PER DISCUTERE: Riflessioni, dopo la sirena, sul perché #siamoquesti

Nel periodo delle vittorie, durante la prima fase di Eurobasket per intenderci, è tornato di moda il refrain che vuole i nostri giocatori come poveri agnellini indifesi sacrificati per far giocare americani scarsi (o serbi, croati, sloveni, estoni, passaportati, fate voi).

Questo non è del tutto vero, anzi. Nel caso della Nazionale è assolutamente falso.

Il minutaggio complessivo belle gare giocate in Serie A (regular season+playoff) e NBA (regular season) dai giocatori della Nazionale. La media è 24.5.

– Aradori 26.1
– Gentile 23.5
– Rosselli 21.5
– Vitali 28.0
– Poeta 26.2
– Melli 17.6
– Belinelli 25.8
– Diener 33.9
– Cusin 14.6
– Datome 33.2
– Magro 10.9
– Cinciarini 32.8

I playmaker (Cinciarini 32.8, Diener 33.9, Poeta 26.2) sono quelli che mediamente hanno giocato di più. Vitali è un giocatore atipico, si può considerare playmaker: 28.0 minuti di media a Cremona.

Tra gli esterni, Gentile ha giocato 23.5 di media superando molti infortuni in una squadra dove aveva la concorrenza di Keith Langford e Malik Hairston. Aradori è stato un giocatore determinante per Cantù, con i suoi 26.1 minuti. Rosselli (21.5) ha dato un contributo di sostanza a Venezia, ma ovviamente non è un giocatore che ha nel suo passato l’altissimo livello, tantomeno europeo. E Belinelli ha giocato 25.8 minuti a partita nella NBA in una squadra da playoff.

I lunghi, in questa Nazionale, erano i giocatori numericamente più scarsi e quelli col minutaggio più ridotto. Melli era il cambio di Antonis Fotsis a Milano (17.6 minuti), anche se spesso veniva impiegato insieme al greco. Cusin ha chiuso con soli 14.6 minuti, ma è partito ininterrottamente in quintetto per le prime 18 giornate di Serie A. Poi ha avuto un calo. Magro, con i suoi 10.9 minuti, era il cambio del centro a Venezia, squadra non certo di vertice, e a questo livello è difficile da collocare.

Poi, non va dimenticato, ci sono gli assenti (media 24.7): Hackett (25.7), Gigli (27.2), Polonara (20.5), Mancinelli (14.0) e i due NBA Bargnani (28.7), Gallinari (32.5).

Giocare sotto ai 25 minuti di media non è un delitto. Nell’ultimo campionato solamente 26 giocatori hanno avuto una media di almeno 30 minuti in campo. Tra loro ci sono Travis Diener (2° con 33.9), Gigi Datome (5° con 33.1), Andrea Cinciarini (8° con 32.8), il fratello Daniele Cinciarini (9° con 32.3). Poi solo stranieri.

Questi numeri vogliono dire che è vero l’esatto contrario della tesi iniziale, e cioè che non è vero che gli italiani sono snobbati? No, non per forza. Ma vuol dire che quelli che possono giocare, giocano. Il problema si pone in precedenza. Per acquisire esperienza, per essere competitivi, devono giocare prima.

L’esempio di Datome è emblematico. Siena lo ha avuto per diverse stagioni, ma non ha mai giocato. Era giovane, vero, ma il talento lo si vedeva. Tecnico e atletico. E Siena era già una squadra molto forte, che poteva permettersi di dargli dei minuti, e non l’ha fatto.

Non è un’accusa a Siena, è una constatazione. I giocatori italiani giovani giocano poco, e questo perché molto spesso sono gli stessi allenatori a non ritenerli pronti. Spesso, peraltro, non lo sono davvero. Ma se non iniziano a giocare non lo saranno mai.

Milano ha due giocatori in Nazionale, di 21 e 22 anni. Bene. Gentile e Melli hanno storie diverse, avranno futuri diversi, e hanno avuto gestioni diverse. Comunque sia è importante (non solo per Milano) che questi ragazzi giochino partite importanti, che giochino l’Eurolega. Cantù ha fatto assaggiare l’Eurolega a Cinciarini nel 2011-12, a Cusin nell’ultima stagione, mentre Aradori l’aveva già fatto a Siena. Assaggiato solo, perché Pietro in Toscana non giocava molto, peraltro nella squadra del c.t. azzurro.

Quindi si pone un altro problema. Sull’esperienza l’abbiamo capito. Ma ci si mette in testa che questi ragazzi devono lavorare molto di più in tenera età soprattutto a livello fisico? A volte il confronto con altre nazionali giovanili di paesi con meno storia cestistica è impietoso. E anche a livello tecnico. Devono saper palleggiare, devono fare canestro quando tirano da liberi, devono avere almeno un movimento spalle a canestro, parlando solo di attacco. Sembrano cose scontate, non lo sono.

L’altro problema, allora, è proprio la qualità. I nostri giocatori hanno mercato all’estero? Sì? No? Questa per me è una domanda importante. Se sì, perché non ci vanno? In Italia molti club hanno problemi, fanno appelli, mancano i soldi, e si dice che gli stranieri sono favoriti. E allora perché restare? Per la maglia? Per un posto? Se invece non sono ricercati, perché? Non sono ritenuti di livello? Chiedono troppo?

Ad ogni modo, abbiamo diversi buoni giocatori che però hanno espresso (insieme alle loro qualità) molti limiti, in un contesto europeo. Limiti noti, limiti che hanno fatto dire a Pianigiani “Questi siamo” o #siamoquesti, come da hashtag.

