Distrattamente su Jeremy Lin

La cosa che prima di tutto ho pensato, a parte che ovviamente nessuno poteva ritenere che il giocatore di origini taiwanesi potesse produrre un tale rendimento, è che il tutto ha a che fare con un concetto che dovrebbe essere la base della costruzione di ogni squadra. Ovvero, scegliere (e mettere in campo) i giocatori più adatti al tipo di gioco che si vuole sviluppare (e Lin sta provando a fare ciò che Mike D’Antoni vorrebbe da ogni suo playmaker).

Mi viene in mente un esempio nel calcio: l’estate scorsa il Manchester United voleva Wesley Sneijder dall’Inter, non l’ha avuto e allora ha messo in campo Tom Cleverley, classe 1989, allo United da quando aveva quindici anni. Perché? Perché posto che uno uguale all’olandese sul mercato non c’era, tanto valeva dare spazio a un ragazzo fatto (quasi) in casa (perché è cresciuto nel Bradford City) che in quel ruolo può permettere di giocare come  avrebbero voluto con Wes. Fine dell’esempio calcistico.

Jeremy Lin, intanto, non è esattamente venuto dal nulla: è stato visto, allenato, valutato da almeno altre due franchigie NBA prima dei Knicks. Si tratta dei Warriors, che per primi gli hanno permesso di entrare nella Lega dopo una bella Summer League, e degli Houston Rockets, che non lo hanno tenuto dopo il training camp.

Quest’ultima cosa mi sembra molto interessante perché a Houston, guidati da quello che scherzosamente si potrebbe definire un GM “nerd” come Daryl Morey (perché molto appassionato al tema dell’analisi statistica dei giocatori, laddove le cifre non sono quelle del boxscore ma arrivano attraverso processi molto più elaborati), fanno della valutazione dei giocatori a 360° una specie di religione. Strano, dunque, che abbiano avuto tra le mani un potenziale giocatore di alto livello e non se ne siano accorti, anche se tutti possono sbagliare e ci mancherebbe altro (ma, va detto, recentemente i Rockets hanno sbagliato pochino in fatto di scelte di mercato, se è vero che sono mancati negli anni Yao e McGrady più che il cast di supporto).

L’altro giorno, come si diceva anche venerdì per radio, Morey ha risposto su Twitter ai tifosi che gli chiedevano conto di questa scelta: tra gli argomenti “difensivi” del GM vi è la constatazione che i Rockets possiedono già tre ottimi giocatori nel ruolo di playmaker (Lowry, Dragic e Flynn) e di certo non necessitavano di una scommessa lì, dato che probabilmente non avrebbe visto il campo.

Vedo, specie tra i commenti su Facebook, un terrificante (per i toni) crescendo di insofferenza nei confronti di Mike D’Antoni perché non aveva “visto” prima il talento di Lin. Posto che D’Antoni non rientra (non da oggi) tra i miei allenatori preferiti, credo che più semplicemente bisognerebbe riportare la questione alla sua vera dimensione: “scoprire” uno come Lin può derivare anche solo da un colpo di fortuna, e le carriere degli allenatori e dei giocatori girano anche in base a questo.

Una scelta dettata dalla disperazione di mettere in campo qualcuno purché facesse qualcosa, in un momento nero, ma, torno a ripetere, o nella NBA sono tutti deficienti (e non credo, anche se immagino che deficienti ce ne siano come in tutte le realtà) oppure anche Lin deve aver fatto qualcosa per “nascondere” tutte queste qualità.

Che sono quelle di un giocatore intelligente, bravo a usare il pick and roll, con poco tiro da fuori e che deve ancora dimostrare tutto in fase di gioco sotto pressione, guida di una squadra con delle star all’interno (che certo non sono Fields, Jeffries o Walker, evidentemente più disponibili al “dialogo” con la palla), capacità di difendere sui grandi giocatori del suo ruolo e varie altre cose. Glielo auguro, ma non credo di sbagliare dicendo che non siamo di fronte a una nuova superstar. Se poi sarà così, tanto meglio per tutti noi che amiamo godere dello spettacolo.

