Stella tra le Stelle

L’esperienza della Stella Azzurra Roma all’adidas Next Gen di Euroleague Basketball, raccontata da coach Germano D’Arcangeli.

Quarantotto ore.

Tanto serve per attraversare un mondo, anzi più di uno.

Tante ne dovevano bastare a ragazzi molto giovani, per alcuni contesti “troppo” giovani, ma se c’è qualcosa di indiscutibile nello sport – e non solo – è l’ineluttabilità del dover essere pronti all’ora X.

Niente scuse, niente proroghe, niente ritardi ammessi.

Tal giorno a tale ora, che lo si voglia o meno, si alza una palla a due e si deve essere pronti. O meglio, si dovrebbe, perché anche questa può essere una scelta. Se è vero che si può scegliere per sé, però, è altrettanto vero che non si può scegliere per gli altri. Soprattutto per gli avversari. Che non aspettano, a cui non importa sapere se tu sei pronto.

Nel mezzo di queste quarantotto ore, minuto più minuto meno, si incastra la chiacchierata che segue con Germano D’Arcangeli, allenatore, ispiratore e maître à penser della Stella Azzurra Roma.

Germano D’Arcangeli

Tra la finale della tappa di Istanbul dell’adidas Next Gen, la più importante competizione europea per club a livello giovanile che ha visto la Stella arrivare appunto al match conclusivo e cedere contro il Real Madrid di Matteo Spagnolo, e una partita di Serie A2 contro la capolista Unieuro Forlì.

Matteo Spagnolo, “stellino” anche lui, ma soprattutto una altissima espressione di talento tutto italiano emerso, però, all’interno di una delle più grandi istituzioni sportive del mondo. La “Casa Blanca”, là dove non esiste altra idea possibile se non quella di vincere e di farlo anche con un certo qual stile, rappresentando al meglio il lusso, le tradizioni e gli eccessi della borghesia sportiva.

Contro la Stella, Spagnolo (che ha già debuttato in Nazionale tra i grandi) ha messo insieme 22 punti con 8 rimbalzi e 4 assist, ma più dei numeri contano molte altre cose. Le lasciamo descrivere a D’Arcangeli, che certamente più di chi scrive ha cognizione di quel genere di talento: “Spagnolo mi ha addirittura emozionato”, dice. “Non devo presentare il giocatore, parlo piuttosto della persona, della libertà d’animo con cui l’ho visto stare in campo con quella ‘storia’ addosso, alla realizzazione di quello che ho sempre pensato fosse una persona seria. Da padre, quale sono, vedere questo mi dà una grande gioia: Matteo è un ragazzo che non se la tira, che ha forza d’animo, che ha fatto cose bellissime ma soprattutto ha sviluppato un modo straordinario di stare in campo, di gestire quel genere di situazione. Possiamo forse dire che è stato un pioniere di un certo modo di fare da parte nostra: rappresenta il fatto che si può uscire da questa provincia del basket, che si può pendere uno zainetto e andare ‘a fare a schiaffi’ tra quelli bravi. Vederlo il più bravo tra i bravi dà soddisfazione, al di là del basket è un figlio che tutti noi vorremmo avere: Matteo il mondo tra le sue mani, è una delle persone che potrà contribuire a cambiare questo nostro mondo”. In che modo? “Aiutandoci a superare il nostro modo di ragionare per luoghi comuni. In Italia parliamo di far giocare i giovani in continuazione, forse sarebbe il caso di pensare di meno e fare di più. Personalmente mi piacerebbe che lui e persone come lui, di questa qualità, possano aiutare tutti in questo senso, ognuna nel proprio ambito”.

