Tuttosport.

Carlo Recalcati, che da commissario tecnico ha ottenuto con la Nazionale soltanto un bronzo Europeo e un argento Olimpico, lamenta da mesi la difficilissima situazione che sta attraversando la sua Sutor Montegranaro. Che, a oggi, non può più contare su un giocatore americano, essendosene giustamente andati tutti avendo trovato ingaggi altrove.

Tutto questo però è spiegabile con una parola:

fisiologia [fi-sio-lo-gì-a] s.f.
1 Scienza che studia le funzioni degli esseri animali e vegetali
2 fig. Funzionamento, attività normale di un organo, di un organismo, di un sistema: la f. dell’amministrazione pubblica
• sec. XVII

(dizionari.corriere.it)

In effetti è parecchio fisiologico pagare in ritardo, e mica solo gli atleti. Ma del resto, come ha detto il presidente della Legabasket Valentino Renzi durante una conferenza stampa lo scorso febbraio, il basket si regge da sempre sul volontariato, rispondendo a una domanda sulla qualità delle condizioni di lavoro nei club della Serie A di basket. Dove tanta gente lavora per passione, il che è evidentemente una colpa.

Pietro

OFF TOPIC – #Cucina: Omaggio a @massimobottura e Stefano Catenacci (di @tokyo_cervigni)

Apparentemente, Edoardo “Tokyo” Cervigni non c’entra molto con la pallacanestro. Se non fosse che durante il week-end delle Final Four di Eurolega del 2010 ha portato un’allegra e variopinta compagnia (che comprende il sottoscritto) a mangiare – molto tardi – presso il ristorante “Au Pied de Cochon” a Parigi (www.pieddecochon.com), in pieno centro. Visita consigliatissima. Intanto, pero’, ci parla di ciò che è successo a Stoccolma a due eccellenze della cucina italiana.

Ieri è stata una giornata gloriosa per l’Italia, non solo per il secondo giorno consecutivo le prime pagine dei principali giornali erano dedicato al meritato successo hollywoodiano di Paolo Sorrentino e Tony Servillo (tralasciando il fatto che il mondo nel frattempo continua e che quel che sta succedendo in Ucraina è accessorio).

Lo stesso giorno a Stoccolma veniva presentata la White Guide. Cos’è la White Guide? È la guida di riferimento del mangiar bene in Svezia. Voce autorevole, che come ogni anno e come ogni guida che si rispetti, distribuisce premi a chi ha dimostrato nell’ultimo anno un’eccellenza nel proprio lavoro.

Se n’è parlato tanto in Italia perché a vincere il premio internazionale della guida è stato Massimo Bottura, cuoco modenese *** Michelin e 3° nella classifica dei 50 Best del Restaurant magazine. Una medaglia in più per uno dei personaggi che più rappresenta l’orgoglio di un’Italia artigiana, ideatrice e creativa. Massimo è un modello da seguire, ma proprio questo un tesoro da custodire e non da sputtanare come siamo soliti fare noi italiani.

Da questa magnifica notizia sorgono dunque dei dubbi che mi farebbe piacere condividere con voi:

1) Il premio è stato definito da tutti in Italia come il “Nobel della Cucina”. Prescindendo dal fatto che non esiste niente neanche lontanamente simile a un Nobel per la cucina, mi è comunque venuta la curiosità, così ho chiesto al giornalista svedese Mattias Kroon, uno degli editori della White Guide. Mattias mi ha sorriso, fatto una metafora divertente, e abbiamo proseguito il discorso. A questo punto nasce spontanea la domanda: “Chi è che ha definito questo premio un Nobel? Solo perché è deciso dagli svedesi diventa un Nobel?”. Evviva il provincialismo, una delle malattie più diffuse nello stivale.

2) Stefano Catenacci, cuoco italiano e cresciuto in Svezia del ristorante Operakällaren è stato premiato come cuoco dell’anno. Ora, questa sì che è una notizia Da quando esiste la White Guide, 2006 la prima edizione, Stefano è il primo cuoco straniero a lavorare in Svezia a esser stato premiato. La storia di Stefano è magnifica, figlio di Vincenzo e Matilde, cuochi del ristorante italiano Caina a Stoccolma, si investe sin da subito nella cucina, spinto dalle ambizioni dei genitori, raggiungendo risultati eccellenti, quali cucinare per la famiglia reale ed essere a capo consulente per le cucine della catena di hotel Nobis. Ma ovviamente di lui non ha parlato nessuno. Noi Italiani ci attacchiamo sempre allo stesso nome, come ossessionati, fino a farlo diventare paladino e responsabile del destino del nostro paese.

