PER DISCUTERE: Riflessioni, dopo la sirena, sul perché #siamoquesti

Nel periodo delle vittorie, durante la prima fase di Eurobasket per intenderci, è tornato di moda il refrain che vuole i nostri giocatori come poveri agnellini indifesi sacrificati per far giocare americani scarsi (o serbi, croati, sloveni, estoni, passaportati, fate voi).

Questo non è del tutto vero, anzi. Nel caso della Nazionale è assolutamente falso.

Il minutaggio complessivo belle gare giocate in Serie A (regular season+playoff) e NBA (regular season) dai giocatori della Nazionale. La media è 24.5.

– Aradori 26.1
– Gentile 23.5
– Rosselli 21.5
– Vitali 28.0
– Poeta 26.2
– Melli 17.6
– Belinelli 25.8
– Diener 33.9
– Cusin 14.6
– Datome 33.2
– Magro 10.9
– Cinciarini 32.8

I playmaker (Cinciarini 32.8, Diener 33.9, Poeta 26.2) sono quelli che mediamente hanno giocato di più. Vitali è un giocatore atipico, si può considerare playmaker: 28.0 minuti di media a Cremona.

Tra gli esterni, Gentile ha giocato 23.5 di media superando molti infortuni in una squadra dove aveva la concorrenza di Keith Langford e Malik Hairston. Aradori è stato un giocatore determinante per Cantù, con i suoi 26.1 minuti. Rosselli (21.5) ha dato un contributo di sostanza a Venezia, ma ovviamente non è un giocatore che ha nel suo passato l’altissimo livello, tantomeno europeo. E Belinelli ha giocato 25.8 minuti a partita nella NBA in una squadra da playoff.

I lunghi, in questa Nazionale, erano i giocatori numericamente più scarsi e quelli col minutaggio più ridotto. Melli era il cambio di Antonis Fotsis a Milano (17.6 minuti), anche se spesso veniva impiegato insieme al greco. Cusin ha chiuso con soli 14.6 minuti, ma è partito ininterrottamente in quintetto per le prime 18 giornate di Serie A. Poi ha avuto un calo. Magro, con i suoi 10.9 minuti, era il cambio del centro a Venezia, squadra non certo di vertice, e a questo livello è difficile da collocare.

Poi, non va dimenticato, ci sono gli assenti (media 24.7): Hackett (25.7), Gigli (27.2), Polonara (20.5), Mancinelli (14.0) e i due NBA Bargnani (28.7), Gallinari (32.5).

Giocare sotto ai 25 minuti di media non è un delitto. Nell’ultimo campionato solamente 26 giocatori hanno avuto una media di almeno 30 minuti in campo. Tra loro ci sono Travis Diener (2° con 33.9), Gigi Datome (5° con 33.1), Andrea Cinciarini (8° con 32.8), il fratello Daniele Cinciarini (9° con 32.3). Poi solo stranieri.

Questi numeri vogliono dire che è vero l’esatto contrario della tesi iniziale, e cioè che non è vero che gli italiani sono snobbati? No, non per forza. Ma vuol dire che quelli che possono giocare, giocano. Il problema si pone in precedenza. Per acquisire esperienza, per essere competitivi, devono giocare prima.

L’esempio di Datome è emblematico. Siena lo ha avuto per diverse stagioni, ma non ha mai giocato. Era giovane, vero, ma il talento lo si vedeva. Tecnico e atletico. E Siena era già una squadra molto forte, che poteva permettersi di dargli dei minuti, e non l’ha fatto.

Non è un’accusa a Siena, è una constatazione. I giocatori italiani giovani giocano poco, e questo perché molto spesso sono gli stessi allenatori a non ritenerli pronti. Spesso, peraltro, non lo sono davvero. Ma se non iniziano a giocare non lo saranno mai.

Milano ha due giocatori in Nazionale, di 21 e 22 anni. Bene. Gentile e Melli hanno storie diverse, avranno futuri diversi, e hanno avuto gestioni diverse. Comunque sia è importante (non solo per Milano) che questi ragazzi giochino partite importanti, che giochino l’Eurolega. Cantù ha fatto assaggiare l’Eurolega a Cinciarini nel 2011-12, a Cusin nell’ultima stagione, mentre Aradori l’aveva già fatto a Siena. Assaggiato solo, perché Pietro in Toscana non giocava molto, peraltro nella squadra del c.t. azzurro.

