Tornare a scuola

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(Photo by Feliphe Schiarolli on Unsplash)

Lavorare come dirigente nel mondo della comunicazione sportiva mi ha offerto la possibilità, del tutto inattesa e affrontata con curiosità, di tornare a scuola ma dalla parte della cattedra, nel quadro di programmi di alternanza Scuola-Lavoro.

L’argomento delle lezioni doveva essere nientemeno che il mio lavoro: come si comunica e perché, quali strumenti utilizzare, come scegliere tempi, modi e soprattutto argomenti, quali percorsi intraprendere per questo tipo di carriere, eccetera.

Il primo scoglio da affrontare, pur trattandosi di piccoli centri dove realtà sportive di alto livello erano già ben radicate e strutturate, è stato avvistato ancora prima di intraprendere la navigazione: cosa sapevano i ragazzi del mio lavoro, del perimetro all’interno del quale dovevo muovermi per compiere il dovere che mi era stato affidato?

Poco. Vicino allo zero.

La domanda da porsi è stata: perché?

La risposta ha molte facce: sicuramente una prima responsabilità, ma non l’unica e come vedremo nemmeno la principale, è del club/istituzione sportiva. Se non è arrivato con la giusta intensità al suo target preferenziale (i giovani tra i 14 e i 18 anni), sicuramente aveva sbagliato qualcosa.

C’era, però, molto di più: mai come oggi le persone hanno accesso in tenera età al mondo delle informazioni, basta guardarsi intorno e constatare quanti bambini hanno in mano uno smartphone o un tablet.

Ciò non corrisponde, però, a un utilizzo “proprio” di questi mezzi, perché se è vero che pochi clic bastano a raggiungere qualsiasi informazione è vero anche che non tutti i “contenuti” sono “informazioni”. Questo è ben visibile attraverso il fenomeno delle “fake news”, autentica depravazione del cosiddetto “Quarto Potere”.

Ho deciso così, in accordo con i docenti che seguivano le lezioni di cui sopra, di cambiare totalmente approccio e iniziare tutto da zero. Alla comunicazione saremmo arrivati dopo, forse.

Bisognava prima intraprendere un dialogo con gli studenti, che non vanno mai demonizzati ma sempre e solo sostenuti, anche con durezza, anche al limite della provocazione, perché stimolare lo spirito umano richiede a volte di scavare profondamente per scatenare reazioni.

Reazioni: di che genere? Non ho cercato l’unanimità e nemmeno il consenso. In certi casi sono andato allo scontro. Perché? Era necessario. A volte quello è il linguaggio giusto per ottenere da una persona la propria attenzione, il rispetto (non tanto della persona ma almeno del ruolo e del compito) e di conseguenza un risultato, che a volte arriva sotto forma di rivalsa. Va benissimo, purché si faccia costruttivamente un passo avanti.

Scontro: di che genere? Non fisico, e ci mancherebbe altro. Scontro intellettuale. Costringere a una riflessione, a un pensiero su qualcosa che fino a quel momento non si conosceva o, molto peggio, si riteneva inutile, non degno di attenzione.

Obiettivo: quale? Uscire dall’apatia. Non interpretare quelle ore in classe o in azienda (cioè all’interno del club, per far conoscere realmente le dinamiche di quell’ambiente) come semplici faccende da sbrigare per apporre una firma e quindi ottenere una qualche attestazione o compenso. Doveva avere un senso.

Come arrivare, dunque, a parlare in maniera specifica di comunicazione e quindi di comunicazione sportiva? Non so dire se siamo davvero arrivati a farlo, posso però affermare che molti di quegli incontri sono stati proficui soprattutto per me, per imparare cose del mondo dei ragazzi, della scuola, di come diamo per scontate tante cose.

Dicevo, oggi si ha accesso a tutto con enorme facilità: avrei scritto disarmante e non sarebbe stato sbagliato. Perché l’accesso a queste informazioni avviene spesso in maniera del tutto disarmata. Molti adulti (e basta leggere alcuni post su Facebook) difettano di reale comprensione del testo, in primis perché difettano della capacità di scrivere nella forma più appropriata. Critica eccessiva? Qualcuno potrà pensarla così, ma scrivere è una abilità che si apprende e si coltiva (allena), chi non lo fa perde dei pezzi e risulta meno comprensibile, meno efficace e meno appropriato, come in qualunque altro campo.

Per non essere disarmati oggi e quindi non appropriati domani va completamente ripensato (ammesso che ci sia già pensato) il modo di avvicinare le persone allo strumento digitale, alla consultazione delle informazioni, alla ricerca degli approfondimenti.