Matteo Visintin contro Matteo Spagnolo

L’incontro con Spagnolo a Istanbul è stata certamente un’emozione, ma che si traduce in una situazione “win-win” per uno come D’Arcangeli. Ha portato la sua Stella in finale battendo Brno, Saragozza e i padroni di cassa dell’Anadolu Efes, potendo nuovamente sfidare un colosso come il Real guidato da un ragazzo che, appunto, ha la Stella come tappa importante della sua formazione. “Un’avventura molto speciale, in tempi di grandi restrizioni come questa. Siamo stati in una autentica bolla, in un hotel con accesso diretto al campo e una grande e molto rigorosa macchina organizzativa da parte dell’Efes, che non ha risparmiato di riprendere nessuno, nemmeno il sottoscritto in caso di minime distrazioni. Sono le stesse modalità usate per i campionati giovanili in Turchia”.

Si parla di basket, si parla in particolare di basket giovanile e sappiamo quanto male stia facendo la pandemia proprio ai ragazzi, allo sport che più di tutti si è fermato, picconando le fondamenta della socialità, del crescere insieme e dello sviluppo individuale. Colpi potenzialmente mortali quando si parla di atleti destinati all’alto livello o desiderosi di raggiungerlo. Tempo che non torna, in annate troppo speciali per poter essere rinviate. Tornare dunque a giocare una competizione di questo tipo (ma non solo quella, ci si ritorna dopo) non può essere stato “normale” per i ragazzi della Stella. D’Arcangeli: “Per i ragazzi è stato come dover imparare di nuovo ad andare in bicicletta, non perché fossimo caduti e dovessimo riprenderci dalla botta ma perché avevamo dovuto smettere di andarci per un anno. Come squadra abbiamo fatto delle buone cose, mai come questa volta ho visto grandi motivazioni nei ragazzi, occhioni di chi ha il bisogno di giocare, esprimersi e divertirsi, mettere il corpo addosso, difendere, essere intensi, fare e non pensare [un concetto ricorrente, questo, ndr]. A livello europeo si gioca una pallacanestro ‘intellettualmente onesta’, dove conta di più il talento e meno la tattica, dove la strategia che ti serve per sopravvivere anche in un campionato senior non vale più quando incontri accelerazioni, fisicità e letture di quel livello. Quando competi così in alto, ‘non la racconti’. Faccio un esempio, parlavamo di. Spagnolo: il suo talento è stato più importante delle strategie del Real contro la nostra intensità. Loro hanno difeso di atletismo puro, facendo la differenza conquistando alcuni possessi più di noi nel momento cruciale. Se i miei giocatori vogliono essere professionisti ed essere tra i primi in Europa devono mettere sul campo quel livello di energia, di atletismo, di capacità di leggere, capire il gioco, di stare in campo”.

La Stella Azzurra in campo a Istanbul

Il riferimento al campionato senior è ovviamente a quello di Serie A2 Old Wild West, che in questa stagione è tornato ad avere tra i suoi protagonisti proprio “quelli della Stella”. Una scelta costosa e strategicamente necessaria per fornire a giocatori anagraficamente molto giovani un contesto competitivo adeguato e “garantito” (quando solo pochi mesi fa non era nemmeno ipotizzabile l’attività agonistica giovanile, nemmeno di livello nazionale), insieme ad alcuni elementi più esperti (lo statunitense Steve Thompson, il croato Sandi Marcius, Roberto Rullo e il playmaker classe ’99 Lazar Nikolic). Ma quanto è utile la Serie A2, per confrontarsi poi a quel livello giovanile in Europa?