Pietro

Video Killed una cippa, altro che

Grazie a Carlo Genta e Franco Piantanida di Radio24. Grazie perché ho potuto riprovare la sensazione di stare in uno studio radiofonico. Mi è capitato qualche altra volta, negli ultimi tempi, di parlare al telefono con una radio, ma stare seduto davanti al microfono in un ambiente così ovattato da farti sembrare lontano chilometri dai tuoi abituali posti, no.

Più precisamente non accadeva da undici anni: a Parigi, per la piccola Aligre FM, ho condotto per quasi un anno un programma radiofonico settimanale, in diretta. Si chiamava “L’Italie en direct au quotidien”, andava in onda tutti i giorni tranne al sabato (la domenica, registrato, alle 10.30, gli altri giorni alle 6.30) e si parlava di Italia e di italiani, a beneficio di connazionali oppure persone che hanno origini nostrane, con l’obiettivo di condividere con loro almeno un pezzo della vita quotidiana che si erano lasciati (per un dato periodo o per sempre) alle spalle. A me, ovviamente, toccava lo sport.

La radio credo sia l’unico posto dove sai perfettamente di essere “disponibile” per chiunque possa ascoltarti, ma allo stesso tempo ti dà una sensazione di meravigliosa solitudine. Quella che ti permette di poter dire la tua con la massima serenità. Il calore delle cuffie ti fa sentire a tuo agio.

Il “ritorno”, poi, produce un effetto molto particolare: le tue parole ti arrivano con grande chiarezza, quasi scandite, pulite. La conseguenza più ovvia è che se c’è una cosa che succede in radio, è che parli a te stesso. La bellezza sta proprio in questo. Non significa parlare da soli, anzi, è come quelle parole, le stesse che stai pronunciando, ti dicano: “Eccoci, siamo noi. Lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba. Ecco quello che stai dicendo. Speriamo che sia uguale a quello che stai pensando, perché da adesso non sono più solo parole tue. Sono fuori, andate. E chi le ha ascoltate penserà a te associandoti a quelle parole, buone, cattive, giuste o sbagliate che siano”.

La radio, insomma, ti libera e ti responsabilizza: ti fa dire tutto quello che vuoi e ti mette di fronte alle cose che hai detto nello stesso momento. Se un giorno dovessi tornare a “fare radio”, sarebbe bellissimo. Intanto, grazie di cuore a chi mi ha permesso di vivere una bella ora parlando di ciò che mi appassiona da sempre.

Se avete voglia di ascoltare la puntata di “Palla a Spicchi” di questo venerdì su Radio24, cliccate qui.

Pietro

Lemanonfaccia

Zlatan Ibrahimovic è una faccia da schiaffi. Roba da buffetti. Quelli che si danno ai ragazzi vivaci (ip. 1), spontanei (ip. 2), o – usando un’altra figura retorica più popolare – con la faccia come il culo (ip. 3). Pare che ultimamente si sia divertito lui a distribuirne qualcuno.

La scenetta che lo ha visto protagonista con i vari Aronica, Nocerino e De Sanctis durante l’ultimo Milan-Napoli è troppo esilarante per meritare espulsioni, squalifiche, ricorsi, e tutte queste belle cose. Faceva sorridere. E fa ridere anche il dibattito seguente: “violento”, “no, violento no”, “però antisportivo”, “ah beh quello sì”, “allora tre giornate!”, “no due!”, “dai due”, “tre!”. Tre, alla fine, pace.

