Prima dei campionati, riformate il sistema dei club

Ero alla serata organizzata per il “Premio Gianni Brera”, lunedì scorso, per applaudire la mia collega di Eurosport Stefania Bianchini (QUI trovate tutto su di lei, merita) che ha ricevuto una menzione in ragione del suo impegno a favore del pugilato femminile, che dalle prossime edizioni dei Giochi diventerà ufficialmente una disciplina olimpica.

Il premio vero e proprio, allo sportivo dell’anno (per il 2011, ovviamente), questa volta non è andato a una individualità o a un club, ma addirittura al CONI. Questo perché si intendeva premiare tutto lo sport italiano, attraverso la persona del Presidente Petrucci.

Posto che premiare uno sport che spesso si autodenuncia per la carenza di risorse, organizzazione, progettualità e ancora più drammaticamente di strutture è una scelta che si presta a qualche discussione (“I risultati ottenuti sono merito delle Federazioni“, ha detto Petrucci. Non credo sia sempre così), parliamo nello specifico di un tema caro al suddetto Petrucci: il basket.

Disse, sempre quella sera: “Fate le riforme, prendete decisioni, fate degli scontenti, ma fate“, il suo pensiero compresso e rivolto al Consiglio Federale che si è svolto questo sabato a Roma.

La discussione principale riguardava e riguarda la riforma dei campionati. Quello che conosciamo oggi è un dato parziale, nel senso che è stata messa nero su bianco qualche idea che necessita però di stabilire le proprie modalità di attuazione. le idee sono:

Primo campionato (per ora eliminiamo le diciture A, Legadue, ecc.) da 16 squadre entro il 2014. Secondo campionato diviso in due gironi da 16 squadre ciascuno a partire dal 2013, e sempre da quell’anno terzo campionato diviso in quattro gironi da 16 squadre ciascuno. Un totale di 112 club coinvolti, dei quali però solo 16 rimarrebbero allo stadio del “professionismo”, mentre tutto il resto tornerebbe ad essere accorpato ai “dilettanti”. Di questo parlerò, magari, una volta che saranno definiti per bene i parametri di funzionamento.

Dunque, parto dalla considerazione che gli atleti che giocano oggi in DNA (il terzo campionato attuale) sono forse dei golfisti o dei tennisti dilettanti, ma giocano a basket per lavoro, quindi per professione. E siccome le parole hanno un senso o dovrebbero averlo, questo mi sembra un punto fondamentale.

Perché prima di stabilire quante squadre retrocedono, quanti americani si possono prendere e quanti gironi si fanno, bisognerebbe a mio parere individuare le problematiche, le necessità e le criticità da superare nella vita dei club che poi questi campionati li devono far funzionare, devono accogliere, gestire e pagare questi atleti “dilettanti”. E non solo loro.

Credo si parli troppo poco di tutti quelli che compongono il club ma non vestono in tuta (o almeno, non perché sotto hanno la tenuta da gioco) e non vanno a giocare. Una seria organizzazione di un mondo di professionisti chiamati dilettanti per pagare meno tasse (perché poi questo è il problema, fondamentalmente) dovrebbe farsi carico della responsabilità di verificare che chi lavora nei club lo faccia secondo le giuste condizioni, per poter offrire un servizio migliore agli atleti, ai dirigenti, al pubblico.

Credo si parli troppo dei soldi che prendono (o, a volte, dovrebbero prendere) i giocatori e gli allenatori e troppo poco dei soldi che prendono (o, un pò più spesso, dovrebbero prendere) segretari/e, addetti/e stampa, addetti/e al marketing, al merchandising, fornitori, service, eccetera. Tante persone che conosco hanno lavorato mesi e mesi gratuitamente o quasi perché appassionate: non esiste. Nell’ambiente sportivo la passione dovrebbe essere un “plus”, non una fregatura. Che siccome sei appassionato allora tanto lo fai perché ti piace. Può anche non piacermi. Ma lavorare deve essere un lavoro (perdonate la ripetizione) anche quando c’è da riconoscerlo, professionalmente, finanziariamente e giuridicamente.

Credo, fortemente, che un insieme di club che formano una lega (e quindi organizzano un campionato, con annessi e connessi) debbano curarsi di chi entra a far parte della famiglia, quali risorse intende investire e come intende coprire queste somme; credo, fortemente, che in ogni club ci debbano essere delle figure specifiche per ogni tipologia di problema da affrontare, e che qualora non ci fossero vadano formate. Credo, fortemente, che invece ci siano moltissime persone obbligate dalla forza delle cose a fare molto di più di quello che dovrebbero, a volte anche di quello che potrebbero, generando altri problemi nel tentativo di dare delle soluzioni.

Credo, fortemente, che una Lega debba essere intesa come una casa comune: comune, però, ma non che si possa entrare e uscire a piacimento. Entri se ci puoi entrare, se hai il vestito giusto e se ordini devi poter pagare il conto. Perché come non è giusto prendere un giocatore se non si ha la certezza di poter onorare tutti gli impegni (e di esempi negativi, nelle ultime stagioni, ne abbiamo avuti), credo sia ancora meno giusto pensare “solo” ai giocatori e non rendersi conto che un club si regge su individui, talenti, lavoratori (famiglie) che prestano volentieri la loro passione perché credono sia una cosa bellissima. Non vale, allora, ripagarli con qualche centinaia di euro e dei rimborsi spese. Sono persone che meritano un’altra cosa: meritano di dire “Vado al lavoro”. E che sia una cosa seria.

