Qualche nota sulla regular season @Euroleague @OlimpiaEA7Mi #ifeeldevotion

VEDI ANCHE: il calendario delle Top 16

– Milano, per la prima volta nella storia di Euroleague Basketball, è l’unica formazione italiana qualificatasi nelle Top 16. Il suo record di 5-5 lo considero da 6 in pagella. In casa ha fatto quelllo che doveva, 1-4 in trasferta con questo panorama non bene. A Kaunas e Strasburgo poteva e doveva vincere. No alla logica sparagnina. Siena ha interrotto una striscia di 6 apparizioni consecutive alle Top 16. In due occasioni era stata anche l’unica formazione italiana a rappresentare la nostra pallacanestro a quello stadio della competizione (stagione 2009-10 e 2012-13).

Keith Langford ha chiuso la regular season al 9° posto per valutazione media (18.2). Il suo futuro compagno di squadra Daniel Hackett 3° con 19.4. Langford è anche 4° per punti segnati (16.2).

– Sempre Keith Langford è il miglior assistman della squadra con 3.1: l’EA7 Emporio Armani è però al 21° posto su 24 (13.5) e al 15° su 16 tra le qualificate al secondo turno (peggio solo il Partizan, 24° assoluto, con 11.8).

– A livello di ratio assist/palle perse, Milano è ancora al 20° posto (106.3%, concede agli avversari il 125%), mentre è al 14° tra le squadre di Top 16 (peggio Kaunas, 23° con 87.3%, e Partizan, 24° con 72.4%). La media generale è 123.4%.

– L’attacco vende i biglietti e la difesa vince le partite. Il Real Madrid attacca e difende, visto che in percentuale “reale” concede agli avversari il 41.6%. Milano concede il 49.1%: nessuno fa “meglio” tra le qualificate alle Top 16.

– Milano deve migliorare in furbizia e scelte di tiro: è al 4° posto per stoppate subite in media (con 3.5), il dato peggiore tra le qualificate alle Top 16.

– In attacco, una chiave per l’EA7 può essere quella di diminuire il numero di tiri da fuori e migliorare il dato ai tiri liberi, che è già buono: 8° posto per tentativi in media, con 17.8. Migliorabilissima la percentuale (10° posto con 74.7%). Il 30.3% da fuori è destinato probabilmente a migliorare con Kristjan Kangur in campo con continuità, ma dipende tutto dal ritmo con cui si muove la palla. Big issue.

– Curtis Jerrells (31), Alessandro Gentile (35), David Moss (37) e Keith Langford (54) hanno preso il 68.8% dei tiri da tre della squadra, con una percentuale realizzativa del 31.8%. Cambiare.

– Palle perse: su 127 totali, 48 portano la firma di Alessandro Gentile e Keith Langford (37.7%).

– Miglioramenti attesi da Gentile: selezione di tiro, più tiri liberi (ha subito 3.6 falli a partita) e maggiore percentuale (troppo poco 68.8% per lui).

– Milano è al 20° posto su 24 per percentuale “reale” con 45.1%. Anche qui è al 15° su 16 tra le qualificate alle Top 16 (Galatasaray 23° con 43%).

Nicolò Melli è il miglior rimbalzista della squadra con 6.2 (16° assoluto e 26° su 40 minuti).

– Motivi per venire al Forum a vedere le Top 16: Zelimir Obradovic e il suo Fenerbahçe Ulker Istanbul (con Bo McCalebb, Emir Preldzic, Bojan Bogdanovic), i bi-campioni in carica dell’Olympiacos Pireo di Vassilis Spanoulis, il Panathinaikos Atene di Dimitris Diamantidis, il Barcellona di Juan Carlos Navarro e di uno che mi fa impazzire (Kostas Papanikolaou), il Laboral Kutxa Vitoria perché che ve lo dico a fa’, l’Anadolu Efes Istanbul perché ormai sono amici, l’Unicaja Malaja dell’interessante coach Joan Plaza che porta in dote il figlio di Sabonis.

– Milano ha affrontato nel proprio girone di regular season il Real Madrid, una delle due formazioni a vincere tutte e 10 le partite. L’altra, l’Olympiacos, arriva tra poche settimane. Trattasi delle ultime due finaliste, non un caso.