Poi succede che dà una sberla (o qualcosa del genere, ora l’ultimo termine tecnico non me lo ricordo) al portiere Storari in occasione di Milan-Juve di Coppa Italia. Una partita che passerà alla storia come quella della doppietta di Martìn Cáceres (sempre lo stesso che a Torino non andava bene non troppi mesi fa e ora invece sì). Ho provato a vedere i gol ma su Sky non ce l’ho fatta. Poi, confesso, non ci ho più provato. Mi ricapiterà di sicuro qualche altra occasione.

Il “colpo proibito” dovrebbe essere qua dentro. Siamo ben lontani da questo e pure da questo, a dire il vero.

Chiellini si costerna (per l’infame gesto), Ambrosini s’indigna (“Fa la spia”),  Galliani s’impegna (a contenere il danno): siamo in attesa di vedere chi getta la spugna (con gran dignità).

Pietro

(scusandomi con Fabrizio De André per aver “usato” Don Raffaé alla fine del pezzo)

Un libro sul viaggio. Anche sui miei

Gianfelice Facchetti a Treviso
Gianfelice Facchetti parla del suo libro a Treviso (Grazie a Verde Sport per la foto)

Ho conosciuto Gianfelice Facchetti. Il che, in sè, non è una notizia. L’ho conosciuto perché sono stato invitato da Verde Sport a presentare il suo libro a Treviso (anzi, alla Ghirada).

Già che c’ero mi sono fatto spiegare che significa Ghirada, dopo aver frequentato quel posto molte volte. Pare che una volta lì finisse la strada, e si doveva per forza tornare indietro e invertire la marcia. Quindi effettuare una “ghirada”, come dicono da quelle parti.

Il viaggio quindi già valeva la pena, avevo imparato una cosa in più di quelle che sapevo partendo.

Il libro di Facchetti si chiama “Se no che gente saremmo” (SCHEDA). Lo confesso, e l’ho detto anche al diretto interessato, che mi sono avvicinato a quelle pagine con un po’ di diffidenza. Di solito non amo leggere parenti di/amici di/conoscenti di qualche personaggio di pubblico interesse. Ma nel caso specifico la mia diffidenza era mal riposta, e ho chiesto scusa per aver pensato male.

Il titolo deriva da un episodio, narrato all’interno: Giacinto Facchetti e Giovanni Arpino (grandissima firma, purtroppo scomparso nel 1987, autore tra le altre cose del romanzo “Azzurro Tenebra”) divennero amici col tempo, e durante i Mondiali del 1974 uno giocava e l’altro seguiva la Nazionale come giornalista.

La moglie di Facchetti senior aspettava un bambino, che poi sarà Gianfelice, e Arpino disse all’allora capitano azzurro: “Se ti servirà un padrino, me lo dirai”. Quando poi andò a trovare mamma e papà Facchetti in ospedale, Arpino si sentì dire: “Pronto per il battesimo?”. Rimase sorpreso. La moglie di Facchetti, Giovanna, rimproverò il marito, reo a suo dire di non essersi spiegato bene. E lui: “Nella vita si dice una cosa ed è quella. Se no che gente saremmo?”.

1974. Arpino. Facchetti. Come ho avuto modo di dire a Treviso, questo non è un libro sul calcio, né una biografia del celebre padre dell’autore, né un libro di risposta alle polemiche sui processi sportivi e penali legati a “Calciopoli”. Io l’ho letto come un libro di viaggio. Scorrendo le pagine ho avuto piacere a leggere racconti, percorsi, incontri e sensazioni dell’autore, a ricercare più quelle dei ricordi dell’illustre “numero tre”.

Un libro che attraverso ricordi di partite di pallone fornisce ottimi assist per parlare d’altro. Il piacere di leggere e/o rileggere articoli di Arpino e Brera. Riscoprire il piacere dei “testi” invece che dei “contenuti”. Dei giornali, dei libri, invece dei “contenitori”. Delle persone, come quello che è raccontato di Sarti, invece che dei personaggi.