Pietro

Conte e Allegri non se le mandano a dire

Per definire la favorita per lo scudetto in questo campionato di calcio, gli allenatori Antonio Conte (Juventus, unica ancora imbattuta) e Massimiliano Allegri (Milan, campione d’Italia) hanno dato vita a dei sottilissimi mind-games ormai da qualche settimana. E così scoppia la polemica, perché nessuno dei due ci sta a cedere. Nessuno dei due vuole dire di essere il favorito per vincerlo, sto campionato. Anzi, se glielo si dice quasi si offendono. Tutto questo è molto appassionante.

Ecco, per i più disattenti, una breve sintesi di questo duello ad altissima tensione:

Pietro

Il fascino del time-out

Il time-out è una sorta di riunione di lavoro flash per chi si occupa di pallacanestro. Da un singolo time-out può dipendere la sorte di una partita e  a cascata di una stagione. Per questo mi affascinano i grandi orchestratori di time-out e tra questi un “emergente” bravissimo è Porfi Fisac, allenatore del Fuenlabrada. Questo il time-out nell’ultima gara contro il Real Madrid (che ho avuto la fortuna di commentare), guardate cosa dice ai suoi giocatori, guardandoli negli occhi.. (andate a 50 sec).

LA LEY SAGRADA di PORFI FISAC

 

E qual è il vostro time-out memorabile? Non vale citare quello di Pianigiani durante Italia-Israele..

MG

Sostiene Devis Mangia (su W.S.)

Sostiene, l’ex allenatore del Palermo (che poi non avrebbe nemmeno dovuto esserlo ma vabbè, si sa che con Zamparini tutto è possibile) che un allenatore di calcio dovrebbe adeguare il sistema di gioco della propria squadra alle qualità dei giocatori che ha a disposizione. Pensa te.

Il problema che gli era stato posto (durante una “ospitata” su Sky Sport 1): l’utilizzo di Wesley Sneijder.

Un giocatore la cui mancata nomina come candidato per il Pallone d’Oro 2010 ha destato scandalo, un anno dopo era il problema dell’Inter perché non rientrava nel 3-4-3 di Gasperini. Oggi non rientra nel 4-4-2 di Ranieri. Domani, magari, nel 4-5-1 di un altro.

Di qui il ricordo di non so più quante telefonate tra colleghi, piuttosto che con un agente o un allenatore di basket sull’opportunità di prendere tal giocatore “che non gioca il pick and roll”, “che non segna da fuori”, “che non gioca spalle a canestro”. Magari non gioca il pick and roll MA è un fantastico giocatore di back-door. Magari non segna da fuori MA segna da dentro (questa l’ho presa in prestito. Grazie Ste). Magari non gioca spalle a canestro MA ci gioca di fronte.

Perché il punto sembra essere sempre ciò che un giocatore non è in grado di fare. Poche volte, invece, si cerca di assimilare ciò che sa fare per rendere funzionale il suo talento per un sistema di gioco vincente, anche solo ragionando a livello teorico. Claudio Ranieri dice: “Sneijder deve parlare la lingua della squadra”. D’accordo, questo poi è il presupposto fondamentale per qualunque giocatore di qualunque squadra.

Però davvero Sneijder deve parlare la stessa lingua di Obi, per fare un esempio? Non il contrario, piuttosto?

Non credo che questa sia una discussione circoscrivibile solamente al calcio. Per me c’è molto altro. Il problema italiano di (non) proiettarsi verso l’eccellenza, di (non) guardare all’innovazione, di (non) puntare alla crescita collettiva attraverso la formazione e l’organizzazione di individualità migliori. C’è sempre una specie di “ragion di Stato” che mitiga gli entusiasmi e livella tutto verso il basso, da un punto di vista qualitativo.

Nel calcio italiano, insomma, Antonio Nocerino diventa una stella nella stessa stagione in cui Wesley Sneijder diventa un problema. Con il massimo rispetto per l’ottimo centrocampista del Milan e della Nazionale italiana, solo io ci vedo qualcosa che non va? Non si tratta di moduli, o di idee tattiche. Si parla di visioni. E a mio parere quelle “nostre” vanno sempre dalla parte del tentativo di conservare, di sfruttare quelle tre o quattro cose che sappiamo perché insegnarne (e impararne) di nuove costa una fatica anche di intelletto che non tutti siamo pronti ad accettare (nessuno escluso, nemmeno i presenti), sacrificando qualche comoda sicurezza.

Stasera a Radio Sportiva, che ringrazio per l’ospitalità e l’opportunità di parlare del libro che ho scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice, mi hanno chiesto cosa è mancato all’Inter nell’ultima stagione e mezza. Credo che sia  mancata prima di tutto l’idea forte sulla quale costruire la squadra. Si rifonda? Non si rifonda? Si cambia allenatore? O no? Si cede Sneijder? O Eto’o? Si prende Tevez? E Palacio? E Kucka? E Benitez? E Leonardo? E Gasperini? E Ranieri? In cuor mio sono sicuro che c’è una persona in grado di darmi la risposta giusta a tutti questi quesiti: il mitico  “Martellone”.

Pietro