Quindi si pone un altro problema. Sull’esperienza l’abbiamo capito. Ma ci si mette in testa che questi ragazzi devono lavorare molto di più in tenera età soprattutto a livello fisico? A volte il confronto con altre nazionali giovanili di paesi con meno storia cestistica è impietoso. E anche a livello tecnico. Devono saper palleggiare, devono fare canestro quando tirano da liberi, devono avere almeno un movimento spalle a canestro, parlando solo di attacco. Sembrano cose scontate, non lo sono.

L’altro problema, allora, è proprio la qualità. I nostri giocatori hanno mercato all’estero? Sì? No? Questa per me è una domanda importante. Se sì, perché non ci vanno? In Italia molti club hanno problemi, fanno appelli, mancano i soldi, e si dice che gli stranieri sono favoriti. E allora perché restare? Per la maglia? Per un posto? Se invece non sono ricercati, perché? Non sono ritenuti di livello? Chiedono troppo?

Ad ogni modo, abbiamo diversi buoni giocatori che però hanno espresso (insieme alle loro qualità) molti limiti, in un contesto europeo. Limiti noti, limiti che hanno fatto dire a Pianigiani “Questi siamo” o #siamoquesti, come da hashtag.

Non sono 6 vittorie e 5 sconfitte che mi fanno cambiare opinione. Il basket italiano vive molti problemi. Mancano strutture dove allenarsi, soprattutto. Nei club professionistici (ma anche quelli “dilettantistici”, per modo di dire) dovrebbe essere la norma avere strutture adeguate a quello che OGGI significa competere nello sport professionistico. Sarà anche bella la retorica delle società-famiglia, delle nozze coi fichi secchi, e cose del genere.

La realtà è che bisogna adeguarsi a un mondo che è cambiato, e bisogna farlo in fretta. Le sconfitte in serie nella fase decisiva degli Europei hanno dimostrato, a mio avviso, che i giocatori italiani ci mettono quello che hanno. Ma quello che hanno non basta per sopperire alle tante, troppe problematiche che abbiamo.

Poi, 6 vittorie e 5 sconfitte non bastano per dimenticare cos’era la Nazionale al Torneo Acropolis ad agosto, non bastano per far dire al presidente Petrucci che il basket italiano tira e sta benone. Non è così, detto col dovuto rispetto.

Alessandro Gentile, classe 1992, in una intervista mi ha detto: “Il basket italiano si sta avviando verso la sua fine”. Ripeto, classe 1992. La vede dal campo, con meno fronzoli, non sempre sono d’accordo con lui ma ne rispetto l’essere schietto. E se la vede così un ragazzo destinato a vivere una grande carriera, che gioca in uno dei club più affidabili al mondo a livello economico, io mi farei venire almeno il dubbio che possa aver detto una cosa importante.

Pietro

Superficiali constatazioni statistiche sugli All-Star italiani @allstargameita

Questi sono i convocati (Nome, squadra, punti a partita, minuti a partita)

Riccardo Cervi (Trenkwalder Reggio Emilia) 2.9 e 11.9

Massimo Chessa (Tezenis Verona) – LEGADUE

David Cournooh (Biancoblu Bologna) – LEGADUE

Lorenzo D’Ercole (Acea Roma) 7.0 e 20.6

Andrea De Nicolao (Cimberio Varese) 5.0 e 15.4

Alessandro Gentile (EA7 Milano) 4.5 e 15.6

Matteo Imbrò (Saie3 Bologna) 3.5 e 16.5

Daniele Magro (Umana Venezia) 2.6 e 5.1

Valerio Mazzola (Sutor Montegranaro) 4.8 e 20.2

Nicolò Melli (EA7 Milano) 4.6 e 14.8

Riccardo Moraschini (Saie3 Bologna) 4.4 e 12.7

Achille Polonara (Cimberio Varese) 10.3 e 22.7

Il totale dei punti segnati a partita dai giocatori selezionati e militanti in Serie A è 49.6 (media 4.96), con un minutaggio medio di 15.5.