Di un paese diverso, che sapeva fare le cose insieme e che fa sorridere. Un mondo in cui Facchetti (inteso Giacinto) si lamentava del fatto che la futura moglie sembrava rifiutare il suo corteggiamento, e glielo scriveva attraverso quelle che allora si chiamavano “lettere d’amore”. “Eri con tuo fratello (juventino, per giunta!)”, le scrisse.

Parla anche di padri e figli, attraverso una doppia se non tripla narrazione, in cui Giacinto Facchetti è campione, padre, nonno. E come padre ha un figlio che a sua volta diventa padre. E così via. Ma è, al tempo stesso, una presenza discreta all’interno della narrazione. Si legge di padri, figli, nonni. Non tutti campioni. Ma si leggono storie che appartengono a tutti, perché tutti le abbiamo vissute con diversi gradi di intensità.

Parla anche del lavoro che faccio: chiacchierando con Gianfelice Facchetti, ricordando dei testi che ha apprezzato, rileggendo grazie a lui un articolo di Arpino, da “La Stampa” del 10 maggio 1978, ho provato un senso di calore. Quello che manca, troppe volte, a quello che faccio io e non solo io. Quel calore che manca nelle “trenta righe” standard, nelle notizie più o meno uguali su diversi siti, nel modo assurdamente strillato e “definitivo” di dare notizie che poi di definitivo non hanno nulla, se non la carta o lo spazio sul server che è stato occupato.

Così ho viaggiato, cercando di capire se ha senso il lavoro che si fa, se ha senso ancora raccontare le partite, ascoltare dichiarazioni di gente che si vergogna a dire di voler vincere chissà perché. Il senso, ho concluso, sta nell’inseguire da soli quegli stimoli necessari a voler cercare qualche bello spunto se non una bella storia da raccontare. Non per il piacere di scriverla per scriverla, ma solo se ha un senso condividerla e se può essere un valore aggiunto leggerla. Chiariamoci, si sta benissimo anche senza le storie, forse soprattutto anche senza le storie di sport, “ma se cambi i personaggi e togli i nomi degli sportivi, gli articoli di uno come Gianni Brera non sono vera, grande letteratura?”.

Questo me lo ha detto Gianfelice Facchetti oggi, e ha ragione. Noi che scriviamo dovremmo insistere di più per provare a scrivere veramente. Scrivere per viaggiare, insieme a quelli che ci leggono. Non sarebbe tutto un po’ più bello e divertente?

Pietro

Su Kobe Bryant. E sulla sfiga

Partiamo dalle cattive notizie: s’è fatto male anche Gallinari, dopo Bargnani. Insomma, due italiani con qualche possibilità (anche piccola) di partecipare a un All-Star Game NBA si sono “rotti” entrambi, un vero peccato soprattutto per loro in una stagione che li sta (sperando tornino presto) vedendo protagonisti assoluti con Denver Nuggets e Toronto Raptors (anche se Andrea ha giocato solo 13 partite su 26, ma con 23.5 punti e 6.4 rimbalzi di media).

Adesso andiamo alle cose belle della nottata.

Segnando a raffica nella prima metà di gara della partita persa dai Lakers in casa di Philadelphia, Kobe Bryant è diventato il quinto marcatore di sempre nella storia della NBA. E segnerà ancora moltissimo.

Dopo la partita ha rilasciato questa breve intervista a Stephen A. Smith di ESPN, che potete guardarvi QUI.

Vi segnalo, all’interno, la piccola rivelazione di Smith a Bryant: “Shaq mi ha telefonato per farti avere questo messaggio: ‘Sei il miglior Laker di sempre’. Che ne pensi?”.

Pietro

La mia domenica (non solo) sportiva

Una visione approfondita dei 42 punti di Tony Parker (diventato per l’occasione il miglior assistman nella storia della franchigia) nella partita tra San Antonio e Oklahoma City.

L’interpretazione di mamma della dieta: lasagne E polpette di carne e patate.

