Un libro sul viaggio. Anche sui miei

Gianfelice Facchetti a Treviso
Gianfelice Facchetti parla del suo libro a Treviso (Grazie a Verde Sport per la foto)

Ho conosciuto Gianfelice Facchetti. Il che, in sè, non è una notizia. L’ho conosciuto perché sono stato invitato da Verde Sport a presentare il suo libro a Treviso (anzi, alla Ghirada).

Già che c’ero mi sono fatto spiegare che significa Ghirada, dopo aver frequentato quel posto molte volte. Pare che una volta lì finisse la strada, e si doveva per forza tornare indietro e invertire la marcia. Quindi effettuare una “ghirada”, come dicono da quelle parti.

Il viaggio quindi già valeva la pena, avevo imparato una cosa in più di quelle che sapevo partendo.

Il libro di Facchetti si chiama “Se no che gente saremmo” (SCHEDA). Lo confesso, e l’ho detto anche al diretto interessato, che mi sono avvicinato a quelle pagine con un po’ di diffidenza. Di solito non amo leggere parenti di/amici di/conoscenti di qualche personaggio di pubblico interesse. Ma nel caso specifico la mia diffidenza era mal riposta, e ho chiesto scusa per aver pensato male.

Il titolo deriva da un episodio, narrato all’interno: Giacinto Facchetti e Giovanni Arpino (grandissima firma, purtroppo scomparso nel 1987, autore tra le altre cose del romanzo “Azzurro Tenebra”) divennero amici col tempo, e durante i Mondiali del 1974 uno giocava e l’altro seguiva la Nazionale come giornalista.

La moglie di Facchetti senior aspettava un bambino, che poi sarà Gianfelice, e Arpino disse all’allora capitano azzurro: “Se ti servirà un padrino, me lo dirai”. Quando poi andò a trovare mamma e papà Facchetti in ospedale, Arpino si sentì dire: “Pronto per il battesimo?”. Rimase sorpreso. La moglie di Facchetti, Giovanna, rimproverò il marito, reo a suo dire di non essersi spiegato bene. E lui: “Nella vita si dice una cosa ed è quella. Se no che gente saremmo?”.

1974. Arpino. Facchetti. Come ho avuto modo di dire a Treviso, questo non è un libro sul calcio, né una biografia del celebre padre dell’autore, né un libro di risposta alle polemiche sui processi sportivi e penali legati a “Calciopoli”. Io l’ho letto come un libro di viaggio. Scorrendo le pagine ho avuto piacere a leggere racconti, percorsi, incontri e sensazioni dell’autore, a ricercare più quelle dei ricordi dell’illustre “numero tre”.

Un libro che attraverso ricordi di partite di pallone fornisce ottimi assist per parlare d’altro. Il piacere di leggere e/o rileggere articoli di Arpino e Brera. Riscoprire il piacere dei “testi” invece che dei “contenuti”. Dei giornali, dei libri, invece dei “contenitori”. Delle persone, come quello che è raccontato di Sarti, invece che dei personaggi.

Di un paese diverso, che sapeva fare le cose insieme e che fa sorridere. Un mondo in cui Facchetti (inteso Giacinto) si lamentava del fatto che la futura moglie sembrava rifiutare il suo corteggiamento, e glielo scriveva attraverso quelle che allora si chiamavano “lettere d’amore”. “Eri con tuo fratello (juventino, per giunta!)”, le scrisse.

Parla anche di padri e figli, attraverso una doppia se non tripla narrazione, in cui Giacinto Facchetti è campione, padre, nonno. E come padre ha un figlio che a sua volta diventa padre. E così via. Ma è, al tempo stesso, una presenza discreta all’interno della narrazione. Si legge di padri, figli, nonni. Non tutti campioni. Ma si leggono storie che appartengono a tutti, perché tutti le abbiamo vissute con diversi gradi di intensità.

Parla anche del lavoro che faccio: chiacchierando con Gianfelice Facchetti, ricordando dei testi che ha apprezzato, rileggendo grazie a lui un articolo di Arpino, da “La Stampa” del 10 maggio 1978, ho provato un senso di calore. Quello che manca, troppe volte, a quello che faccio io e non solo io. Quel calore che manca nelle “trenta righe” standard, nelle notizie più o meno uguali su diversi siti, nel modo assurdamente strillato e “definitivo” di dare notizie che poi di definitivo non hanno nulla, se non la carta o lo spazio sul server che è stato occupato.

Così ho viaggiato, cercando di capire se ha senso il lavoro che si fa, se ha senso ancora raccontare le partite, ascoltare dichiarazioni di gente che si vergogna a dire di voler vincere chissà perché. Il senso, ho concluso, sta nell’inseguire da soli quegli stimoli necessari a voler cercare qualche bello spunto se non una bella storia da raccontare. Non per il piacere di scriverla per scriverla, ma solo se ha un senso condividerla e se può essere un valore aggiunto leggerla. Chiariamoci, si sta benissimo anche senza le storie, forse soprattutto anche senza le storie di sport, “ma se cambi i personaggi e togli i nomi degli sportivi, gli articoli di uno come Gianni Brera non sono vera, grande letteratura?”.

Questo me lo ha detto Gianfelice Facchetti oggi, e ha ragione. Noi che scriviamo dovremmo insistere di più per provare a scrivere veramente. Scrivere per viaggiare, insieme a quelli che ci leggono. Non sarebbe tutto un po’ più bello e divertente?

Pietro

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