Questi, invece, i top scorer italiani del massimo campionato (Sì, lo so, non è solo dai punti segnati che si misura un giocatore. Ma qui parliamo di All-Star Game, non di raffinate soluzioni tattiche per vincere l’Eurolega).

1. Gigi Datome (Acea Roma) 18.5 (Farà la gara del tiro da tre. Ma non la partita)

2. Daniele Cinciarini (Sutor Montegranaro) 15.0

3. Daniele Cavaliero (Scavolini Banca Marche Pesaro) 12.5

4. Andrea Cinciarini (Trenkwalder Reggio Emilia) 12.1

5. Giuseppe Poeta (SAIE3 Bologna) 11.7

6. Achille Polonara (Cimberio Varese) 10.3 (unico tra i convocati)

7. Massimo Bulleri (Umana Venezia) 10.1
7. Andrea Crosariol (Scavolini Banca Marche Pesaro) 10.1

9. Pietro Aradori (Chebolletta Cantù) 10.0

10. Luca Vitali (Vanoli Cremona) 9.4
10. Angelo Gigli (SAIE3 Bologna) 9.4

Massimo rispetto per tutti. Ma l’All-Star Game non dovrebbe essere un’occasione per monitorare i giovani, semmai quella di mettere in mostra per una sera il meglio che c’è a disposizione, tanto per divertirsi un pò.

Così, per me, è meglio non farlo. Piuttosto organizzate un’amichevole ufficiale con la nazionale “vera”.

Pietro

Francesco Repice e Mario Balotelli

La copertina del libroMentre i tifosi italiani riscoprono Mario Balotelli – e lui si lascia riscoprire volentieri – ripubblico qui un piccolo estratto del libro “Inter, quella notte” (Libreria Dello Sport, 2011) scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice. Proprio il radiocronista Rai ha dedicato un pezzo a Balotelli, un “endorsement” in tempi non sospetti, non di certo un’improvvisa salita sul carro. Per questo, oggi, ve lo ripropongo qui così com’è in pagina, senza grassetti né aggiunte da parte mia.

Pietro

QUANTO CASINO PER MARIO

“Buuuuuuuuuu buuuuuuuuuuuuuuu”. Pomeriggio di una domenica qualsiasi a Verona; Chievo Verona-Inter. È sufficiente che Balotelli prenda la palla per scatenare la stupidità e l’ignoranza senza lacune di (per fortuna) pochi spettatori col cervello annacquato da chissà quali inarrivabili stronzate. Il cronista, verghianamente parlando, non fa altro che sottolineare quanto sta accadendo lasciandosi andare, poco verghianamente, ad un minimo di commento ovviamente sdegnato. Niente tuttavia che possa in qualche modo innescare la reazione piccata del presidente Campedelli, il quale a fine partita scende in sala stampa per dire che no, gli ululati razzisti non sono partiti dalla bocca dei tifosi di casa, bensì dai supporters interisti all’indirizzo di Luciano (ex Eriberto) e che sì, ancora una volta, i mezzi di comunicazione di massa se la sono presa con il povero Chievo senza azzardarsi a scalfire il granitico monolite morattiano con critiche extracalcistiche alla sua tifoseria.

Il cronista, presente alla tumultuosa conferenza stampa, fa sommessamente notare che gli ululati li ha sentiti con le sue orecchie e che il suo dovere è quello di portarli a conoscenza di chi ascolta a prescindere da dove partano e a chi siano indirizzati, perché questo è il sacrosanto diritto di chi sta seguendo la partita in radio ed è anche l’imprescindibile obbligo di chi quella partita sta raccontando. La signora Bedi Moratti, anche lei nei pressi, annuisce e il cronista si sente in qualche modo gratificato da una vicinanza così autorevole.