Gabon-Mali, quarto di finale di Coppa d’Africa, e annessa telecronaca. Alla fine l’unico giocatore che si è presentato ai calci di rigore col sorriso ha tragicamente segnato il suo destino (e dire che avevi anche già preso il palo, povero Aubameyang):

Per chiudere in bellezza un trancio di pizza preso da Woodstock (chi vive a Milano e spesso mangia tardi sa di cosa sto parlando) a casa di MG per assistere alla partita tra Canadian Solar Bologna ed EA7 Emporio Armani Milano, vinta dalla seconda che ho detto.

Vinta bene (qui gli HIGHLIGHTS), con Bremer esplosivo nel finale (due triple consecutive, soprattutto).

Poi ho visto l’inizio del Lingerie Bowl, che mi ha fatto scoprire un nuovo talento del bordocampismo: lei.

Qualche altra cosa l’ho tweettata.

Pietro

Prima dei campionati, riformate il sistema dei club

Ero alla serata organizzata per il “Premio Gianni Brera”, lunedì scorso, per applaudire la mia collega di Eurosport Stefania Bianchini (QUI trovate tutto su di lei, merita) che ha ricevuto una menzione in ragione del suo impegno a favore del pugilato femminile, che dalle prossime edizioni dei Giochi diventerà ufficialmente una disciplina olimpica.

Il premio vero e proprio, allo sportivo dell’anno (per il 2011, ovviamente), questa volta non è andato a una individualità o a un club, ma addirittura al CONI. Questo perché si intendeva premiare tutto lo sport italiano, attraverso la persona del Presidente Petrucci.

Posto che premiare uno sport che spesso si autodenuncia per la carenza di risorse, organizzazione, progettualità e ancora più drammaticamente di strutture è una scelta che si presta a qualche discussione (“I risultati ottenuti sono merito delle Federazioni“, ha detto Petrucci. Non credo sia sempre così), parliamo nello specifico di un tema caro al suddetto Petrucci: il basket.

Disse, sempre quella sera: “Fate le riforme, prendete decisioni, fate degli scontenti, ma fate“, il suo pensiero compresso e rivolto al Consiglio Federale che si è svolto questo sabato a Roma.

La discussione principale riguardava e riguarda la riforma dei campionati. Quello che conosciamo oggi è un dato parziale, nel senso che è stata messa nero su bianco qualche idea che necessita però di stabilire le proprie modalità di attuazione. le idee sono:

Primo campionato (per ora eliminiamo le diciture A, Legadue, ecc.) da 16 squadre entro il 2014. Secondo campionato diviso in due gironi da 16 squadre ciascuno a partire dal 2013, e sempre da quell’anno terzo campionato diviso in quattro gironi da 16 squadre ciascuno. Un totale di 112 club coinvolti, dei quali però solo 16 rimarrebbero allo stadio del “professionismo”, mentre tutto il resto tornerebbe ad essere accorpato ai “dilettanti”. Di questo parlerò, magari, una volta che saranno definiti per bene i parametri di funzionamento.

Dunque, parto dalla considerazione che gli atleti che giocano oggi in DNA (il terzo campionato attuale) sono forse dei golfisti o dei tennisti dilettanti, ma giocano a basket per lavoro, quindi per professione. E siccome le parole hanno un senso o dovrebbero averlo, questo mi sembra un punto fondamentale.

Perché prima di stabilire quante squadre retrocedono, quanti americani si possono prendere e quanti gironi si fanno, bisognerebbe a mio parere individuare le problematiche, le necessità e le criticità da superare nella vita dei club che poi questi campionati li devono far funzionare, devono accogliere, gestire e pagare questi atleti “dilettanti”. E non solo loro.