3) Nessun giornalista italiano era presente a Stoccolma. Il che è grottesco quando alla presentazione di una guida sono premiati due italiani. Questo dovrebbe dirla lunga su quanto è considerato il giornalismo gastronomico italiano all’estero.

“Tokyo” Cervigni

Il dito e la luna (la wildcard e l’Italia)

Niente riflessioni sulla sponsorizzazione dei creatori di Angry Birds alla Finlandia. Parliamo di campo e di merito.

Ancora una volta ci sentiamo defraudati. Perché è tutto ingiusto. Sempre colpa di qualcuno. Ovviamente, per quanto ci riguarda, meritavamo sempre qualcosa in più di ciò che abbiamo ottenuto. Dal “questi siamo” di un c.t. Pianigiani quasi rassegnato durante le amichevoli estive al sentimento di scandalo per la Finlandia ammessa ai Mondiali tramite wild card. Una corsa dalla quale la nostra Federazione si era ritirata.

All’Italia del basket sono bastate sei vittorie (una sola dopo il girone iniziale) per pensare di essere tornata tra le grandi. Ottavo posto. Dopo un diciassettesimo due anni prima e addirittura una non qualificazione per l’edizione degli Europei del 2009, più due assenze consecutive ai giochi e una ai Mondiali. In sei partite, avremmo lavato via tutta questa roba qui.

Più tutte le storture del sistema basket in Italia: la ridicola copertura televisiva, la totale assenza di comunicazione (del prodotto, del brand, del gioco, dei personaggi, aggiungete a piacere), l’arroganza di pensare di avere ancora un campionato che sposta (ci sono ancora quelli che nel valutare/bocciare un giocatore dicono “eh ma non ha mai giocato in Italia”. Ah beh). Ormai si spostano solo pedine di piccolo-medio livello, che magari diventeranno bravi giocatori altrove.

L’Italia ha vissuto un biennio di gloria (2003 e 2004), e si è urlato in maniera unanime al miracolo. Questo perché, evidentemente, anche all’interno del movimento si pensava che la qualità media (o potenziale) del gruppo allora a disposizione di Recalcati non fosse tale da giustificare un bronzo europeo e un argento olimpico. Si andò oltre i limiti, siamo stati noi a voler vedere regole laddove c’erano soltanto (o quasi) delle magnifiche eccezioni.

Vorrei modestamente suggerire di pensare ad altro: la nuova presidenza di Lega, come tornare in televisione, farsi un giro per i siti delle altre leghe per crearne uno al passo coi tempi, studiare eventi effettivamente appassionanti, avere dei palazzetti funzionali (e dove si può lavorare addirittura con una connessione internet funzionante, visto che non è sempre così), stabilire regole certe e controlli finanziari che rendano credibili tutte le partite. Anche se si tratterà di spendere ancora meno di oggi, ma che siano soldi veri e non contratti firmati buoni per lodi futuri.

Questi, intanto, i risultati delle nazionali di Italia e Finlandia nelle competizioni maggiori dal 2005 a oggi: c’è davvero tutta sta gran differenza?

Europei 2005: Italia 9°, Finlandia non c’è

Mondiali 2006: Italia 9°, Finlandia non c’è

Europei 2007: Italia 9°, Finlandia non c’è

Olimpiadi 2008: assenti entrambe

Europei 2009: Italia e Finlandia assenti entrambe

Mondiali 2010: assenti entrambe

Europei 2011: Italia 17°, Finlandia 9°

Olimpiadi 2012: assenti entrambe

Europei 2013: Italia 8°, Finlandia 9°

Pietro

Qualche nota sulla regular season @Euroleague @OlimpiaEA7Mi #ifeeldevotion

VEDI ANCHE: il calendario delle Top 16

– Milano, per la prima volta nella storia di Euroleague Basketball, è l’unica formazione italiana qualificatasi nelle Top 16. Il suo record di 5-5 lo considero da 6 in pagella. In casa ha fatto quelllo che doveva, 1-4 in trasferta con questo panorama non bene. A Kaunas e Strasburgo poteva e doveva vincere. No alla logica sparagnina. Siena ha interrotto una striscia di 6 apparizioni consecutive alle Top 16. In due occasioni era stata anche l’unica formazione italiana a rappresentare la nostra pallacanestro a quello stadio della competizione (stagione 2009-10 e 2012-13).