Ecco, tutto questo per dire che Mario Balotelli non è un mio amico; che con Mario Balotelli non ho mai parlato, all’Inter, al Manchester City, come in Nazionale; che Mario Balotelli avrebbe tutti i motivi per essere un ragazzo felice (soldi, notorietà e calci al pallone); che Mario Balotelli dovrebbe apprezzare di più ciò che la natura e la fortuna gli hanno regalato. Tutto questo però per dire anche che Mario Balotelli, ogni volta che mette piede su un campo di calcio – esclusi quelli bellissimi della Premier League – viene fatto oggetto di “attenzioni” che, al di là di ogni umana comprensione, possono e devono essere considerate di stampo razzista. A meno che tutti non ci vogliamo nascondere dietro formulette di circostanza del tipo “gli ululati servono solo a scoraggiare l’avversario e non ad offenderlo”, oppure “gli ululati sono frutto dell’ignoranza di chi non conosce nemmeno il significato delladiscriminazione razziale” eccetera, eccetera…

Non è così! Quegli ululatisono figli dell’odio che come un tarlo velenoso sta rosicchiando dalle fondamenta le nostre curve. E l’odio ha una matrice ben precisa: proviene da ambienti riconoscibilissimi e rintracciabilissimi che stanno compiendo un’operazione subdola e strisciante: sfruttare il malcontento e la rabbia di parte della popolazione per seminare il germe dell’intolleranza e dell’odio razziale appunto. Non si spiegherebbero altrimenti striscioni apparsi persino in un’amichevole che la Nazionale di Cesare Prandelli ha recentemente disputato con la Romania. “Non esistono negri italiani”, quello srotolato in bella evidenza tra un gruppetto di non (colpevolmente) meglio identificati “Ultras Italiani” che hanno preso la cattiva abitudine – da un po’ di anni a questa parte – di seguire le partite degli azzurri.

Sarà bene che certi osservatorii facciano un salto di qualità e indichino a chi di dovere le culle di questi neonati dell’intolleranza che però rischiano di crescere e fare proseliti nei nostri stadi. Detto questo, il finale di Inter-Barcellona targato Mario Balotelli rischierebbe di far saltare i nervi anche al Mahatma Gandhi e di certo ha scatenato l’incazzatura nera, bianca, rossa, gialla e viola dei tifosi interisti senza distinzione di settore e di età. Un tiro da metà campo senza capo né coda; due tentativi di sottrarre palla all’avversario (Iniesta e Pedro!!!!!) di tacco a pochi metri dall’area di rigore di Julio Cesar; altrettanti mancati ripieghi sul giocatore blaugrana che se ne andava palla al piede senza incontrare la benché minima opposizione. Così sono andate le cose in quel convulso, drammatico, spettacolare, indimenticabile finale di partita tra la banda Mourinho e l’invincibile armata di Pep Guardiola.

E tutto questo con l’Inter in vantaggio per 3-1. Vale a dire che un gol in più o in meno in quei casi fa (come poi è puntualmente accaduto) tutta la differenza del mondo. E tutto questo in una semifinale d’andata di Champions League! Il cronista di cui sopra, mai dimenticherà gli sguardi lividi di rabbia dei seguaci della

Beneamata, quando Balotelli, al fischio finale dell’arbitro, indispettito (?!?!?!?!?!) dalla reazione degli spalti di San Siro decide di mettere in atto il gesto più profondamente insultante per un tifoso: scaraventare la maglia a terra, oltraggiarla, sancendo così di fatto il suo addio a Milano. Si narra che il dopo-partita di Inter-Barcellona sia stato alquanto turbolento per Mario Balotelli. Si narra che alcuni suoi compagni di squadra si siano fatti sentire con l’attaccante bresciano… e quando diciamo “sentire” usiamo un eufemismo. Del resto, la storia interista di Balotelli, specie con José Mourinho in panchina, è stata tutta un saliscendi di condanne e perdoni; di carezze e rimproveri; di bastoni e carote. E lui, SuperMario, nulla ha mai fatto per smussare gli spigoli di un carattere indubbiamente particolare: dal finale di Inter-Barcellona, al blitz di Striscia la notizia con tanto di maglia milanista al collo, ai novanta minuti di Inter-Siena con lo scudetto 2009 già cucito sul petto e lo Special One ad imprecare nonostante un gol segnato, perché quel pallone avrebbe dovuto metterlo in porta Ibra in corsa per la classifica cannonieri ed invece Balotelli non seppe resistere alla tentazione di calciare il pallone verso il portiere avversario piuttosto che porgerlo deferentemente al suo più famoso collega di reparto che, nel frattempo, si era già graziosamente accordato proprio con il Barcellona per andare a vincere l’unico trofeo che tutt’ora non può esibire nella sua lussureggiante bacheca: la Coppa dei Campioni.