– Avremo il piacere di rivedere al Mediolanum Forum di Assago gli ex milanesi Sergio Scariolo (allenatore Laboral Kutxa Vitoria) e i giocatori Antonis Fotsis e Jonas Maciulis (entrambi al Panathinaikos Atene). Con Scariolo ci sarà anche Walter Hodge, playmaker americano trattato da Milano nella passata stagione, ma non ceduto dai polacchi dello Zielona Gora.

Pietro

Quando Zalgiris-@EA7OlimpiaMi si giocò in campo neutro (in Eurocup)

Anno di grazia 1998. Belgrado. La Stefanel Milano con Franco Casalini in panchina affronta lo Zalgiris Kaunas nella finale di Eurocup.

Vinceranno i lituani, con uno straordinario Saulius Stombergas (35 punti), oggi head coach dello Zalgiris (qui il tabellino).

C’erano in campo Nando Gentile, papà di Alessandro, e pure Flavio Portaluppi, oggi general manager.

Milano era arrivata a quella partita dopo una stagione travagliata, conclusa con l’esonero di Franco Marcelletti e il ritorno di Casalini, che accettò l’incarico e guidò la squadra alla rimonta contro il Panathinaikos di Dino Radja (-19 all’andata, +25 al ritorno). Una cosa di “Arissiana” memoria, per i tifosi milanesi.

Il finale contro lo Zalgiris fu meno glorioso. Ma rimane, quella, l’ultima finale europea giocata dall’Olimpia.

Pietro

@marcocrespi, dimmi se ci ho preso

Quei pochi minuti dopo aver raggiunto il massimo vantaggio (28-35 a 3’16 dalla fine del terzo quarto) sono costati la partita a Siena in casa del Galatasaray.

Proprio lì, con la partita psicologicamente e tatticamente in mano, alcune inopportune deviazioni dal piano partita hanno concesso a Guler di esplodere quei 10 punti che hanno tolto il mabubrio dalle mani dei giocatori della Montepaschi.

Della quale, però, ho apprezzato la disciplina nei restanti 37′.

Siena ha compiuto delle scelte precise, per me, magari impopolari. Non attaccare il ferro, rinunciando di fatto ai tiri liberi (saranno 4 alla fine) accontentandosi dei tiri in sospensione. Non andare a rimbalzo d’attacco, o almeno non con tanti uomini. Cose che però hanno portato a diversi vantaggi, essendo situazioni scelte e non imposte dalle circostanze. Non attaccando il ferro si sono evitate palle perse dovute a contatti o eccessivo traffico (alla fine soltanto 6), e il tiratore (dalla media o da tre) era piazzato già per il rientro difensivo, non essendosi quasi mai verificata la situazione di inferiorità numerica in transizione dovuta (magari) a un giocatore che resta a terra dopo un contatto o troppo avanti rispetto alla palla, una volta recuperata dagli avversari.

E non mandare uomini a rimbalzo d’attacco ha avuto praticamente lo stesso effetto, perché dopo il tiro si era subito pronti a occupare gli spazi per evitare la transizione avversaria e riempire l’area. Anche perché, contro una squadra che cambiava sempre, magari il “piccolo” tirava contro un “lungo” lontano da canestro, e a rimbalzo poteva già esserci una situazione di mis-match favorevole.

La protezione dell’area è stata fatta egregiamente, con la gentile collaborazione dei tiratori del Galatasaray (2/19 da fuori), che di certo hanno rinforzato la scelta tecnica di Siena. Che, a dispetto dei numeri (12 rimbalzi offensivi concessi, non pochi contro 26 difensivi catturati) a mio avviso ha lavorato bene anche a rimbalzo. Poi, se hai una belva come Pops Mensah-Bonsu (che ha preso tanti rimbalzi offensivi – 8 – quanto tutta Siena) e tu sei leggero fisicamente per questo livello, la scienza tattica può poco di fronte all’evidenza.