La risposta di D’Arcangeli è interessante: “In assoluto il nostro campionato è molto lontano dalla fisicità di Zalgiris o Real a livello giovanile. Non capita quasi mai di confrontarsi a quegli ‘strappi’, a quell’atletismo, a quella velocità di gambe, mani e pensiero. La A2, però, ti offre pressione, la tensione dell’importanza del risultato: queste partite aiutano aiutato i giocatori da questo punto di vista. I ragazzi hanno assorbito momenti di stress, normali per chi è ultimo in classifica, affrontando le partite sempre con un po’ di acqua alla gola. Questa esperienza si è vista a Istanbul: l’anno scorso, a Monaco, contro il Real Madrid ci siamo presentati con una squadra che aveva probabilmente più talento, ma ci siamo sciolti come neve al sole. La A2, quindi, è stata importante perché ha insegnato ai giocatori qualcosa non sapevano di dover sapere. Si sono trovati a dover agire anche contro i molti imprevisti, tra partite rinviate, infortuni, risultati e altro ancora. A Istanbul abbiamo giocato la gara d’esordio senza un 2.14 come Kevin Ndzie, fermato per complicazioni burocratiche all’ingresso in Turchia. I ragazzi non si sono scomposti, sono stati bravi a gestire questa cosa e pensare solo a giocare, trovando le alternative necessarie per competere. Questa cosa viene dal campionato di A2: la gestione dell’imprevisto, degli arbitri, del contenere le conseguenze di episodi che possono generare un parziale”.

Nicola Giordano in azione

Un gruppo di giocatori che ha fatto prova di maturità, per quel livello, che ha agito in maniera compatta pur essendo allenati e “allevati” alla capacità di esprimere individualmente il proprio potenziale, ad uscire dal perfezionistico concetto dell’esecuzione maniacale per abbracciare quello dell’iniziativa, della presa di rischi, e dunque di coscienza, che significa anche saper aspettare il proprio “turno”. “Tutti i ragazzi che reclutiamo conoscono all’inizio quello che è il loro percorso”, spiega il coach, “cerchiamo di essere più trasparenti possibili: tutti, quando arrivano, hanno un’idea del loro percorso, non abbiamo mai chiesto a nessuno di venire a giocare tanto per giocare, ma di venire qui a esibirsi. Alla Stella bisogna perdere ogni retaggio, occorre costruire un muro culturale rispetto a quello che è il concetto della squadra comunemente usato. Nella nostra squadra si parlano almeno tre lingue diverse oltre all’italiano, che però è la nostra lingua comune nel nostro vivere, allenarci e giocare insieme. Tra di loro non ci sono pezzi di un qualche puzzle, abbiamo ‘i cintura nera di penetrazione’ e ‘i cintura nera di tiro’, per fare un esempio, e si esibiscono facendo una cosa che gli piace. Anche l’egoismo, però, rientra in un perimetro, sapendo tutti di avere un traguardo da tagliare con un ordine: poi, naturalmente, a parità di talento si cerca la cosa più importante per vincere. A livello individuale possiamo dire che questo è stato il momento di Nicola Giordano (21 punti, 5 assist e 4 rimbalzi contro il Real per il classe 2003, inserito nel quintetto ideale del torneo), il prossimo anno sarà il ‘turno’ di un 2004, poi di un 2005. Quando portammo Spagnolo al Next Gen – tornando a lui – era di tre anni più piccolo, ha giocato di altri che si godevano il proprio momento a coronamento di un percorso. Giordano ha doti morali incredibili, capacità tecniche anche per spegnere un avversario: era convinto di fare bene e lo ha dimostrato, ha monetizzato il lavoro fatto per arrivare fino a queste partite. Se c’è un segreto, che non è un segreto, è rispettare il proprio talento con la costanza”.

Ma 48 ore dopo Istanbul c’è stata la gara con Forlì, una sconfitta, che ha ribadito quale sia l’orizzonte immediato della Stella Azzurra, ovvero competere per cercare di ottenere una salvezza nel secondo campionato nazionale. Perché come dice D’Arcangeli, “il tempo di crogiolarci al sole rispetto a quanto fatto in Turchia non lo abbiamo”.

Pietro

Sul “fallimento” di Luis Enrique

Mi colpisce chi ha commentato, commenta e commenterà la scelta di Luis Enrique di lasciare la Roma elogiandone la dignità di fronte al “fallimento”.

Io credo che mai come nel calcio – e mai come in Italia – si abusi di questa parola, che è molto pesante, e credo anche offensiva.