Che storia. Grazie a quella partenza, l’Inter di Moratti ha potuto ingaggiare tale Samuel Eto’o e vincere la Champions League l’anno seguente dopo centottanta minuti da delirio proprio contro il Barcellona di Zlatan. Sono le storie infinite che può regalare il calcio quando la logica del campo condurrebbe su una strada diversa da quella del Santiago Bernabeu. E dire che Mario Balotelli, un piccolo paragrafo di quella magnifica storia è, nel bene e nel male, riuscito a scriverlo. Da qui i rimpianti, finanche la rabbia per non essere riusciti a trattenere un talento così scintillante nel campionato italiano. Ci sta provando Cesare Prandelli a restituire Mario Balotelli a quello che è e rimane il suo Paese.

La maglia azzurra è forse l’unica capace di convincere SuperMario a convogliare tutta la sua forza in un progetto italianissimo come quello della nazionale. Gli Europei, il Mondiale brasiliano, obiettivi ambiziosi e nobilissimi che sono entrati nella testa e nel mirino di un giocatore straordinario quanto inquieto. Sarebbe bellissimo vederlo esultare, vincere, gioire con la maglia azzurra sulle spalle. Da titolare, da protagonista, da italiano vero. Alla faccia dei “buuuuuuuuuuuuuuuu”; alla faccia di quelli che “non esistono negri italiani”; alla faccia dei neo-razzisti che infestano i nostri stadi e che per quanto pochi possano essere fanno venire il voltastomaco solo a sentirli e vederli nelle loro infami manifestazioni di intolleranza e disprezzo verso un ragazzo con la pelle nera.

Quando Mario capirà che zittendo questi personaggi, impartirà loro una lezione severissima di civiltà e riscatterà quei suoi colleghi e non, di certo meno famosi, che sopportano quotidianamente vessazioni di ogni genere, allora anche chi racconta e vede calcio con gli occhi puliti della passione potrà urlare al cielo che sovrasta uno stadio di calcio tutta la gioia di un gol, di una vittoria firmata Mario Balotelli. Io ci spero, ci conto. Io sto con Mario Balotelli.

Così parlava Simone Pianigiani (3 anni fa)

Oggi che si è chiuso un secondo ciclo di tre anni (per un totale di sei scudetti consecutivi), e che il c.t. azzurro Simone Pianigiani ha annunciato la sua decisione di lasciare la Mens Sana Siena, suo club di sempre, ripropongo una mia intervista realizzata per il “fu” mensile Dream Team con il coach senese dopo la conquista del terzo scudetto. Il suo cammino era già da record, non poteva ancora sapere fino a che punto.

Pietro

L’IMBATTIBILE

Lo dicono i numeri, che in Italia lo mettono al livello – se non sopra – dei migliori allenatori di sempre. Merito di Siena, certo. Dei giocatori. Di un progetto societario e aziendale importante. Ma merito, soprattutto, di Simone Pianigiani

SIENA – Da ragazzo a uomo. Da progetto a splendida realtà. Da assistente a capo. Il tutto, non muovendosi mai da casa. Simone Pianigiani è un autentico figlio di Siena – con la quale, dice, “ho un rapporto viscerale” – perché è Siena che oggi, dopo anni di paziente attesa e di tanto lavoro, da ragazzo gli ha permesso di diventare uomo, all’interno dell’ambiente di cui voleva far parte.