Si voleva, insomma, una partita a basso ritmo, che poi si è tradotta in bassissimo punteggio, ma soprattutto di altissima disciplina, laddove sbagliare un tiro non era un problema mai, sbagliare una scelta, anche una sola, poteva compromettere molte certezze.

Per cui, anche se uscita dal campo sconfitta, con un record di 1-5 (ma ancora possibile la qualificazione alle Top 16, giocando in casa con Bayern, Zielona Gora e Malaga), io dico che sinceramente la Montepaschi di Istanbul mi è piaciuta. Mi è sembrata una squadra con un piano, molto chiaro, con una coesione e un’identità ben diverse rispetto anche solo alla partita di andata. Quindi ben allenata e dove, evidentemente, quelli che giocano sono “sulla stessa pagina”.

Poi magari Crespi mi risponde che mi sono inventato tutto, ma a volte val la pena tentare.

Pietro

UPDATE – Gli appunti di Marco Crespi

Talking About Practice

Nella passata stagione ho chiesto, invano, di poter vedere qualche allenamento dell’Olimpia Milano. Non perché mi interessasse fare la spia, né perché non avessi altro da fare o (magari) anche voglia di fare altro.

La risposta è sempre stata no, per team policy e soprattutto scelta (legittima, ma che non ho condiviso) dell’allenatore Sergio Scariolo. A Milano qualche mese fa è arrivato Luca Banchi, che ha certamente un approccio meno sofisticato a livello di gestione del rapporto umano, e ha riaperto le porte durante le sacre sedute di lavoro della sua squadra.

Vado anche io all’allenamento ogni volta che posso, e questo perché è semplicemente bello per uno che fa il “giornalista di basket”, e che di base è un appassionato di basket. Perché mi ha riavvicinato al gioco, lo stesso che ho amato fin da piccolo andando (anche) agli allenamenti della squadra di Porto Empedocle (B2, allora), poi a Parigi, dove ho avuto la possibilità di vedere quotidianamente in palestra giocatori di livello assoluto (JR Reid, Richard Dacoury, Stéphane Risacher, Laurent Sciarra, Zarko Paspalj, Jure Zdovc, Eric Struelens e altri ancora) ed eccellenti allenatori, il migliore tra i quali rispondeva al nome di Bozidar Maljkovic.

Si imparano cose, per esempio a “leggere” le situazioni che poi si riproporranno durante la partita. Se anche non riesci ad acchiappare proprio tutto, almeno ti fai un’idea di quelli che sono gli orientamenti, l’idea di base, o (per chiamarla col nome più “giornalistico”) della filosofia di gioco.

Poi però c’è soprattutto il rumore della palla, osservare facce, reazioni, gesti, sorrisi, scazzi, momenti di stress particolare e di relax, la gestione di questi momenti con i carichi di lavoro in allenamento, la complicità che si instaura tra determinati elementi, quei piccoli cenni che diventano rituali con allenatori, ragazzi dello staff e giocatori che poi si traducono in familiarità, che non significa confidenza.

È un modo, insomma, di recuperare un certo rapporto umano che mi è mancato, e che probabilmente manca all’interno della nostra pallacanestro. Una piacevole riscoperta, che di sicuro restituisce un po’ di senso al lavoro che si fa nel seguire una squadra per una stagione intera. Ci si sente meno estranei, meno soloni, anche meno scemi a provare a immaginarsi delle cose per poter fare delle analisi evidentemente superficiali.

Tutto questo non rappresenta una novità per quei colleghi o semplici curiosi che sono abituati a frequentare gli allenamenti delle “loro” rispettive squadre. Lo è a Milano, e per questo ringrazio Luca Banchi che mi ha permesso di riscoprire quel lato meno distaccato e cinico che in molti altri momenti delle mie giornate è l’assoluto protagonista. Quelle due ore in palestra e mezza, per me, sono anche un modo di concentrarmi su ciò che amo davvero e lasciare fuori tutte quelle cose che nel corso del tempo si sono intromesse tra me e la passione genuina che mi ha condotto fino a qui.

E dunque, grazie.

Pietro

Compiti per l’Olimpia: rispettare Bamberg. E vincere.

