Anno di grazia 1998. Belgrado. La Stefanel Milano con Franco Casalini in panchina affronta lo Zalgiris Kaunas nella finale di Eurocup.
Vinceranno i lituani, con uno straordinario Saulius Stombergas (35 punti), oggi head coach dello Zalgiris (qui il tabellino).
C’erano in campo Nando Gentile, papà di Alessandro, e pure Flavio Portaluppi, oggi general manager.
Milano era arrivata a quella partita dopo una stagione travagliata, conclusa con l’esonero di Franco Marcelletti e il ritorno di Casalini, che accettò l’incarico e guidò la squadra alla rimonta contro il Panathinaikos di Dino Radja (-19 all’andata, +25 al ritorno). Una cosa di “Arissiana” memoria, per i tifosi milanesi.
Il finale contro lo Zalgiris fu meno glorioso. Ma rimane, quella, l’ultima finale europea giocata dall’Olimpia.
Quei pochi minuti dopo aver raggiunto il massimo vantaggio (28-35 a 3’16 dalla fine del terzo quarto) sono costati la partita a Siena in casa del Galatasaray.
Proprio lì, con la partita psicologicamente e tatticamente in mano, alcune inopportune deviazioni dal piano partita hanno concesso a Guler di esplodere quei 10 punti che hanno tolto il mabubrio dalle mani dei giocatori della Montepaschi.
Della quale, però, ho apprezzato la disciplina nei restanti 37′.
Siena ha compiuto delle scelte precise, per me, magari impopolari. Non attaccare il ferro, rinunciando di fatto ai tiri liberi (saranno 4 alla fine) accontentandosi dei tiri in sospensione. Non andare a rimbalzo d’attacco, o almeno non con tanti uomini. Cose che però hanno portato a diversi vantaggi, essendo situazioni scelte e non imposte dalle circostanze. Non attaccando il ferro si sono evitate palle perse dovute a contatti o eccessivo traffico (alla fine soltanto 6), e il tiratore (dalla media o da tre) era piazzato già per il rientro difensivo, non essendosi quasi mai verificata la situazione di inferiorità numerica in transizione dovuta (magari) a un giocatore che resta a terra dopo un contatto o troppo avanti rispetto alla palla, una volta recuperata dagli avversari.
E non mandare uomini a rimbalzo d’attacco ha avuto praticamente lo stesso effetto, perché dopo il tiro si era subito pronti a occupare gli spazi per evitare la transizione avversaria e riempire l’area. Anche perché, contro una squadra che cambiava sempre, magari il “piccolo” tirava contro un “lungo” lontano da canestro, e a rimbalzo poteva già esserci una situazione di mis-match favorevole.
La protezione dell’area è stata fatta egregiamente, con la gentile collaborazione dei tiratori del Galatasaray (2/19 da fuori), che di certo hanno rinforzato la scelta tecnica di Siena. Che, a dispetto dei numeri (12 rimbalzi offensivi concessi, non pochi contro 26 difensivi catturati) a mio avviso ha lavorato bene anche a rimbalzo. Poi, se hai una belva come Pops Mensah-Bonsu (che ha preso tanti rimbalzi offensivi – 8 – quanto tutta Siena) e tu sei leggero fisicamente per questo livello, la scienza tattica può poco di fronte all’evidenza.
Si voleva, insomma, una partita a basso ritmo, che poi si è tradotta in bassissimo punteggio, ma soprattutto di altissima disciplina, laddove sbagliare un tiro non era un problema mai, sbagliare una scelta, anche una sola, poteva compromettere molte certezze.
Per cui, anche se uscita dal campo sconfitta, con un record di 1-5 (ma ancora possibile la qualificazione alle Top 16, giocando in casa con Bayern, Zielona Gora e Malaga), io dico che sinceramente la Montepaschi di Istanbul mi è piaciuta. Mi è sembrata una squadra con un piano, molto chiaro, con una coesione e un’identità ben diverse rispetto anche solo alla partita di andata. Quindi ben allenata e dove, evidentemente, quelli che giocano sono “sulla stessa pagina”.