Oggi, 119 vittorie e 3 scudetti dopo (per quanto concerne il record “italiano”), Pianigiani è semplicemente uno dei migliori allenatori d’Europa – parole e musica di Zelimir Obradovic. “Ovviamente è qualcosa di molto stimolante e gratificante essere arrivato al punto da poter sfidare sul campo allenatori come lui, come Messina e tutti gli altri”, ci dice Pianigiani. Uno che, prima di farsi consegnare le chiavi di casa da parte del presidente Ferdinando Minucci, ha lavorato come assistente per grandi nomi della panchina.

Gente passata da Siena anche per arricchire il bagaglio di esperienze del nostro protagonista, se è vero – come Minucci ha sempre sostenuto – che Pianigiani era un vero e proprio progetto della società. Siena come punto di partenza, quindi. E Siena, finora, anche come punto di arrivo del 40enne allenatore della città del Palio (“Che però non riesco più a seguire, visto che in quei giorni sono sempre preso tra ritiri e altri impegni”): “Paradossalmente ho avuto la possibilità di fare il percorso giusto rimanendo fermo. Restando a Siena in tutti questi anni ho fatto tutte le esperienze possibili: allenare i giovani, reclutarli, fare scouting, vivere il ruolo di assistente ad alto livello [di allenatori come Pancotto, Melillo, Dalmonte, Rusconi, Frates, Ataman e Recalcati, ndr]. Poi il part-time di Carlo [Recalcati] – per i suoi impegni da commissario tecnico della Nazionale – mi ha lasciato più spazio per essere protagonista anche con la prima squadra”. Esperienze importanti.

“Certo, perché facendo l’assistente in un certo senso ‘rubi’ spunti a tutti coloro con cui lavori: e per me uno spunto non è mai una cosa tecnica, ma un insieme di cose. Una parola, una determinata situazione, la gestione di un rapporto. Alla fine noi siamo il frutto della somma delle nostre esperienze, poi è chiaro che ogni allenatore deve avere una sua idea di come vuol fare pallacanestro, deve avere un certo approccio al lavoro, un’etica di allenamento, e le priorità sono sempre molto personali e caratterizzanti. Personalmente mi sento in una situazione privilegiata e cerco di non deludere le aspettative di chi mi considera un allenatore di livello. Arrivare a giocare l’Eurolega è il massimo per la mia professione: poter sfidare gente come Obradovic, Messina, Gershon e tutti gli altri è impagabile”.

Fare l’allenatore è un mestiere “totalizzante”: la leggenda ti vuole addirittura maniacale. Perché?

“Perché penso che sia normale, al di là di tutto. Si va in campo, si cena tardi dopo la gara, si riguarda la partita, si fanno quelle valutazioni che magari – in una serie di playoff – la mattina dopo devi essere pronto a comunicare ai giocatori. È vero, a me il lavoro piace prenderlo in maniera totalizzante, ma non voglio apparire, né io né il mio staff, un maniaco o un ossessionato dal risultato o dalla tattica. Vedo il mestiere di allenatore come qualcosa di artistico, in un certo senso: bisogna abbinare tutta una serie di cose, ci sono mille spunti, occorre fare un lavoro molto creativo. È in questa chiave che mi piace pensare, ad esempio, ai tanti momenti in cui ci siamo ritrovati a lavorare anche a orari non consueti. Non cerchiamo solo particolari tecnici, ma anche la maniera migliore di dare ai giocatori stimoli sempre nuovi, per tenere sempre sollecitata la loro attenzione. Perché questo lavoro sia efficace serve creatività, gente che propone. Mi piace pensare a un laboratorio di idee, in termini molto moderni”.

Alla fine però è il capo allenatore ad avere l’ultima parola, a giocarsi la sua credibilità.

“È normale che il capo allenatore abbia le responsabilità maggiori. Però in tutto questo processo c’è molto entusiasmo da parte di tutti, credo che nello sport serva questo. Noi allenatori dobbiamo creare un sistema nel nostro lavoro, per poterlo fornire ai giocatori, dei quali dobbiamo rispettare il talento e la genialità. Ma il talento, senza un sistema, è fine a se stesso”.

Usiamo una parola che oggi appare un po’ inflazionata: progetto. Avete iniziato la stagione 2006-07 con l’idea di un lavoro su base triennale per ritornare a essere competitivi. Avete esagerato.