Potrebbe non bastare dire che il Brose Baskets Bamberg ha vinto gli ultimi quattro campionati tedeschi. Dalle nostre parti è ancora molto lo snobismo nei confronti del basket in Germania, ma basterebbe dare un’occhiata ai bellissimi palazzetti, al seguito di un pubblico sempre più appassionato (ed educato), il sito web della Lega e delle società, il contorno di attività e intrattenimento pre, durante e post partita.

La Germania, per qualità e serietà di organizzazione, ha nettamente superato l’Italia. Per questo che un club come quello di Bamberg, cittadina di 70.000 abitanti dell’Alta Franconia, merita il massimo rispetto. Perché all’interno di un sistema virtuoso e funzionante ha saputo crescere per creare un ciclo vincente, non solo entro i confini domestici. Nella passata stagione si è qualificata per la prima volta alle Top 16 (così come l’altra formazione tedesca, l’Alba Berlino: 2-1 per “loro”, dunque, nel 2012-13), e seppur perdendo tutte le 14 gare della seconda fase ha sempre dimostrato di poter essere competitiva (7 di queste sconfitte sono arrivate con uno scarto compreso tra 1 e 3 punti).

Dalla passata stagione sono rimasti in otto giocatori, oltre all’allenatore Chris Fleming, in carica dal 2008 e costantemente cresciuto insieme alla sua squadra. Tra di loro ci sono esterni di qualità come lo slovacco Anton Gavel (4/4 da tre e 4 assist nella vittoria contro l’Anadolu Efes Istanbul) e il 32enne americano Casey Jacobsen: un passato da specialista NBA (tra Phoenix e New Orleans dal 2002 al 2005) e tornato al Bamberg nel 2009 dopo una prima esperienza nella stagione 2006-07. Nelle prime tre uscite in Eurolega ha tirato uno strepitoso 12/18 da fuori, se si scalda è una macchina.

Coach Luca Banchi ha studiato un piano per loro: creare le situazioni per attaccarli col pick and roll, quando non direttamente portando esterni fisici come Moss, Gentile e Langford spalle a canestro contro di loro e soprattutto contro l’altro esterno veterano della squadra, John Goldsberry (191 cm, quinta stagione a Bamberg, 5.7 assist in 18’ a partita in questa Eurolega). Il pick and roll non è esattamente un piano originale, visto che viene praticato a vario titolo ormai in quasi tutti gli schemi del mondo, ma l’importante è che i giocatori dell’Olimpia dimostrino voglia di battere il proprio uomo, creare vantaggi, squilibrare la difesa altrui. In una parola: personalità. Quella che al netto di infortuni e difficoltà oggettive è mancata nelle prime due trasferte europee (-39 tra Istanbul e Madrid), e che certamente bisognerà dimostrare davanti ai 6.800 della Stechert Arena, anche perché perdere, ritrovandosi 1-3 in classifica, costerebbe caro.

“Una volta avevamo un palazzetto molto piccolo e grezzo, con una sola tribuna”, raccontava Sven Schultze, che a Bamberg è nato 35 anni fa e ci ha debuttato come giocatore professionista, dal 1995 al 1998. Il futuro gli avrebbe riservato l’Olimpia targata Armani Jeans, con una finale scudetto e tanti tifosi conquistati col cuore e col mestiere (dal 2005 al 2007). Oggi, invece, Bamberg è “Freak City”, dove tutti, ma proprio tutti, sono pazzi per il basket.

Pietro

[STASERA A MILANO] Sarunas Jasikevicius per Dream Team (aprile 2008)

[Intervista rilasciata a Siena, prima di una partita tra Montepaschi e Panathinaikos, per il numero 40 della rivista Dream Team. Sarunas Jasikevicius era l’uomo copertina]

In maglia Panathinaikos è alla ricerca della sua quarta Eurolega con tre squadre diverse. In mezzo, anche l’esperienza NBA. Di solito non parla con nessuno, ma per DT ha fatto un’eccezione: parola a Sarunas Jasikevicius di Pietro Scibetta È il giocatore più importante d’Europa. È l’uomo che ha vinto l’Eurolega per tre volte di fila con due maglie diverse. È colui che – neanche fosse una rock star – ha mobilitato una folla di migliaia di ateniesi per il suo arrivo all’aeroporto, la scorsa estate. È il nuovo simbolo della pallacanestro europea, il giocatore che ogni allenatore vorrebbe allenare e che ogni tifoso vorrebbe applaudire. In due parole: Sarunas Jasikevicius.