Cosa avrebbe fallito Luis Enrique? Ha perso qualche partita più del dovuto o ne ha vinta qualcuna meno del dovuto, può essere.

Che aveva in testa Luis Enrique? Fare quello per cui era stato chiamato: provare a costruire una squadra a sua immagine e somiglianza, esercizio che nella sua professione (ed è la SUA professione) richiede tempo, anche tanto, soprattutto in un contesto ambientale e tecnico in cui doveva iniettare delle idee molto diverse da quelle che solitamente si era abituati a seguire. Vale il concetto per i giocatori, per i tifosi, per i media, per tutti quanti. Vale anche per lui.

“Fallimento”. Ogni sconfitta è un fallimento. Un rigore pro è un “favore”, un rigore contro è un “torto”. Vincere con un tiro in porta è “carattere”. Perdere colpendo due traverse “mancanza di cinismo”. Così si pensa, di norma, quando si parla di calcio. Che non è un gioco, non è un business, non è uno sport: per molti è ancora una valvola di sfogo. Sono ancora troppi coloro che pensano che siccome ognuno ha i suoi problemi dal lunedì al sabato, la domenica ha pure il diritto di scaricarli addosso ai calciatori (più spesso che agli altri sportivi), che sono viziati, strapagati, stronzi. Ma solo quando perdono, altrimenti caroselli.

Arrivare settimi con una squadra da settimo posto (perché la Roma questo è, al netto delle prestazioni individuali di molti dei suoi giocatori e non solamente per lacune tattiche che comunque andavano colmate) non è un “fallimento”. E non lo era per la A.S. Roma, che avrebbe confermato l’allenatore alla guida della squadra. Non lo era per i suoi giocatori, che hanno speso più di una parola a favore di Luis Enrique.

Il quale ha anche una carriera da grande giocatore alle spalle, con oltre 150 partite giocate nel Real Madrid e oltre 200 nel Barcellona, per non parlare della sua ultra decennale esperienza con la nazionale spagnola. Un uomo degno di rispetto a prescindere. Poi siccome s’è dimesso, allora rispettiamolo di più, perché uno che lascia perché si ritiene (a torto o a ragione) inadeguato alla causa è in effetti una sorta di marziano, almeno per quello che ci raccontano le cronache degli ultimi anni.

Mi dispiace sinceramente che Luis Enrique non alleni più la Roma, ma altrettanto sinceramente il rispetto se lo era guadagnato anche prima. Riconoscerglielo solo adesso mi sembra un esercizio piuttosto futile. Dare del “fallito” (lo è chi compie un “fallimento”) a uno così, per il lavoro che ha cercato di portare avanti, è un ulteriore invito alle società italiane a continuare  con la vergognosa (e infruttuosa, nella stragrande maggioranza dei casi) tendenza a mandare via seri professionisti sulla base di criteri assolutamente soggettivi e imponderabili. Perché anche il risultato è soggettivo e imponderabile: scindere più spesso il concetto di “prestazione” da quello di “punteggio”, in uno sport come il calcio governato dal caos (talvolta anche in senso buono), aiuterebbe anche a utilizzare meglio le parole. Una sconfitta rimane tale. Un fallimento può mettere un marchio. Di sicuro non è quello che merita di avere addosso il Sig. Luis Enrique Martínez García.

Pietro

Riflessioni su una domenica “sportiva” (di Matteo Mantica)

Il blog torna in attività e lo fa ospitando alcune opinioni di Matteo Mantica, che ha scritto con me e con Francesco Repice il libro “Inter, quella notte” (Libreria dello Sport).

Una domenica un po’ particolare per chi segue lo sport quella datata 22 aprile 2012. Guardando la televisione comodamente seduto da casa mia, ho passato in rassegna un po’ tutto quello che di sport andava in onda. Dal calcio italiano, a quello inglese, dal basket alla pallavolo. E due cose in particolare mi hanno colpito e lasciato perplesso. Due cose completamente diverse ma che ugualmente mi hanno lasciato sorpreso, stranito e un po’ deluso.