Credo si parli troppo poco di tutti quelli che compongono il club ma non vestono in tuta (o almeno, non perché sotto hanno la tenuta da gioco) e non vanno a giocare. Una seria organizzazione di un mondo di professionisti chiamati dilettanti per pagare meno tasse (perché poi questo è il problema, fondamentalmente) dovrebbe farsi carico della responsabilità di verificare che chi lavora nei club lo faccia secondo le giuste condizioni, per poter offrire un servizio migliore agli atleti, ai dirigenti, al pubblico.

Credo si parli troppo dei soldi che prendono (o, a volte, dovrebbero prendere) i giocatori e gli allenatori e troppo poco dei soldi che prendono (o, un pò più spesso, dovrebbero prendere) segretari/e, addetti/e stampa, addetti/e al marketing, al merchandising, fornitori, service, eccetera. Tante persone che conosco hanno lavorato mesi e mesi gratuitamente o quasi perché appassionate: non esiste. Nell’ambiente sportivo la passione dovrebbe essere un “plus”, non una fregatura. Che siccome sei appassionato allora tanto lo fai perché ti piace. Può anche non piacermi. Ma lavorare deve essere un lavoro (perdonate la ripetizione) anche quando c’è da riconoscerlo, professionalmente, finanziariamente e giuridicamente.

Credo, fortemente, che un insieme di club che formano una lega (e quindi organizzano un campionato, con annessi e connessi) debbano curarsi di chi entra a far parte della famiglia, quali risorse intende investire e come intende coprire queste somme; credo, fortemente, che in ogni club ci debbano essere delle figure specifiche per ogni tipologia di problema da affrontare, e che qualora non ci fossero vadano formate. Credo, fortemente, che invece ci siano moltissime persone obbligate dalla forza delle cose a fare molto di più di quello che dovrebbero, a volte anche di quello che potrebbero, generando altri problemi nel tentativo di dare delle soluzioni.

Credo, fortemente, che una Lega debba essere intesa come una casa comune: comune, però, ma non che si possa entrare e uscire a piacimento. Entri se ci puoi entrare, se hai il vestito giusto e se ordini devi poter pagare il conto. Perché come non è giusto prendere un giocatore se non si ha la certezza di poter onorare tutti gli impegni (e di esempi negativi, nelle ultime stagioni, ne abbiamo avuti), credo sia ancora meno giusto pensare “solo” ai giocatori e non rendersi conto che un club si regge su individui, talenti, lavoratori (famiglie) che prestano volentieri la loro passione perché credono sia una cosa bellissima. Non vale, allora, ripagarli con qualche centinaia di euro e dei rimborsi spese. Sono persone che meritano un’altra cosa: meritano di dire “Vado al lavoro”. E che sia una cosa seria.

Pietro

Conte e Allegri non se le mandano a dire

Per definire la favorita per lo scudetto in questo campionato di calcio, gli allenatori Antonio Conte (Juventus, unica ancora imbattuta) e Massimiliano Allegri (Milan, campione d’Italia) hanno dato vita a dei sottilissimi mind-games ormai da qualche settimana. E così scoppia la polemica, perché nessuno dei due ci sta a cedere. Nessuno dei due vuole dire di essere il favorito per vincerlo, sto campionato. Anzi, se glielo si dice quasi si offendono. Tutto questo è molto appassionante.

Ecco, per i più disattenti, una breve sintesi di questo duello ad altissima tensione:

Pietro

Sostiene Devis Mangia (su W.S.)

Sostiene, l’ex allenatore del Palermo (che poi non avrebbe nemmeno dovuto esserlo ma vabbè, si sa che con Zamparini tutto è possibile) che un allenatore di calcio dovrebbe adeguare il sistema di gioco della propria squadra alle qualità dei giocatori che ha a disposizione. Pensa te.

Il problema che gli era stato posto (durante una “ospitata” su Sky Sport 1): l’utilizzo di Wesley Sneijder.

Un giocatore la cui mancata nomina come candidato per il Pallone d’Oro 2010 ha destato scandalo, un anno dopo era il problema dell’Inter perché non rientrava nel 3-4-3 di Gasperini. Oggi non rientra nel 4-4-2 di Ranieri. Domani, magari, nel 4-5-1 di un altro.