JASI, L’EUROPEO

I lituani nella Top 50 della storia di European Club Basketball sono due: tu e Arvydas Sabonis.

“È un onore incredibile, davvero. Io sono una persona molto sentimentale, e quando leggo gli altri nomi della lista penso che praticamente tutti sono stati dei miei idoli di gioventù. Mi ricordo che passavo giornate intere in palestra a Kaunas per ammirare i campioni che si allenavano o giocavano. Essere stato scelto tra giocatori come questi è pazzesco. Quando sei ragazzino magari pensi alla NBA, ma non immagini mai di poter ricevere un riconoscimento come questo”.

Anche perché la tua carriera europea è iniziata lontano dai riflettori.

“Onestamente penso che l’inizio della mia carriera europea sia stato positivo. Ho iniziato a venire fuori prima al Lietuvos Rytas e poi con l’Olimpija Lubiana; è stato un percorso necessario per prepararmi alle grandi squadre. Se fossi rimasto a Kaunas, anziché andare negli States a 17 anni, forse sarei arrivato prima al Barcellona, ad esempio”.

Come mai non sei rimasto in patria?

“Allora la Lituania attraversava un momento storico difficile, poco dopo l’indipendenza, e così il richiamo degli USA era molto forte. Furono anche i miei genitori a spingermi perché andassi a studiare lì [all’inizio alla Solanco High School a Quarryville Pennsylvania, ndr], ed è stato davvero particolare vivere in posti dove c’erano praticamente solo studenti. Al college, a Maryland, eravamo 25.000, è davvero qualcosa di speciale. In Europa non sono così tanti quelli che continuano a studiare e giocare contemporaneamente, negli States invece bisogna dedicarsi al 100% a entrambe le cose”.

Da quello che abbiamo visto con foto e video, la tua accoglienza ad Atene è stata paragonabile a quella di un capo di stato.

“È stato incredibile, non mi era mai capitato di assistere a qualcosa del genere. Ma che volete farci, i greci sono così. Sapevo che ci sarebbe stata un po’ di gente all’aeroporto, ma sinceramente non potevo pensare che sarebbero stati così tanti. Avevano circondato la mia macchina, alcuni ci sono addirittura saltati sopra! È stato strano, completamente sorprendente”.

Ora, dopo Pesic e Gershon, lavori con Obradovic.

“Zeljko è l’allenatore più onesto di tutti. È una persona molto schietta, forse è anche la più semplice. Non pensa a inventare cose strane, abbiamo degli schemi semplici che si basano su ripetuti pick and roll. È stato un buon giocatore, capisce le nostre esigenze dentro e fuori dal campo, non è uno che ti tiene sette ore in palestra – anche se comunque si lavora duro. È un grande piacere giocare per lui, un uomo e un allenatore che rispettavo molto ancora prima di firmare per il Panathinaikos. Penso sia prima di tutto una grande persona, e per questo voglio davvero regalargli delle vittorie importanti”.

Il Panathinaikos ti ha preso per questo.

“E io adesso voglio solo vincere. Niente sostituisce il pensiero della vittoria, la festa con i compagni, la gioia dei tifosi. Sono stato fortunato a poter giocare così tante volte per vincere in passato e anche oggi so di avere delle possibilità importanti con questa squadra, che voglio sfruttare”.

Sei arrivato ad Atene come una sorta di icona – o meglio, forse un talismano: se hai Jasikevicius, allora vinci…

“La gente non riesce a capire quanto sia difficile, perché in tanti pensano che, avendo grossi giocatori, le grandi squadre siano destinate a trionfare. È vero che io ho vinto tre volte di fila l’Eurolega, ma solo l’ultima volta [2004-05, ndr] è stata tutto sommata semplice: perdemmo l’ultima partita a febbraio [10 febbraio 2005, Barcellona-Maccabi 81-79, ndr], superammo Pesaro 2-0 per andare alle Final Four e così rendemmo le cose molto facili”.