Partiamo dalla seconda, quella accaduta durante la finale del campionato italiano di pallavolo in diretta dal Forum di Assago su RaiSport1. Spettacolo straordinario, pure per uno come me che non ama certo la pallavolo, in particolare quella maschile. Partita divertente, pienone di pubblico sugli spalti, grande entusiasmo, telecronaca, a mio giudizio, competente e divertente. Scudetto alla fine alla Lube Macerata che vince 22-20 al tie break dopo aver recuperato due set di svantaggio contro la squadra, l’Itas Trentino, che ha dominato in lungo e in largo l’intera stagione di volley. Una favola meravigliosa.

Poi però, mentre impazza la festa sul taraflex del Forum, RaiSport manda in onda il replay del punto che ha assegnato la vittoria ai marchigiani e cosa ne vien fuori? Che la palla chiamata out dagli arbitri era in realtà abbondantemente dentro il rettangolo di gioco. Lungi da me qualunque tipo di polemica contro gli arbitri che ritengo possano e debbano avere il diritto di sbagliare, ma rimango sorpreso e deluso per il fatto che uno sport come la pallavolo cada nel medesimo errore del grande mostro calcio: non esiste tecnologia a supporto dagli arbitri. Se il calcio ne fa una scelta filosofica, a mio modo di vedere assolutamente non condivisibile per mille aspetti, mi stupisco di come uno sport come il volley cada nel medesimo errore. Perché di errore è giusto parlare.

Non so in tutta onestà, perché non mi ci sono messo, stabilire su quali casi l’instant replay possa essere applicato nella pallavolo, ma certamente uno sport moderno e con uno sguardo sul presente e sul futuro, non può e non deve esimersi dall’aiuto che la tecnologia può offrire. Nel basket, il mio sport, se ne fa già uso da anni, come sapete, e francamente non ricordo situazioni in cui l’instant replay non abbia dato responsi che hanno effettivamente messo d’accordo tutte le parti in causa.

Non ultima, anzi prima, il famoso tiro di Ruben Douglas del 2005 che ha deciso lo Scudetto e che, visto attraverso l’ausilio dell’instant replay, è stato stabilito fosse partito in tempo utile. Vedete per caso qualche analogia con quanto successo, peraltro sullo stesso campo, domenica scorsa ad Assago? È evidente che la scelta di non fare uso della tecnologia è stata presa da chi comanda nella pallavolo, e mi piacerebbe capire, se qualcuno sa sono qui pronto ad ascoltare, i motivi per i quali questa scelta è stata intrapresa.

La seconda cosa che mi ha lasciato di stucco, è accaduta qualche ora prima ma si è poi sviluppata nella giornata di lunedì e temo, purtroppo, andrà avanti anche nei prossimi giorni. Parlo di quanto successo a Marassi durante il secondo tempo di Genoa-Siena di Serie A di calcio, quando alcuni idioti hanno raggiunto una zona delle tribune dello stadio che ha permesso loro di far sospendere per 40’ circa la partita di calcio tra lanci di fumogeni e minacce, almeno da quel che è passato a noi telespettatori da divano, più o meno velate ai calciatori.

Niente banalità, niente condanne di quanto accaduto, quello è un mestiere che lascio ad altri, gli altri le cui reazioni sono proprio il motivo scatenante della mia delusione. Tutti, più o meno, abbiamo visto le immagini di quanto accaduto, i giocatori che si sono tolti le maglie, Sculli che ha abbracciato uno di questi tifosi sussurrandogli all’orecchio chissà cosa per far desistere questo manipolo di individui dal loro comportamento.

Tutti ci siamo fatti un’idea su cosa sia accaduto, su chi può avere avuto più o meno responsabilità su quanto accaduto e su quello che si potrebbe fare o meno per evitare situazioni del genere. Io ho le mie idee, ma non vi tedio con questo. Piuttosto sposto l’attenzione su quanto accaduto nella giornata di lunedì.