Di qui il ricordo di non so più quante telefonate tra colleghi, piuttosto che con un agente o un allenatore di basket sull’opportunità di prendere tal giocatore “che non gioca il pick and roll”, “che non segna da fuori”, “che non gioca spalle a canestro”. Magari non gioca il pick and roll MA è un fantastico giocatore di back-door. Magari non segna da fuori MA segna da dentro (questa l’ho presa in prestito. Grazie Ste). Magari non gioca spalle a canestro MA ci gioca di fronte.

Perché il punto sembra essere sempre ciò che un giocatore non è in grado di fare. Poche volte, invece, si cerca di assimilare ciò che sa fare per rendere funzionale il suo talento per un sistema di gioco vincente, anche solo ragionando a livello teorico. Claudio Ranieri dice: “Sneijder deve parlare la lingua della squadra”. D’accordo, questo poi è il presupposto fondamentale per qualunque giocatore di qualunque squadra.

Però davvero Sneijder deve parlare la stessa lingua di Obi, per fare un esempio? Non il contrario, piuttosto?

Non credo che questa sia una discussione circoscrivibile solamente al calcio. Per me c’è molto altro. Il problema italiano di (non) proiettarsi verso l’eccellenza, di (non) guardare all’innovazione, di (non) puntare alla crescita collettiva attraverso la formazione e l’organizzazione di individualità migliori. C’è sempre una specie di “ragion di Stato” che mitiga gli entusiasmi e livella tutto verso il basso, da un punto di vista qualitativo.

Nel calcio italiano, insomma, Antonio Nocerino diventa una stella nella stessa stagione in cui Wesley Sneijder diventa un problema. Con il massimo rispetto per l’ottimo centrocampista del Milan e della Nazionale italiana, solo io ci vedo qualcosa che non va? Non si tratta di moduli, o di idee tattiche. Si parla di visioni. E a mio parere quelle “nostre” vanno sempre dalla parte del tentativo di conservare, di sfruttare quelle tre o quattro cose che sappiamo perché insegnarne (e impararne) di nuove costa una fatica anche di intelletto che non tutti siamo pronti ad accettare (nessuno escluso, nemmeno i presenti), sacrificando qualche comoda sicurezza.

Stasera a Radio Sportiva, che ringrazio per l’ospitalità e l’opportunità di parlare del libro che ho scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice, mi hanno chiesto cosa è mancato all’Inter nell’ultima stagione e mezza. Credo che sia  mancata prima di tutto l’idea forte sulla quale costruire la squadra. Si rifonda? Non si rifonda? Si cambia allenatore? O no? Si cede Sneijder? O Eto’o? Si prende Tevez? E Palacio? E Kucka? E Benitez? E Leonardo? E Gasperini? E Ranieri? In cuor mio sono sicuro che c’è una persona in grado di darmi la risposta giusta a tutti questi quesiti: il mitico  “Martellone”.

Pietro

Doron Perkins e il Maccabi Tel Aviv

Mentre leggevo da più parti che Doron Perkins andrà a giocare per la Bennet Cantù, mi sono ricordato di questo bel video.

Infortunatosi in maniera molto seria negli ultimi playoff di Eurolega contro il Caja Laboral Vitoria, Perkins non poté essere d’aiuto al Maccabi Electra Tel Aviv per raggiungere la finale, poi persa.

Dalla sua stanza d’ospedale, però, prima di gara-4 di quella serie contro i baschi aveva inviato questo messaggio ai suoi compagni di squadra di allora:

Firmasse a Cantù, potrebbe giocare magari la prossima a Tel Aviv, per provare ad aiutare i brianzoli a qualificarsi ai playoff eliminando proprio la squadra di David Blatt.

Sarebbe una bella storia, rivederlo in campo proprio lì.

Pietro