Keith Langford ha chiuso la regular season al 9° posto per valutazione media (18.2). Il suo futuro compagno di squadra Daniel Hackett 3° con 19.4. Langford è anche 4° per punti segnati (16.2).

– Sempre Keith Langford è il miglior assistman della squadra con 3.1: l’EA7 Emporio Armani è però al 21° posto su 24 (13.5) e al 15° su 16 tra le qualificate al secondo turno (peggio solo il Partizan, 24° assoluto, con 11.8).

– A livello di ratio assist/palle perse, Milano è ancora al 20° posto (106.3%, concede agli avversari il 125%), mentre è al 14° tra le squadre di Top 16 (peggio Kaunas, 23° con 87.3%, e Partizan, 24° con 72.4%). La media generale è 123.4%.

– L’attacco vende i biglietti e la difesa vince le partite. Il Real Madrid attacca e difende, visto che in percentuale “reale” concede agli avversari il 41.6%. Milano concede il 49.1%: nessuno fa “meglio” tra le qualificate alle Top 16.

– Milano deve migliorare in furbizia e scelte di tiro: è al 4° posto per stoppate subite in media (con 3.5), il dato peggiore tra le qualificate alle Top 16.

– In attacco, una chiave per l’EA7 può essere quella di diminuire il numero di tiri da fuori e migliorare il dato ai tiri liberi, che è già buono: 8° posto per tentativi in media, con 17.8. Migliorabilissima la percentuale (10° posto con 74.7%). Il 30.3% da fuori è destinato probabilmente a migliorare con Kristjan Kangur in campo con continuità, ma dipende tutto dal ritmo con cui si muove la palla. Big issue.

– Curtis Jerrells (31), Alessandro Gentile (35), David Moss (37) e Keith Langford (54) hanno preso il 68.8% dei tiri da tre della squadra, con una percentuale realizzativa del 31.8%. Cambiare.

– Palle perse: su 127 totali, 48 portano la firma di Alessandro Gentile e Keith Langford (37.7%).

– Miglioramenti attesi da Gentile: selezione di tiro, più tiri liberi (ha subito 3.6 falli a partita) e maggiore percentuale (troppo poco 68.8% per lui).

– Milano è al 20° posto su 24 per percentuale “reale” con 45.1%. Anche qui è al 15° su 16 tra le qualificate alle Top 16 (Galatasaray 23° con 43%).

Nicolò Melli è il miglior rimbalzista della squadra con 6.2 (16° assoluto e 26° su 40 minuti).

– Motivi per venire al Forum a vedere le Top 16: Zelimir Obradovic e il suo Fenerbahçe Ulker Istanbul (con Bo McCalebb, Emir Preldzic, Bojan Bogdanovic), i bi-campioni in carica dell’Olympiacos Pireo di Vassilis Spanoulis, il Panathinaikos Atene di Dimitris Diamantidis, il Barcellona di Juan Carlos Navarro e di uno che mi fa impazzire (Kostas Papanikolaou), il Laboral Kutxa Vitoria perché che ve lo dico a fa’, l’Anadolu Efes Istanbul perché ormai sono amici, l’Unicaja Malaja dell’interessante coach Joan Plaza che porta in dote il figlio di Sabonis.

– Milano ha affrontato nel proprio girone di regular season il Real Madrid, una delle due formazioni a vincere tutte e 10 le partite. L’altra, l’Olympiacos, arriva tra poche settimane. Trattasi delle ultime due finaliste, non un caso.

– Avremo il piacere di rivedere al Mediolanum Forum di Assago gli ex milanesi Sergio Scariolo (allenatore Laboral Kutxa Vitoria) e i giocatori Antonis Fotsis e Jonas Maciulis (entrambi al Panathinaikos Atene). Con Scariolo ci sarà anche Walter Hodge, playmaker americano trattato da Milano nella passata stagione, ma non ceduto dai polacchi dello Zielona Gora.

Pietro