Non sono 6 vittorie e 5 sconfitte che mi fanno cambiare opinione. Il basket italiano vive molti problemi. Mancano strutture dove allenarsi, soprattutto. Nei club professionistici (ma anche quelli “dilettantistici”, per modo di dire) dovrebbe essere la norma avere strutture adeguate a quello che OGGI significa competere nello sport professionistico. Sarà anche bella la retorica delle società-famiglia, delle nozze coi fichi secchi, e cose del genere.

La realtà è che bisogna adeguarsi a un mondo che è cambiato, e bisogna farlo in fretta. Le sconfitte in serie nella fase decisiva degli Europei hanno dimostrato, a mio avviso, che i giocatori italiani ci mettono quello che hanno. Ma quello che hanno non basta per sopperire alle tante, troppe problematiche che abbiamo.

Poi, 6 vittorie e 5 sconfitte non bastano per dimenticare cos’era la Nazionale al Torneo Acropolis ad agosto, non bastano per far dire al presidente Petrucci che il basket italiano tira e sta benone. Non è così, detto col dovuto rispetto.

Alessandro Gentile, classe 1992, in una intervista mi ha detto: “Il basket italiano si sta avviando verso la sua fine”. Ripeto, classe 1992. La vede dal campo, con meno fronzoli, non sempre sono d’accordo con lui ma ne rispetto l’essere schietto. E se la vede così un ragazzo destinato a vivere una grande carriera, che gioca in uno dei club più affidabili al mondo a livello economico, io mi farei venire almeno il dubbio che possa aver detto una cosa importante.

Pietro

Sulla Nazionale di basket (Servirebbero troppe righe sui giornali)

Senza Bargnani viene a mancare quello che sarebbe stato il principale terminale offensivo della squadra, l’uomo che con la sua mano d’oro avrebbe potuto garantire punti e soprattutto attenzioni particolari dalle difese altrui, in grado di liberare spazio per i compagni. Sotto canestro restano Marco Cusin, Angelo Gigli, Nicolò Melli e Stefano Mancinelli con Datome pronto ad agire da “4 tattico” (come peraltro si può considerare lo stesso Mancinelli).

Poco, troppo poco ad altissimo livello in termini soprattutto di quella densità fisica necessaria per limitare i colossi alla Maciej Lampe e Marcin Gortat (per ricordare solo gli ultimi avversari, i polacchi, che potevano contare anche su un prospetto di valore come Karnowski da centro).

E oltre alle mancanze difensive mancano giocatori con mani forti per ricevere dopo aver preso posizione profonda spalle a canestro, per generare così aiuti difensivi, scarichi comodi per i tiratori, e costringere gli avversari a spendere tanti falli.

Senza questa opzione, l’essenza del gioco offensivo è legata mani e piedi alla creatività degli esterni. Diener, certo, ma anche il neo-Spurs Marco Belinelli, Alessandro Gentile e Pietro Aradori. Realizzatori che andrebbero innescati nelle loro posizioni di campo preferite, cioé a media distanza, e che invece soffrono della mancanza di una circolazione fluida, di lunghi in grado di portare blocchi duri per loro e che vedono gli spazi a disposizione diminuire in maniera esponenziale quando le percentuali nel tiro da fuori calano.

Insomma, i problemi tecnici sono tanti. O, per dirla alla Pianigiani, questi siamo.

Momenti che avrei voluto raccontare

Mi hanno sempre affascinato i perdenti, o per meglio dire gli sconfitti. Quelli che stanno dalla parte sbagliata del destino, o di un poster. A volte sono loro che hanno alle spalle le storie migliori, o comunque quelli che sul medesimo evento sportivo potrebbero avere cose più intense, emozioni più forti da raccontare. Punto di vista del tutto personale, ovviamente. Ma a me affascina il momento decisivo, e la prima cosa che cerco di guardare è la faccia di quella, di quello o di quelli a cui va male. Ecco, a braccio, una piccola lista di “highlights” che avrei voluto poter raccontare insieme a chi li ha vissuti, col registratore acceso.

Trevor Berbick mentre cerca di trovare l’equilibrio prima del knock-out, nel match perso contro Mike Tyson (che quella sera diventò per la prima volta campione del mondo).

Gigi Di Biagio che colpisce la traversa tirando l’ultimo rigore di Francia-Italia al Mondiali del 1998.

Le sensazioni dell’intera nazionale francese di basket dopo l’incredibile tiro di Diamantidis che ha permesso alla Grecia di completare la rimonta nell’ultimo minuto della semifinale degli Europei 2005.

Bryon Russell che prova a marcare Micheal Jordan: non ho bisogno di spiegare altro. Se non conoscete l’episodio a cui mi riferisco è solo colpa vostra.

Sergei Liakhovich che crolla a pochi secondi dalla fine della sua difesa del titolo WBO dei pesi massimi contro Shannon Briggs. Avrebbe vinto ai punti.

Il nervosismo di Martina Hingis nella finale persa a “Roland Garros” nel 1999 contro Steffi Graf. Anzi, non era nervosa: proprio incazzata nera. E al pubblico francese non pareva vero di poterla fischiare in libertà.

I tiri liberi di Nick Anderson in gara-1 della Finale NBA tra Orlando Magic e Houston Rockets, nel 1995.

Ex aequo, Europei 2000: Van Der Sar che prova a salvare l’Olanda sciagurata ai rigori in semifinale contro l’Italia, e Toldo che deve arrendersi al 94′ della finale contro la Francia dopo quell’impresa miracolosa. Prima di farlo ancora nei supplementari, ma la partita “vera” era finita.

David Robinson che non riesce a venire a capo di Hakeem Olajuwon nella Finale della Western Conference 1995 tra San Antonio Spurs e Houston Rockets.

Roger Federer e la finale di “Roland Garros” contro Rafael Nadal nel 2011. Quei primi due set, porca miseria…

Pietro