La sera, tornato dal lavoro, mi collego su SkySport24 e vedo i contributi raccolti dai giornalisti in giro per l’Italia con i vari politici dello sport che vogliono, e devono, dire la loro su quello che è successo a Genova. Mano mano che sento i vari Abete, Petrucci, e, piange il cuore dirlo perché per questo ragazzo per quel che appare ho grande stima, Damiano Tommasi e mi pare sempre più evidente che l’attenzione si sta spostando su qualcos’altro, sul cercare una nuova straordinaria colpa con i suoi annessi e connessi colpevoli: aver tolto la maglia!!!!!

Tutti, chi prima chi dopo aver condannato i delinquenti, hanno evidenziato il sacrilegio di aver accettato di togliersi la maglia da gioco. Petrucci ci ha raccontato questo: “La maglia è il simbolo intangibile di una squadra e non può essere nè offesa nè vilipesa o, tantomeno, oggetto di trattative. Aver chiesto e acconsentito di far togliere le maglie ai giocatori del Genoa rappresenta un sacrilegio sportivo di cui i colpevoli dovranno rispondere in ogni sede”.

Tommasi, e ribadisco il mio personale stupore, ha detto che lui non avrebbe mai tolto la maglia cedendo a quei delinquenti: a Tommasi mi piacerebbe ricordare che lui era in quella Roma che ha deciso, dopo uno splendido colloquio Totti-tifosi in mezzo al campo all’inizio del secondo tempo, di sospendere la partita per la morte di un bambino mai avvenuta… Abete si è aggiunto al coro, con qualche altra perla che tutti avrete sentito o letto.

Il mio personale sconcerto ha decisamente preso il sopravvento. Effettivamente non avevo pensato che i veri delinquenti erano proprio i calciatori che avevano accettato, probabilmente minacciati, di togliersi le maglie della loro squadra, alcuni addirittura scoppiando in lacrime come Giandomenico Mesto, davanti a tanta vergogna. “Io non l’avrei mai tolta”, “è stato un gesto vergognoso cedere alle richieste di questi delinquenti”.

Io spero, ma è uno sperare davvero eufemistico, che qualcuno di questi signori, risentendosi o rileggendosi, si accorga di essere andato un po’, ma giusto un po’, fuori tema, parlando delle maglie dei giocatori che sembravano, ieri sera, essere diventati i veri colpevoli, pure codardi, nello scempio di domenica a Genova.

Meno male che poi, sempre su SkySport24, mi è capitato di sentire le parole di un giornalista del Corriere della Sera, Roberto Perrone, che ha fatto presente che forse il problema stava da qualche altra parte rispetto alle maglie o addirittura, come aveva paventato qualche altro genio, nel fatto che lo stadio di Genova si prestasse a situazioni di questo genere: nell’ignoranza, nella non educazione, nella mancanza di leggi, nonostante le varie genialate come la tessera del tifoso (che ha solo aumentato i problemi, salvo poi fare una sorta di malcelata retromarcia) o i tornelli negli stadi che tanto chi non deve entrare non lo si ferma comunque… Lo sport in Italia ha dei seri problemi per tanti motivi e purtroppo vedo con grande difficoltà come il futuro possa diventare più roseo nei prossimi anni.

La soluzione che ha trovato chi comanda nello sport, e che invece di trovare soluzioni vere con l’appoggio dello stato su come arrivare a che le cose di Genova non si ripetano più sulla falsariga di quanto fatto dagli inglesi ormai 20 e dico 20 anni fa se ne esce con frasi poco pertinenti, è stata: facciamo le Olimpiadi a Roma nel 2020. Io amo lo sport e vivo grazie allo sport, ma in tutta franchezza ringrazio Mario Monti per avergli sbattuto la porta in faccia.