Siccome so per esperienza cosa si prova a perdere un lavoro, ma soprattutto a perdere qualcosa per cui si fanno delle scelte (anche di vita, anche radicali) per permettere a una passione personale di essere condivisa con tanti, e di contribuire con il proprio lavoro a farla crescere, a “seminare” per raccogliere nuovi adepti (oggi si direbbe “followers”), per spiegarla a chi non la conosce, per raccontare cose nuove a chi già ne sa. Siccome so cosa ho provato quando mi è stato detto che “Dream Team” avrebbe chiuso i battenti, allora chiedo a tutti coloro che ne hanno l’interesse (dai singoli club, alle leghe, ai dirigenti dei suddetti club, agli stessi giocatori, ai tifosi, agli editori) che si faccia – mi ripeto – TUTTO il possibile per Superbasket.
Perché può piacere o meno, la si può leggere o meno, ma se il basket italiano perde anche l’ultima rivista dedicata possiamo anche smetterla di chiamarlo movimento, perché senza dibattito, senza analisi, senza un minimo di “scambio” intellettuale tra giornalisti, tifosi, giocatori, allenatori e dirigenti non esisterebbe più, e già fa una fatica bestiale.
Mi ripeto di nuovo: non è necessario condividere quanto scrive settimanalmente Superbasket. Però è necessario che continui a scrivere. E sono molto felice che il direttore Claudio Limardi mi abbia dato la possibilità di contribuire con un mio articolo nell’ultimo numero, attualmente in edicola.
Da ragazzo, in Sicilia, Superbasket rappresentava la mia finestra sul basket dei miei sogni, quello lontano dalla C e B2 maschile che ero abituato a vedere ogni domenica. Mai avrei pensato, un giorno, che avrei potuto scriverci sopra, e ne sono davvero felice. Sarebbe gravissimo se oggi, a Porto Empedocle o in qualunque altro posto, un altro ragazzo non potesse più “sognare” il grande basket, qualora ne fosse appassionato, attraverso una rivista che ha trent’anni di storia.
Pietro

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