Siccome so per esperienza cosa si prova a perdere un lavoro, ma soprattutto a perdere qualcosa per cui si fanno delle scelte (anche di vita, anche radicali) per permettere a una passione personale di essere condivisa con tanti, e di contribuire con il proprio lavoro a farla crescere, a “seminare” per raccogliere nuovi adepti (oggi si direbbe “followers”), per spiegarla a chi non la conosce, per raccontare cose nuove a chi già ne sa. Siccome so cosa ho provato quando mi è stato detto che “Dream Team” avrebbe chiuso i battenti, allora chiedo a tutti coloro che ne hanno l’interesse (dai singoli club, alle leghe, ai dirigenti dei suddetti club, agli stessi giocatori, ai tifosi, agli editori) che si faccia – mi ripeto – TUTTO il possibile per Superbasket.
Perché può piacere o meno, la si può leggere o meno, ma se il basket italiano perde anche l’ultima rivista dedicata possiamo anche smetterla di chiamarlo movimento, perché senza dibattito, senza analisi, senza un minimo di “scambio” intellettuale tra giornalisti, tifosi, giocatori, allenatori e dirigenti non esisterebbe più, e già fa una fatica bestiale.
Mi ripeto di nuovo: non è necessario condividere quanto scrive settimanalmente Superbasket. Però è necessario che continui a scrivere. E sono molto felice che il direttore Claudio Limardi mi abbia dato la possibilità di contribuire con un mio articolo nell’ultimo numero, attualmente in edicola.
Da ragazzo, in Sicilia, Superbasket rappresentava la mia finestra sul basket dei miei sogni, quello lontano dalla C e B2 maschile che ero abituato a vedere ogni domenica. Mai avrei pensato, un giorno, che avrei potuto scriverci sopra, e ne sono davvero felice. Sarebbe gravissimo se oggi, a Porto Empedocle o in qualunque altro posto, un altro ragazzo non potesse più “sognare” il grande basket, qualora ne fosse appassionato, attraverso una rivista che ha trent’anni di storia.
Pietro

Io ho 19 anni, sono sardo, cagliaritano, ne avevo 10 quando trovai nel comò di mio papà un giornale, con un ragazzo di colore sopra, con la sua maglia bianca con scritto Virtus, che poi scoprì essere Carlton Myers. Corsi in edicola e chiesi una rivista di basket random, il giornalaio mi diede un numero che ora sta incorniciato in camera mia, Rivista ufficiale Nba, novembre 2002, Steve Francis in copertina, tutte le rose all’ interno, 29 squadre, i Seattle Supersonics, Jay Williams in rampa di lancio nei suoi Bulls. Quel giorno mi sono innamorato del basket e da lì in poi devo tutto ai Superbasket di Montorro prima e Limardi poi. Non può chiudere i battenti, sarebbe come se chiudessero gli Uffizi ai turisti, impensabile. Ricordo ancora la gioia nel trovare il primo numero della seconda versione della rivista ufficiale nba, con Shaq in maglia heat, come ricordo il giorno che smise di uscire dream team, zeppo di delusione. Io non ho conosciuto Aldo Giordani, e Federico Buffa, al di là delle pubblicazioni, l’ ho solo sentito parlare, ma chiudere Superbasket, per me, vuol dire chiudere la il più grande aspetto in comune tra me e mio papà. Salviamolo.
Alessandro
Leggo Superbasket da quando avevo 14-15 anni, ora ne ho 42. Il settimanale è ben fatto, ma il progetto editoriale non mi convince. Mi spiace che sia in crisi, ma questa crisi non mi sorprende. Non spetta a me l’analisi della situazione di Superbasket, però due punti critici sono evidenti: l’eccessivo costo dell’abbonamento e la quasi totale assenza da internet. Non sono solo un appassionato di basket, sono anche uno degli editor di una importante società che opera nel settore dello sport. So di cosa parlo.