Le Rovine del Gioco

Una volta George Mikan stava rovinando il gioco. Cambiarono le regole. Si chiama evoluzione.

Credo sia giusto partire da questo presupposto per entrare (ammesso che fosse necessario e interessante) in un dibattito che accende o ammorba, punti di vista: la NBA è un circo o è il miglior basket in circolazione? Voler rispondere a una domanda del genere secondo quelle che sono le logiche “nostre” è semplicemente fuorviante, oltre che sbagliato concettualmente. Perché la stessa costruzione tecnica delle squadra, la stessa struttura gerarchica di un quintetto risponde a logiche diverse: come prima cosa, generare business. Giusto o sbagliato che sia, così è: questo non solo crea un Gioco diverso, bisogna sempre tenere a mente che parliamo di Mondi diversi. Un Mondo, quello americano, che è stato sempre modello per quasi tutti. Lo è ancora? Probabile. Ci piace? Ci sono motivi per dire sì e motivi per dire no.

Ogni epoca ha la sua Rovina. Da Mikan in avanti ce ne sono state molte, a mia memoria, che hanno generato mostri se non distrutto carriere a suon di aspettative decisamente fuori portata. Ecco qua, sempre a memoria, alcune di queste Rovine.

Michael Jordan
(6 titoli NBA, 6 volte MVP delle Finals, 5 volte MVP NBA e una valanga di altri riconoscimenti)

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I “nuovi Michael Jordan”, a un certo punto, non si contavano più. Parlando di “His Airness” e di quanto fosse positivamente condizionante per i Chicago Bulls e anche per i Washington Wizards a fine carriera (playoff sfiorati e 20.0 punti di media a quarant’anni), la caccia all’emulo non fece prigionieri. Tutti volevano un altro MJ (e la cosa più vicina a lui sarebbe stata Kobe Bryant), si cercava ossessivamente una guardia di poco meno di due metri, elegante e soprattutto capace di volare.

La sua staccata dalla linea del tiro libero che divenne uno dei brand più importanti in questo business, pero’, diventò il primo requisito per identificare il nuovo padrone del gioco, ignorando molte delle caratteristiche che invece – e giustamente – resero Michael Jordan un esemplare unico.

La vittima più illustre di tutto ciò, forse, fu Harold Miner: classe 1971, si fece notare al college con i Trojans di Southern California, lo stesso college che frequentò Daniel Hackett. Schiacciava eccome! Il drammatico “nickname” Baby Jordan finì col gonfiare le attese (oggi si chiama hype) e di lui si ricordano quattro stagioni nella NBA tra Miami Heat e Cleveland Cavaliers, con le prime due in doppia cifra di media per punti.

Shaquille O’Neal
(4 titoli NBA, 3 volte MVP delle Finals, 1 volta MVP NBA e una valanga di altri riconoscimenti)

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Vi ricordate come dominava Neon Boudeaux nel film Basta Vincere (Blue Chips)? Shaquille O’Neal era lì nelle vesti di attore, ma il suo potere di spazzare via tutti era uguale anche nei campi veri. Il suo fisico, combinato alla tecnica e alle sue incredibili potenza e rapidità, scatenò gli scout di tutto il mondo alla ricerca di supereroi simili o, almeno, di corpi da buttargli addosso. A un certo punto, i candidati avversari dei Los Angeles Lakers di Shaq & Co. non fecero altro che riempire i roster di lunghi (più grossi possibili) con l’unico obiettivo di limitarlo e spendere dei falli su di lui. Frontline infinite che non ebbero, ovviamente, alcun risultato apprezzabile.

Anche qui, non mancarono i tentativi forzati di emulazione: da DeSagana Diop a “Big Sofo” Schortsanitis, ricercati nei Draft NBA come le azioni sulle arance nel finale di “Una poltrona per due”.

I Phoenix Suns di D’Antoni e il “Seven Seconds or Less”
(Record 61-21 nel 2006-07, 55-27 nel 2007-08)

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Uno stile di gioco può piacere o no. Nella fattispecie non sono mai stato un tifoso della formazione di Mike D’Antoni (anzi, al plurale) perché sebbene sia innegabile una influenza rivoluzionaria nel modo di concepire il Gioco, non hanno mai avuto la necessaria consistenza per poter fare il salto necessario che conducesse all’anello. E hai detto poco.

Non va, pero’, sottovalutata l’importanza che il basket giocato da Steve Nash, Boris Diaw e Amar’e Stoudemire abbia avuto e abbia ancora oggi nel contesto della pallacanestro moderna. Ritmo più veloce, campo decisamente più largo, nuovi concetti da mettere a punto perché sebbene non siano riusciti loro a vincere, chi ha vinto negli anni successivi ha adeguato il proprio modo di giocare al passo dei tempi.

Si potrebbero citare altri esempi, come i Sacramento Kings di “White Chocolate” Jason Williams in regia e un tandem regale di passatori tra i lunghi, Vlade Divac e Chris Webber. Un esempio di chi ha saputo adeguarsi? I San Antonio Spurs, passati dal vincere nel 1999 con le “Twin Towers” (David Robinson e Tim Duncan) e un playmaker decisamente poco offensivo come Avery Johnson al festival di “fantasia organizzata” e sfruttamento di transizioni e angoli per le triple di Manu Ginobili, i drive di Tony Parker ecc. ecc.

I Golden State Warriors e Steph Curry
(3 titoli NBA, 2 volta MVP NBA e una valanga di altri riconoscimenti)

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Tra chi riconosce meriti storici a quei Phoenix Suns di Mike D’Antoni c’è Steve Kerr, head coach dei Golden State Warriors. Squadra che ha sublimato l’uso dei tiratori senza distinzione di ruoli, della creatività come metodo, della pulizia tecnica come machete, del ritmo ultrarapido come miglior arma difensiva per far sbandare gli avversari. Vincendo titoli e superando il record di vittorie in regular season appartenuto ai Bulls di Jordan (73 vittorie e 9 sconfitte nel 2016).