Ripensare, in sostanza, il modello educativo come è richiesto dai tempi attuali. Ripensarlo com’è stato fatto sempre nel corso della storia di questa curiosa specie alla quale apparteniamo. I gesti, i segni, le parole, la carta, eccetera.

Il mondo si è evoluto e con esso la gestione delle informazioni, nonché la quantità. L’aumento della quantità, però, non corrisponde a quello dell’attendibilità. Servono delle guide, delle istruzioni, dobbiamo essere noi, soprattutto deve esserlo la scuola.

La conseguenza, altrimenti? Entrare in una classe, trovarsi davanti degli individui che non ti ascolteranno nemmeno, per il semplice motivo che non hanno idea di ciò che gli stai raccontando.

Possiamo sederci e pensare che sia sempre colpa loro, perché “non ascoltano”. Oppure alzarci, dalla sedia e anche scuotendoci intellettualmente, e chiederci se invece siamo noi ad aver parlato bene.

Pietro

Quanti sono i libri?

LibriQuanti sono i libri che non abbiamo letto?

Quanti sono quelli che abbiamo comprato, sfiorato, accarezzato e una volta a casa mai aperto?

Quanti sono i libri che abbiamo comprato perché andavano comprati ma non sapevamo realmente il motivo?

Quanti sono i libri che sono realmente piaciuti e che rileggiamo dalla prima all’ultima riga?

Quanti sono i libri che fa piacere avere, indipendentemente dalla destinazione?

Quanti sono i libri che vorremmo aver scritto?

Quanti sono i libri che vorremmo non avessero scritto?

Quanti sono i libri che insegnano qualcosa?

Quanti sono i libri che fanno stare peggio?

Quanti sono i libri che guardiamo e non sfogliamo per il fastidio preventivo del loro contenuto?

Quanti sono i libri che abbiamo in casa?

Quanti sono i libri che abbiamo prestato?

Quanti sono i libri che abbiamo perso?

Quanti sono i libri che vorremmo leggere insieme a qualcuno?

Quanti sono i libri che vorremmo comprare e leggere senza che nessuno lo sappia?

Quanti sono, i libri?

La musica e la macchina

Unicorn

Dovessi indicare una playlist ideale, saprei cosa scegliere.

Dovessi indicare la mia canzone preferita, anche.

La mia voce maschile preferita. Quella femminile. And so on…

C’è una cosa che però disturba e differisce da tutto questo e che non è mai uguale.

Si tratta della musica che ascolto, e che probabilmente ascoltiamo, durante i nostri viaggi solitari in macchina.

Che sia per lavoro, spesso, per piacere o per qualsiasi altra ragione, metti la cintura, giri le chiavi della tua auto, accendi la radio.

Sono in vita da un tempo sufficiente per ricordarmi di quelle con le cassette, che dopo aver parcheggiato tiravi fuori e nascondevi sotto al sedile o nel cruscotto per paura che qualcuno ti aprisse la macchina (se non che rompesse un vetro) pur di rubarla e rivenderla. Allora succedeva, perché c’era un mercato.

Quello era ancora il mondo delle cassette, dei walkman. Poi arrivarono i cd, poi i primi lettori mp3, poi il bluetooth… Insomma, tutto è cambiato, tranne una cosa: se quel mercato esisteva (quello delle autoradio), mi piace credere che una delle ragioni fosse semplice, e cioè che fossero preziose. Era preziosa la loro funzione, cioè ascoltare buona musica nella solitudine della propria auto.

Questo vale ancora oggi, indipendente dalla modalità di fruizione.

Una volta chiusa la portiera, una volta deciso che quel luogo non è più solamente un mezzo di trasporto ma anche una sorta di bolla, parte anche la musica.

Quella preferita? Certo.

Quella buona? Anche.

C’è però anche quella musica che ascoltiamo, addirittura canticchiamo se non urliamo, e che non ascolteremmo, canteremmo, urleremmo mai in presenza d’altri.

Questo perché non incontra il gusto collettivo? Forse, ma non solo.

Forse nemmeno a noi piacciono davvero, quelle canzoni, però contano qualcosa, ci hanno coinvolti, interessati, stimolati in qualche modo in determinati momenti.

Sono canzoni che ascoltiamo e ascolteremo sempre da soli, che per qualche motivo ci fanno stare bene.

Sono come i pensieri che abbiamo tutti (tutti, nessuno escluso), quelli che non confidiamo. Li abbiamo, li teniamo per noi, ce li raccontiamo, commettiamo qualche piccolo peccato per autoassolverci o per deprimerci, ci facciamo una domanda e ci diamo una risposta.