Poi magari Crespi mi risponde che mi sono inventato tutto, ma a volte val la pena tentare.
Pietro
UPDATE – Gli appunti di Marco Crespi
@pietroscibetta Analisi di qualita'. A. Difesa con obiettivo togliere Ad Arroyo ISO. Con trap, rotazioni e blitz. Bravi e convinti.
Nella passata stagione ho chiesto, invano, di poter vedere qualche allenamento dell’Olimpia Milano. Non perché mi interessasse fare la spia, né perché non avessi altro da fare o (magari) anche voglia di fare altro.
La risposta è sempre stata no, per team policy e soprattutto scelta (legittima, ma che non ho condiviso) dell’allenatore Sergio Scariolo. A Milano qualche mese fa è arrivato Luca Banchi, che ha certamente un approccio meno sofisticato a livello di gestione del rapporto umano, e ha riaperto le porte durante le sacre sedute di lavoro della sua squadra.
Vado anche io all’allenamento ogni volta che posso, e questo perché è semplicemente bello per uno che fa il “giornalista di basket”, e che di base è un appassionato di basket. Perché mi ha riavvicinato al gioco, lo stesso che ho amato fin da piccolo andando (anche) agli allenamenti della squadra di Porto Empedocle (B2, allora), poi a Parigi, dove ho avuto la possibilità di vedere quotidianamente in palestra giocatori di livello assoluto (JR Reid, Richard Dacoury, Stéphane Risacher, Laurent Sciarra, Zarko Paspalj, Jure Zdovc, Eric Struelens e altri ancora) ed eccellenti allenatori, il migliore tra i quali rispondeva al nome di Bozidar Maljkovic.
Si imparano cose, per esempio a “leggere” le situazioni che poi si riproporranno durante la partita. Se anche non riesci ad acchiappare proprio tutto, almeno ti fai un’idea di quelli che sono gli orientamenti, l’idea di base, o (per chiamarla col nome più “giornalistico”) della filosofia di gioco.
Poi però c’è soprattutto il rumore della palla, osservare facce, reazioni, gesti, sorrisi, scazzi, momenti di stress particolare e di relax, la gestione di questi momenti con i carichi di lavoro in allenamento, la complicità che si instaura tra determinati elementi, quei piccoli cenni che diventano rituali con allenatori, ragazzi dello staff e giocatori che poi si traducono in familiarità, che non significa confidenza.
È un modo, insomma, di recuperare un certo rapporto umano che mi è mancato, e che probabilmente manca all’interno della nostra pallacanestro. Una piacevole riscoperta, che di sicuro restituisce un po’ di senso al lavoro che si fa nel seguire una squadra per una stagione intera. Ci si sente meno estranei, meno soloni, anche meno scemi a provare a immaginarsi delle cose per poter fare delle analisi evidentemente superficiali.
Tutto questo non rappresenta una novità per quei colleghi o semplici curiosi che sono abituati a frequentare gli allenamenti delle “loro” rispettive squadre. Lo è a Milano, e per questo ringrazio Luca Banchi che mi ha permesso di riscoprire quel lato meno distaccato e cinico che in molti altri momenti delle mie giornate è l’assoluto protagonista. Quelle due ore in palestra e mezza, per me, sono anche un modo di concentrarmi su ciò che amo davvero e lasciare fuori tutte quelle cose che nel corso del tempo si sono intromesse tra me e la passione genuina che mi ha condotto fino a qui.
Don’t worry, we are still referring to basketball because EA7 Emporio Armani veteran guard Gianluca Basile trademarked his “own” shot calling it the ‘Tiro ignorante’, which means the ‘Ignorant shot’.
He usually tries this shot not only when his team needs three more points but also when everybody needs a boost of energy.
“Generally in basketball it is a team effort that produces the basket be that a pass or penetration. Instead of which, you invent this shot all by yourself. I would not really recommend it because it is a bit stupid and you risk an air ball. You shouldn’t really try it“.