“Sì, onestamente credo che un triennio con questo record non sia mai appartenuto a nessuno, e probabilmente non si ripeterà tanto facilmente. Per noi era impossibile ipotizzare tutte queste vittorie. C‘era un programma triennale, con l’idea di tornare il terzo anno in Eurolega e provare a competere per il titolo. Ora, alla prima stagione abbiamo bruciato tutte le tappe, vincendo subito lo scudetto, ma non per questo il progetto si doveva fermare – anzi, necessitava di una nuova spinta. Tre anni sono anche un percorso significativo per fare dei bilanci e capire ora come andare avanti. Sicuramente intorno alla squadra tutti hanno ancora il desiderio di partecipare a un progetto molto coinvolgente, ora si tratta di capire – insieme al presidente Minucci – qual è il modo migliore di dargli continuità”.

Il presidente Minucci, la mattina dopo il titolo [quello del 2009], aveva parlato di due visioni diverse sul futuro della squadra: tu più conservativo, lui – anche per esigenze manageriali – più disposto a fare cambiamenti.

“Ma sostanzialmente eravamo e siamo d’accordo sull’idea generale, che è quella di non ripartire da zero, anche per non disperdere un patrimonio di lavoro fatto. Allo stesso tempo è giusto tener presente una certa progettualità societaria, ma anche immettere nuovi stimoli dentro al gruppo. E poi questi discorsi bisogna farli prendendo in considerazione quello che offre il mercato, le situazioni e le opportunità, intese come scelte che magari si è costretti a dover fare”.

Sempre su questi tre anni, i tuoi primi da head coach. Quali sono i più e i meno per Simone Pianigiani?

“Direi che la quasi totalità è positiva, al di là dei successi ottenuti. Sono stato felice di vedere crescere la squadra e i giocatori con il lavoro, mi ha fatto piacere sentire i miei giocatori rispondere alle sollecitazioni e ho apprezzato moltissimo il fatto di lavorare con un gruppo straordinario, anche dal punto di vista umano. Le cose meno belle, invece, sono legate a certe esasperazioni italiane, a certa stampa che tende più a fare polemica piuttosto che a esaltare le cose positive. Insomma, la constatazione che in generale se fai le cose molto bene vieni considerato più in Europa che in Italia. Qui si vive di astio e discussioni da bar, e invece proprio da questo punto di vista è stata molto bella la finale con Milano, giocata in un contesto civile, con tanta gente venuta a vedere il basket e che è rimasta fino alla fine anche se la squadra di casa ha perso. Un bel segnale”.

Dal tuo privilegiatissimo punto di vista, vedere altre squadre – oggi Milano, ieri Roma e Bologna – essere contente di “vincere lo scudetto degli altri”, considerando il Montepaschi fuori portata, come lo interpreti?

“Prima di tutto dicendo che noi non siamo fuori portata. Tutto quello che siamo ce lo siamo guadagnati con grande fatica, ed è questo che ha fatto la differenza. Noi  abbiamo passato l’estate preoccupandoci della Supercoppa, poi della prima di campionato e poi via via del resto. Gli altri ci prendevano come punto di riferimento, mettendo al centro della discussione il fatto di avvicinarsi al nostro livello. Noi invece non abbiamo mai pensato di avere due, tre o quattro avversarie dirette, ma abbiamo considerato ogni partita come una sfida a sé – ognuna difficile. Detto questo, credo che le squadre che in una stagione arrivano in fondo, fanno una finale e raggiungono ottimi risultati debbano essere contente. Non possiamo continuare ad avere una logica sportiva per cui soltanto chi vince è bravo e gli altri sono dei perdenti. Per vincere o perdere, prima di tutto bisogna essere lì a giocarsela, e non è mai scontato”.

Quello che invece a volte si da per scontato è il vostro lavoro: “Siena è troppo più forte, più ricca, più brava”. Si è arrivati a un punto dove gli scarti plateali con cui  vincete vi danneggiano?