Non è sempre stato così, però.

“A Barcellona ricordo due partite contro l’Olympiacos in cui rischiammo grosso, in una eravamo sotto di 12 a 5 minuti dalla fine e siamo riusciti a vincere. E non parlo neanche del tiro di Derrick Sharp contro lo Zalgiris nelle Top 16 2004: è stata l’unica volta della mia vita che ho pensato a un miracolo, sono rimasto letteralmente sconvolto da quel tiro. Per una settimana ho ripensato solo a quello, a come siamo riusciti a vincere quella partita e quindi a qualificarci per la Final Four di Tel Aviv. La gente davvero non si rende conto di quanti sforzi servano per vincere, sono davvero fortunato ad aver giocato in queste squadre. Sicuramente ci ho messo del mio, ma non avrei vinto niente senza i campioni intorno a me”.

Eppure si parlava male anche del tuo Maccabi: tanti dicevano che non difendevate.

“È vero, un sacco di gente ha detto questo di noi. Io dico: andate a vedere le cifre, le percentuali che abbiamo concesso agli avversari e certi parziali che abbiamo messo a segno. Penso che il mio Maccabi sia la squadra che ha giocato il basket migliore che io abbia mai visto, non so se qualcuno riuscirà ad arrivare a quel livello. In tutti gli sport di squadra si dice che per vincere bisogna essere cattivi e sporchi, difendere prima di tutto. Guardate nel calcio quante partite decisive finiscono per 1-0. Noi eravamo l’esatto opposto: avevamo dei passatori straordinari, eravamo davvero completi, avevamo realizzatori, atleti, grandissimi tifosi capaci di spingerci oltre i nostri limiti. Ancora oggi, quando mi riguardo gli highlight o delle intere partite, mi vengono i brividi”.

Perfino le vittorie di Barcellona e Tel Aviv a qualcuno non bastavano…

“Per questo il successo di Mosca l’ho assaporato in maniera particolare. Perché le critiche non mi sono mancate nemmeno dopo due titoli consecutivi: si diceva che avevo vinto solo le Final Four in casa. La verità è che ognuno può trovare difetti in tutto, se volessi potrei trovarli anche in Michael Jordan. Per questo la vittoria ‘fuori casa’ è stata particolarmente importante”.

Barcellona, al di là delle vittorie, rimane la tua città preferita. È stato un addio difficile?

“Barcellona è nel mio cuore. Semplicemente, Pesic ha voluto un giocatore più difensivo per il suo sistema, così hanno firmato Ilievski. Di sicuro non c’erano problemi di accordo tra me e il presidente Laporta per il mio ingaggio, magari a posteriori è stato il favore più grande che il coach mi abbia mai fatto”.

Hai mai provato a pensare a quello che farai dopo la tua carriera?

“Sì, e sinceramente spero di restare nel basket, perché questa è la mia vita. Sono stato in questo mondo ogni giorno, da quando avevo sei anni”.

E cosa ti piacerebbe fare? L’agente? L’allenatore?

“L’agente? No, no…guarda che roba [ride, indicando il suo procuratore Maurizio Balducci, ndr], c’è da diventare matti con questo lavoro. Non so neppure se avrei la pazienza per fare l’allenatore. Magari il general manager, oppure lavorare per sviluppare le relazioni tra Eurolega e NBA, o comunque tra l’Eurolega e il resto del basket mondiale. Ecco, quello mi piacerebbe”.

JASI, L’AMERICANO

Come hai vissuto il tuo approdo nella Lega?

“La NBA per me era una sfida, una bella opportunità che non mi si era mai presentata. Avevo molte offerte, il problema era centrare o sbagliare la scelta. Andai ai Pacers dopo che con Rick Carlisle parlammo molto spesso al telefono e mi trovai benissimo con le sue idee. Una volta negli States, però, mi resi conto che era successo la stessa cosa che accade quando ti vogliono reclutare al college: al telefono ti dicono tutto quello che vuoi sentirti dire, poi arrivi sul posto e la situazione è il contrario di ciò che ti aspetti”.

