L’ultimo giorno

Il 23 febbraio 2020 è stato l’ultimo giorno di una vita normale.

In trasferta con la Junior Casale, a Torino, giocando in extremis l’ultima partita “a porte aperte”. Alle 12, perché già tre ore dopo il Torino, nella stessa città ma nel calcio, lo avrebbe fatto a porte chiuse.

Erano giorni particolari, surreali.

Sapevamo, non sapevamo niente in realtà.

Avevamo bisogno di sapere perché avevamo risposte da dare a uomini, donne, ragazze e ragazzi, famiglie, prima ancora che dirigenti, allenatori, giocatori, staff.

Prima ancora che a noi stessi.

La frammentazione delle informazioni, dalle strumentalizzazioni politiche, alla confusione indotta da troppi pareri (di medici e soprattutto non), dalla semplice paura dell’ignoto.

C’era quella partita. Allora ci sembrava importante. Era un test, si giocava per agganciare il primo posto in classifica.

Oggi non conta più niente e non per la retorica, ma perché quella stagione iniziata tra mille difficoltà e grandi speranze non è mai finita.

Finì quella partita e non sapevamo cosa sarebbe accaduto.

Avremmo dovuto giocare la domenica successiva. Poi quella dopo. Poi sospensione. Poi chiusura.

Intorno a noi, cambiava tutto.

Dove si comprano le mascherine? Non si trova l’Amuchina, cosa posso comprare?

Ma poi, quale mascherina? E il disinfettante funziona davvero?

Riprenderemo. No. Forse sì. Invece no. Eh ma il calcio. Eh, non c’entra, chi ha potuto permetterselo economicamente ha creato le condizioni per riprendere. Per gli altri, non c’era storia, non c’era il modo. I tamponi? Impossibile pensare, allora, di farseli ogni settimana.

Nel frattempo un mondo si è fermato. Disgregato. Era il nostro.

Un gruppo di persone, con uno scopo comune. Svanito.

Nemmeno il modo, il tempo di un saluto tutti insieme.

Le videochiamate, le chat, via via sempre meno.

Dispersi.

E così molte altre cose. Nella solitudine delle nostre case.

Le ore dell’annuncio del primo lockdown. Chiamare i cari per dirsi: che facciamo? Facciamo i bravi, ecco che facciamo. Aspettiamo, pazientiamo. Soffriamo. Pensiamo. Troppo, a volte.

Un anno così, passato velocemente tra mille annunci, decisioni definitive che non lo erano, soluzioni che non lo erano, svolte che non lo erano.

Siamo ancora qui. Purtroppo non tutti, perché questa bestia che ha investito il mondo ne ha portati via e ne porta tanti con sé. Svaniti, nella memoria collettiva, non di chi quei lutti li ha sofferti, li soffre, li teme.

Siamo ancora qui, dopo le cantilene, i “celafaremo”, gli slogan pro e anti qualsiasi cosa.

Siamo ancora qui e il mondo di prima non è tornato ancora. Tornerà? Forse, forse no. Non abbiamo il pieno controllo, ancora, di questo inferno quotidiano che ci mette a confronto ogni giorno con il nostro specchio.

Tutto quello che volevo dire è che un anno fa, poco prima delle 14, è finita una partita. Suonata una sirena. Su tante, troppe cose della nostra vita.

E tutto quello che vorremmo è giocare un’altra partita. Una come quella. Ci manca persino quello che ci manda a fare in culo. Quelli, anzi, ce n’erano sempre. Mi mancate. Non vedo l’ora di rivedervi.

Pietro