“Questo fatto più che innervosirmi mi dispiace, soprattutto per i miei giocatori, perché non c’è il giusto rispetto per il lavoro che svolgono quotidianamente. Molti di quelli che dicono che oggi per noi è tutto facile tre anni fa non erano convinti del valore di certi giocatori, ragazzi che allora non avevamo mai disputato un playoff di Serie A o giocato un’Eurolega, a 30 anni. Per onestà intellettuale allora si dovrebbe esaltare a dismisura la mia squadra se se la gioca con le big europee pur senza Lavrinovic e Domercant, come di fatto è successo contro il Panathinaikos. Se noi siamo deludenti perché perdiamo contro una squadra che ha 15 giocatori tra i più forti d’Europa, allora il giochino non mi sta più bene”.

Ci sono stati, in questi tre anni, momenti particolarmente significativi all’interno del tuo gruppo?

“Ce ne sono stati tanti, dal punto di vista sia umano che professionale, sia nei colloqui con il gruppo che a livello individuale. Non è giusto renderne pubblico uno piuttosto che un altro, anche perché i rapporti non bisogna mai darli per scontati in un contesto di squadra dove si mettono insieme persone che non si sono mai viste prime e che arrivano da esperienze molto variegate. Basti pensare alla stagione che ha vissuto con noi un ragazzo come Joseph Forte, stagione che non ha replicato né prima né dopo. E poi ci sono gli stimoli che anche i giocatori hanno dato a noi allenatori. È stato un bel percorso, per tutti”.

Rewind. Quando ti hanno detto: ”Sei il coach”. Pensieri?

“Ho pensato che avevo fatto bene negli anni a non accettare proposte per andare via da Siena, rifiutando altre offerte da capo allenatore per aspettare di avere la chance di allenare questa squadra. Comunque fosse andata, ne sarebbe valsa la pena”.

Com’è Simone Pianigiani quando stacca la spina?

“Cerco di vivere comunque il basket a tutto tondo, perché la mia professione include i viaggi, il rapporto con gli altri, le passioni forti. Cerco però di sviluppare anche altro, cerco di ritagliarmi sempre uno spazio prima di dormire per prendere in mano un buon libro, piuttosto che per interessarmi sinceramente alle persone. E come nel mio lavoro cerco di andare sempre ‘dentro’ alle cose, fino in fondo, pensando che il basket sia solo un meraviglioso strumento per conoscere mondi, persone, situazioni diverse e vivere emozioni, che è la cosa importante”.

Curioso, quindi?

“È importante essere aperti a mille stimoli, quando vuoi ottenere il meglio nella tua attività e hai l’esigenza di appassionare e motivare chi ti sta intorno. I miei hobby? Mi piace il cinema importante, quello un po’ noioso [scherza], magari in bianco e nero. Così come la letteratura che viene considerata un po’ più ‘pesante’. Credo che anche nel mio mestiere serva saper leggere anche la terza pagina di un giornale, e la curiosità che cerco di avere credo che sia doverosa. Sono nella vita come nel mio lavoro: non un manager puro… più ‘umanista’, se così si può dire”.

Parlaci del tuo rapporto con la città Siena.

“Ogni senese è legato visceralmente alla sua città, per mille motivi. Io paradossalmente, facendo questo lavoro, la vivo meno e così il mio rapporto con Siena è quello di chi vorrebbe riappropriarsi un po’ di più di questa città. Oggi è questo il mio obiettivo a livello personale, proprio il contrario di quando si è giovani e si investono energie per crescere in fretta. Siena è magica da vivere nella sua totalità: mi piacerebbe fare delle vere e proprie vacanze nella mia città, poter scegliere un buon ristorante in collina, passeggiare in centro, prendere un caffè all’aperto, andare in contrada [lui è della Lupa, ndr]”.

Per chiudere: il sogno di Siena, e immaginiamo anche il tuo, è vincere l’Eurolega. Faresti un ‘voto’ pur di arrivarci?

“Onestamente no, la scaramanzia non mi appartiene. Divento matto quando non proviamo a fare il massimo per vincere, ma essere ossessionati dalla vittoria è il modo perfetto per non arrivarci mai”.