In che senso?

“Ho un grande rispetto sia per Donnie Walsh (GM), per Larry Bird (Presidente) e per l’organizzazione dei Pacers, che credo abbia pochi eguali nella NBA. Ma non capisco perché hanno firmato dei giocatori in contrapposizione con lo stile del loro allenatore. Loro due volevano un basket veloce e aggressivo, divertente per i tifosi, mentre Rick voleva un ritmo controllato, alla serba. In più, in uno spogliatoio con gente come Ron Artest, Jamaal Tinsley, Stephen Jackson e Jermaine O’Neal, forse ci voleva un allenatore con maggiore personalità”.

Un errore, quindi.

“Ho sbagliato ad andare lì, senza dubbio. Se avessi scelto un’altra squadra le cose sarebbero andate diversamente. Penso comunque di aver dimostrato di poter giocare, anche se spesso mi usavano come guardia. Per un mese e mezzo Carlisle mi disse di voler giocare tanti pick and roll, di voler correre, ma non si fece mai niente di tutto questo”.


Da lì ai Golden State Warriors, altra situazione infelice.

“Ti dico un aneddoto per spiegare come funziona la NBA. Appena scambiato a Golden State sono andato a parlare con Don Nelson. Lui, seduto di fronte a me, mi fissò serio e mi chiese: ‘Allora, che sai fare?’. So bene che il fatto di essere arrivato lì era anche una questione di salary cap più che tecnica, ma lui con me fu sincero. Mi disse: ‘Il mio miglior giocatore è Baron Davis e fa il playmaker, il mio miglior prospetto è una guardia che sto cercando di far giocare da play, Monta Ellis. Giocherai quando uno dei due sarà indisponibile’. Ed è stato di parola: quando Baron si fece male giocai un po’, poi passai il tempo a sventolare asciugamani. Questa è stata la mia NBA ed è un po’ frustrante che sia andata così, perché penso che da un’altra parte avrei potuto essere un giocatore importante”.

Di certo non potevi esserne soddisfatto.

“Chiaro, però ho fatto più di 7 punti e 3 assist di media con Indiana in meno di 20 minuti, ho giocato il Rookie Game, insomma, non è che proprio non ho fatto nulla. La gente si aspettava di vedermi come al Maccabi ed è stato un dispiacere giocare poco, ma penso di aver dimostrato di essere a quel livello”.

Forse era semplicemente una realtà troppo diversa.

“La NBA è un mondo strano. Secondo me solo cinque o sei club giocano per vincere, tanto è vero che sono sempre gli stessi a disputarsi l’anello. Le altre franchigie sono nelle mani di ricconi che vogliono far divertire i propri figli con la loro squadretta, o qualcosa del genere”.

JASI, IL LITUANO

Parlaci del tuo rapporto con la Nazionale.

“È bellissimo giocare per la Lituania: lasciarla era il lato negativo di andare al college, ma allora non capivo l’importanza di giocare in Nazionale. Adesso per me non c’è nulla di più importante, nessuna squadra di club può essere paragonata alla tua Nazionale. Si tratta di continuare quello che Sabonis e Marciulonis hanno iniziato, la gente da noi è molto orgogliosa della squadra, pazza per il basket – e poi giochiamo una bella pallacanestro”.

Sembra anche che le critiche non vi tocchino.

“Quando perdiamo o giochiamo male tutti a scrivere che nello spogliatoio qualcosa non va o che c’è egoismo da parte di qualcuno. In undici anni non ho mai vissuto una brutta atmosfera con la Nazionale, perché è fatta di gente che ha passato una vita a giocare contro o insieme, dalle giovanili in su, tra Vilnius, Kaunas o Klaipeda – insomma, gente cresciuta insieme. Quando ci ritroviamo siamo peggio dei bambini…”.

Per dire di quanto siete rispettati da noi, la vittoria dell’Italia sulla Lituania nella semifinale olimpica del 2004 è stata celebrata forse più degli Europei del ’99.

