Gli allenatori che scrivono

Scrivo queste righe senza conoscere il risultato della partita tra Agrigento e Torino. Non perché non abbia importanza quel che avviene la domenica, e in questa partita in particolare, ma semplicemente perché ritengo che come in tutte le cose non possa e non debba essere un singolo momento a determinare il pensiero complessivo su una squadra o, come più piacevolmente mi piace considerarla, su un gruppo di persone.

Franco Ciani, con la sua nuova rubrica del sabato, me ne ha dato la voglia. Non sono tanti gli allenatori in grado di condividere, chi per natura umana e chi invece per impostazione professionale. Allenare, come scrivere, è del resto un’attività che impone a chi la fa di metterci tanto del proprio, un vero e proprio investimento emotivo. Ragion per cui, non tutti possono farlo allo stesso modo.

In questi giorni Marco Crespi ha presentato il suo “#somethingdifferent”, il libro che racchiude le emozioni e le storie vissute dal coach durante la sua ultima stagione senese. Ho sempre molta ammirazione per gli allenatori che scrivono, che accettano di violare quella “privacy” difesa talvolta con una forza e un’ostinazione talmente forte da apparire – ai più – persino esagerate.

No, non è una critica a chi non lo fa. È un omaggio a chi ne ha il coraggio. Un allenatore, nella percezione generale, è la somma dei suoi risultati. Buoni e cattivi. Giudicato superficialmente per quello che c’è scritto sul tabellone alla fine delle partite, o per quello che dice la classifica. Allenatori bravissimi hanno perso tanto, allenatori meno bravi hanno vinto il doppio. La vita di questo mestiere è piena di queste storie e anche di leggende, in questo senso. Ma chi è un allenatore bravo? Il giocatore bravo? È solo quello che vince? Che vince cosa? Che vince quanto?

Se il metro di giudizio è la vittoria, il risultato, allora non basta mai. Perché puoi vincere l’Eurolega per dieci anni di fila, ci sarà comunque l’undicesimo da affrontare e non sai mai se sarà la stagione peggiore della tua vita. Allora ci sarà sempre qualcuno che dirà che non hai vinto tu, ma perché avevi una grande società alle spalle, o dei bravi assistenti, o allenavi/giocavi con dei fenomeni e allora sono buoni tutti. Lo stesso dovrebbe valere al contrario, superficialità per superficialità, ma non è sempre così. Anzi. Dopo tutto, meglio così.

La verità è che ridurre l’allenatore o il giocatore al numero di trofei in bacheca è del tutto svilente. Vincere non basta, e non è affatto l’unica cosa che conta. Altrimenti il basket non sarebbe un gioco così meravigliosamente razionale e irrazionale al tempo stesso, non sarebbe insieme scienza e passionalità, calcolo ed emozione. Non avrebbe quella capacità di rapire i cuori che invece gli appartiene, e che tiene in piedi tante persone in tutto il mondo che hanno un’unica visione e un’unica passione.

Il basket (e lo sport di squadra, in generale) vive di una sua particolare magia, è come l’arte, è come musica. È impossibile, però, separare le figure dell’allenatore e dei giocatori. Non siamo alle prese con un pittore e la sua tela, con un musicista e il suo spartito. Fanno tutti parte della stessa cosa, sono la stessa cosa. Quale che sia il risultato finale, sarà comunque il frutto di una importante esperienza umana. Collettiva. È un concetto solo apparentemente banale.

Ho letto l’ultimo articolo di Franco, e ho ripensato alla nostra conversazione di qualche giorno fa a Biella, dove al netto di una partita da giocare e da guardare erano ben altri i pensieri che avevamo in testa. Si parlava proprio della sua rubrica, di come scrive e del perché. E del fatto che scrivere adesso, in questo particolare momento di difficoltà della sua squadra, è oltremodo complicato.

“Uno potrebbe dire: che fa questo? Perde e ce la spiega?”. Non c’è nulla da “spiegare”, anche perché non tutti hanno poi la sincera curiosità di comprendere ciò che davvero può portare alla vittoria, alla sconfitta, alla riuscita o al fallimento di un’impresa sportiva. Forse non sarebbe nemmeno giusto pretenderlo, sono cose che fanno parte del gioco. Un gioco meraviglioso, non bisogna dimenticarlo mai.

Pietro

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