Siamo così, siamo questi, abbiamo dei limiti, delle aspirazioni, delle fantasie, che non vogliamo condividere. Che faremo intuire, forse, ma che non confesseremo mai.

Fanno parte di noi, per quel confronto necessario con il proprio essere, proprio come quelle canzoni.

E non si parla di chissà quali segreti, semplicemente sono cose che abbiamo dentro e che derivano dalla nostra esperienza. Sono quelle che ci permettono di prendere o non prendere delle decisioni, di fare o non fare delle scelte, di essere o non essere di buon umore.

Sono come un filtro, come quello del caffè ad esempio: si sporca, trattiene ciò che non è utile far uscire ma è necessario che esista.

E voi come siete messi a “Guilty music”?

Pietro

Road Trip.

Viaggio_Bus

L’ora della sveglia è, più o meno, sempre quella.

Che sia per andare a seguire l’allenamento o per affrontare un viaggio.

Una tipica e battistiana giornata uggiosa mentre una volta sceso dall’auto inizi a sentire i rumori che ti ricordano quello che sta per succedere: altre auto in arrivo, gomme che pestano qualche pozzanghera e foglie ormai imbevute di acqua piovana, tonfi di un borsone che termina il suo breve lancio dalla mano di un indistinguibile ragazzo incappucciato, altri tonfi, quelli di portiere chiuse con quel misto di vigore e delicatezza che può scaturire solo la mattina, quando nella tua testa metti ordine tra le seguenti cose: il rimpianto di aver lasciato un letto che immagini ancora tiepido, la rassegna mentale (giunta alla decima edizione in poco più di sei minuti) per ripassare tutto ciò che puoi aver eventualmente dimenticato, la raccolta della lucidità e della brillantezza necessarie per essere vispo e giulivo* e relazionarti con chiunque possa chiederti istruzioni, chiarimenti, un saluto o più banalmente di prendere un caffè.

Un sabato così, quando la trazione delle ruote di un bus mette in moto non solamente un automezzo ma un processo di situazioni, idee, conversazioni, dormite e varie possibilità per raccogliere aneddoti da raccontare al ritorno.

All’inizio di una trasferta c’è una cosa che appare lontanissima, ed è la partita. Ci sarà tempo e modo, una volta più comodi.

Per quanto lontana, però, è un pensiero presente: è il motivo che ha riunito una serie di persone anche molto diverse tra loro per età, caratteristiche, trascorsi, visioni e aspirazioni. Quella cosa che banalmente si chiama “squadra” è composta da moltissimi elementi, ed è difficile – anche in corso d’opera – sapere quali sono quelli giusti affinché, per dirla alla francese, la maionese riesca bene.

Chimica, con matematica. Un concetto espresso un paio d’anni prima commentando la foto di un altro gruppo, un’altra squadra che solo a tratti fece vedere di cosa fosse capace perché solo a tratti riuscì a capirsi.

Il punto, spesso, è tutto qua: capirsi. Non necessariamente parlarsi ma sicuramente ascoltarsi. Ascoltare anche l’espressione di un volto in un dato momento può far girare una giornata, magari una partita.

In viaggio, dunque, è sempre la cosa più interessante che possa capitarti anche quando non succede niente, perché se non fossi partito non avresti nemmeno saputo che lì, in quel momento, ti saresti annoiato.

Avresti rinviato l’appuntamento con la noia invece di avere l’opportunità di conoscerla e quindi trovare il modo di dialogarci: correggere un comportamento, una abitudine, qualche dettaglioche nel prossimo viaggio la tenga lontana, o quantomeno ne riduca la presenza.

Azzerarla no, perché anche la noia serve. Serve a capire la differenza che c’è quando non ci annoiamo. Serve a farci prendere meglio coscienza di quello che amiamo fare, proprio quando non  lo stiamo facendo.

Un viaggio, tante volte, è tutto qui.

*: citazione dalla telecronaca di Nicolò Carosio di Inter-Real Madrid, finale di Coppa dei Campioni 1964, in riferimento al portiere nerazzurro Sarti in procinto di effettuare un rinvio da fondo campo.

Pietro

Back.

Si torna a scrivere.”

Si torna a scrivere?

Si torna a scrivere!

Parole identiche e un dettaglio diverso tutte le volte. Il punto, inteso come punto di vista.

Si torna a scrivere perché se uno comincia poi continua, no matter what.

Si torna a scrivere, che cosa lo vedremo poi.

Intanto, rieccoci qua, con un vecchio archivio e una immagine alla quale mi ero affezionato, legata a un giocatore molto, molto, molto particolare in tutti i sensi.

Ugly Sister’s back (for good?!)

Pietro