Basile became a legend in Italy, both with his previous club Fortitudo Bologna and the National Team, because of his amazing decisive shots.
A lot of it is down to work, for sure, but most of all it has to do with something called ‘instinct’.
“It is impossible to train for this. You can train for other things but this shot just came out of nowhere“.
When it comes to long range shooting ability you better listen to what a player like Gianluca Basile has to say.
He has scored plenty of “ignorant shots” in his career but if he did that it is because he knows all the fundamentals of the game by heart.
“When you are on the floor you know where the basket is. You don’t have to look for it, all it takes is a millisecond to look up and you know where it is. In the end it all comes down to skill“.
Potrebbe non bastare dire che il Brose Baskets Bamberg ha vinto gli ultimi quattro campionati tedeschi. Dalle nostre parti è ancora molto lo snobismo nei confronti del basket in Germania, ma basterebbe dare un’occhiata ai bellissimi palazzetti, al seguito di un pubblico sempre più appassionato (ed educato), il sito web della Lega e delle società, il contorno di attività e intrattenimento pre, durante e post partita.
La Germania, per qualità e serietà di organizzazione, ha nettamente superato l’Italia. Per questo che un club come quello di Bamberg, cittadina di 70.000 abitanti dell’Alta Franconia, merita il massimo rispetto. Perché all’interno di un sistema virtuoso e funzionante ha saputo crescere per creare un ciclo vincente, non solo entro i confini domestici. Nella passata stagione si è qualificata per la prima volta alle Top 16 (così come l’altra formazione tedesca, l’Alba Berlino: 2-1 per “loro”, dunque, nel 2012-13), e seppur perdendo tutte le 14 gare della seconda fase ha sempre dimostrato di poter essere competitiva (7 di queste sconfitte sono arrivate con uno scarto compreso tra 1 e 3 punti).
Dalla passata stagione sono rimasti in otto giocatori, oltre all’allenatore Chris Fleming, in carica dal 2008 e costantemente cresciuto insieme alla sua squadra. Tra di loro ci sono esterni di qualità come lo slovacco Anton Gavel (4/4 da tre e 4 assist nella vittoria contro l’Anadolu Efes Istanbul) e il 32enne americano Casey Jacobsen: un passato da specialista NBA (tra Phoenix e New Orleans dal 2002 al 2005) e tornato al Bamberg nel 2009 dopo una prima esperienza nella stagione 2006-07. Nelle prime tre uscite in Eurolega ha tirato uno strepitoso 12/18 da fuori, se si scalda è una macchina.
Coach Luca Banchi ha studiato un piano per loro: creare le situazioni per attaccarli col pick and roll, quando non direttamente portando esterni fisici come Moss, Gentile e Langford spalle a canestro contro di loro e soprattutto contro l’altro esterno veterano della squadra, John Goldsberry (191 cm, quinta stagione a Bamberg, 5.7 assist in 18’ a partita in questa Eurolega). Il pick and roll non è esattamente un piano originale, visto che viene praticato a vario titolo ormai in quasi tutti gli schemi del mondo, ma l’importante è che i giocatori dell’Olimpia dimostrino voglia di battere il proprio uomo, creare vantaggi, squilibrare la difesa altrui. In una parola: personalità. Quella che al netto di infortuni e difficoltà oggettive è mancata nelle prime due trasferte europee (-39 tra Istanbul e Madrid), e che certamente bisognerà dimostrare davanti ai 6.800 della Stechert Arena, anche perché perdere, ritrovandosi 1-3 in classifica, costerebbe caro.
“Una volta avevamo un palazzetto molto piccolo e grezzo, con una sola tribuna”, raccontava Sven Schultze, che a Bamberg è nato 35 anni fa e ci ha debuttato come giocatore professionista, dal 1995 al 1998. Il futuro gli avrebbe riservato l’Olimpia targata Armani Jeans, con una finale scudetto e tanti tifosi conquistati col cuore e col mestiere (dal 2005 al 2007). Oggi, invece, Bamberg è “Freak City”, dove tutti, ma proprio tutti, sono pazzi per il basket.