“Quella volta contro l’Italia abbiamo giocato malissimo, non abbiamo fatto ciò che serviva. Abbiamo pagato caro il nostro cattivo atteggiamento in difesa, sprecando una grossa opportunità di vincere le Olimpiadi”.

Non ci siete andati lontanissimi neanche in Australia nel 2000. Semifinale persa d’un soffio contro gli USA…

“Ogni volta mi si ricorda quel tiro da metà campo a Sydney contro gli americani. Non penso ci fosse una sola possibilità che potesse entrare, o meglio, la probabilità era la stessa di scalare l’Everest. Eppure tutti a dirmi che ho avuto tra le mani la palla della vittoria!”.

Forse perché, quando l’arancia è nella mani di Jasi, di solito quello che segue è un canestro…

#OlimpiaMente anche qui e su Soundcloud

Puntata 2

Si parla della prima settimana di partite ufficiali e anche di EA7 Emporio Armani-Cimberio, nell’immediata vigilia del derby.

Un libro e un album: dopo Angelo Gigli, è il turno di Bruno Cerella.

Inoltre salutiamo vecchi e nuovi amici dell’Olimpia Milano con le nostre rubriche.

Ospiti: Toni Cappellari, Gianmaria Vacirca.

Milano città dello sport. O anche no

Il Milan si presenta con una delle peggiori squadre degli ultimi vent’anni, ma spacciando di aver “scelto” la politica dei giovani.

L’Inter di Stramaccioni rimarrà nella storia per essere stata la prima squadra italiana a vincere nel nuovo stadio della Juventus. E di questo si accontenta, perché il resto non si guarda (o non si vede, come Sneijder).

L’EA7 Emporio Armani Milano vanta una serie di cinque vittorie esterne in campionato (contro le ultime, Siena a parte) ma anche di cinque sconfitte di fila in casa (contro le migliori, Siena a parte, ma non solo).

Probabilmente si tratta di una delle peggiori stagioni di sempre nel rapporto tra prestazioni (più che risultati) e attenzioni mediatiche ricevute (anche la mia).

Roba che ci si ritrova a provare nostalgia per il gol di Contra nel derby, le stecche da fuori di Wim Jonk o il collo taurino di Josh Sankes: quando ci si divertiva con poco.

Sport “minori”, a voi: è la vostra grande occasione.

Pietro

La meteora J.D.

L’inglese Mark Deeks, che gestisce il sito ShamSports.com, ha buttato giù una lista di giocatori che potrebbero prossimamente essere l’oggetto di un “call-up”: quelli, cioè, che stanno facendo molto bene nella D-League e potrebbero essere chiamati da qualche franchigia NBA.

Tra i nomi proposti ce n’è uno che riguarda da vicino l’EA7 Emporio Armani Milano: trattasi di Justin Dentmon, apparso sul finire della scorsa stagione quando si infortunò J.R. Bremer.

Lo si vide in campo soltanto nella serie di playoff contro Venezia: segnò 11 punti in 20 minuti (con 3 assist, 2 rimbalzi e 3 perse) in gara-1, per poi mettere insieme altri 2 punti, 1 assist e 2 rimbalzi in 17 minuti complessivi nelle successive due partite.

Arrivò in condizioni fisiche non ottimali, ma in tanti si domandarono cosa sapesse fare questo ragazzo.

Ecco la spiegazione, o almeno quella di Deeks, che ha inserito Dentmon tra le point guard più interessanti.

Justin Dentmon – 19.7 ppg, 4.0 apg, 5.0 rpg: Uno che non si vergogna a fare canestro, Dentmon è il miglior marcatore della squadra con il secondo miglior attacco della D-League [gli Austin Toros, ndr]. Anche lui ha avuto qualche possibilità nella NBA in diverse occasioni [Toronto per 4 partite e San Antonio per 2, ndr], grazie alla qualità del suo tiro (43.2% da fuori in carriera nella D-League) e alla sua capacità di crearselo. Tuttavia, per poter avere una possibilità di essere qualcosa di più di un giocatore marginale nella Lega, deve avere la stessa fortuna di un Eddie House [l’annosa questione del trovarsi al posto giusto nel momento giusto, ndr].

Pietro