Stephen Curry ne é la figura più rappresentativa, i suoi tiri da distanze impensabili vengono additate come causa dell’impoverimento tecnico della mitologica “esecuzione”. Come se poi l’attacco di Golden State ne mancasse. Se lui prende questi tiri è perché li segna, e visto che li segna la sua squadra vince.

Chi dice che è un cattivo esempio per i bambini dovrebbe pensare, casomai, a spiegare loro che ogni giocatore puo’ permettersi ciò che la propria qualità gli concede. Quello che fa Curry, quello che oggi fa James Harden (MVP NBA in carica) con gli Houston Rockets di… Mike D’Antoni. Una squadra che l’altra sera ha stabilito un nuovo record: 70 triple tentate in una sola gara, nel contesto di una partita chiusa al supplementare (53 minuti) con 105 tiri dal campo complessivi e 34 tiri liberi. Molto? Troppo? Eccessivo? Folle? Addirittura offensivo, per molti: tra loro, tanti elogiavano il “Seven Seconds or Less” dello stesso allenatore che, evidentemente, sta esplorando nuovi orizzonti. Magari non vincerà nulla, ma lascerà la sua impronta. Hai detto poco, part two.

Tutto ciò chiama tutti noi, ognuno nei propri ruoli, ad evolvere: evolvere nel Gioco, evolvere nel modo di relazionarsi, evolvere nel modo di pensare, e cioè ricercare e sviluppare l’identità che ci fa sentire comodi. Se è ancora la NBA, bene. Se non lo è, costruiamo o ricostruiamo l’alternativa. Senza demonizzare nessuno solo perché risponde a logiche diverse da quelle che si vorrebbero nelle nostre comodità. Non ci sarà il nuovo Mikan. Non ci sarà il nuovo Jordan. Non ci sarà il nuovo Curry. Ci sarà qualcosa di diverso. Bisogna provare a capirlo prima per essere pronti al prossimo cambiamento. E rispettare i tempi: passato, presente, futuro, dando a ognuno di questi la giusta importanza.

Pietro

La madre dell’etica

L’estetica è la madre dell’etica: quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero,  anche se non necessariamente più felice,  sarà lui stesso

Iosif Aleksandrovič Brodskij
(Premio Nobel per la letteratura)

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Qui si mangia bene, devo portarci Anna“. Qui, è un hotel di Kaunas. Anna nel frattempo è diventata la moglie di Sarunas Jasikevicius, oggi allenatore dello Zalgiris Kaunas, formazione lituana a cui viene universalmente riconosciuto il merito di dispiegare una qualità di gioco, anche estetica, inversamente proporzionale al proprio tasso tecnico per il livello (altissimo) a cui appartiene.

Quella fu una riflessione nata da un semplice “Club Sandwich” alla vigilia dei saluti dopo giorni di intense riflessioni, chiacchiere, confronti. Giorni che hanno reso lontanissimi i primi momenti dopo il benvenuto.

C’era calma, anche troppa. Da una parte diffidenza, la sua, dall’altra soggezione, la mia. Non so dire cosa si diventa in momenti del genere, anche perché fondamentalmente si appartiene a due mondi molto lontani.

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I nostri legami essenzialmente due: un gioco (Il Gioco), una persona. Un agente, un amico. Un genio, come tale con i suoi ineguagliabili spunti e i suoi demoni.

Come quelli suoi, come quelli miei che pero’ definisco meno importanti, meno gravi, meno tutto. Meno, perché quando si fa la parte del tramite è giusto così. Non solamente nel lavoro.

Ci sono quelli che fanno le cose, quelli che le fanno succedere, quelli che le devono – quando sono fortunati – interpretare. Fortunati perché si ritiene che ne abbiano la sensibilità, anche senza saperlo davvero. Dopo tutto non è forse questo il “senso”?

Il ricordo di quei primi momenti destinati a diventare l’inizio della stesura di un libro mi ricorda quotidianamente quanto sia difficile ottenere la cosa più preziosa che un atleta del suo livello ha lasciato nei ricordi degli appassionati: la cultura dell’estetica. Il bello come mezzo per raggiungere l’eccellenza.

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Lo sport, come l’arte, come la cucina, come qualunque materia, diventa eccellenza quando abbina alla consistenza e alla sostanza anche la bellezza. Nel gioco di Sarunas Jasikevicius la bellezza era essenziale e mai superflua, era una “bellezza funzionale”.

Partendo da un fisico assolutamente nella media, per struttura e dimensioni, per essere più forte in un mondo popolato da gente che andava al doppio o al triplo della velocità bisognava essere essenziali e semplicemente belli: una giocata sopraffina non era un’esaltazione egoistica ma l’unica cosa possibile da fare.

Ai giovani (intesi come giocatori, studenti, aspiranti non nullafacenti – che non consiste nel possedere un dato titolo di studio) bisogna spiegare il senso dell’estetica.

La fatica fatta per dipingere. Per scolpire. Per creare dimore e palazzi storici. Queste cose lasciano basiti tutte le volte, se ci si ferma a pensare ai mezzi a disposizione per la costruzione e alla perfezione di certi dettagli.

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Come per lo sport, come per la letteratura, come per il giornalismo o la meccanica, qualsiasi cosa rasenti la perfezione, qualsiasi cosa stupisca per la propria forza estetica è stata ottenuta a suon di immensi sacrifici.

Spiegare il costo pagato in fatica per raggiungere l’eccellenza, il bello.

Se non si capisce questo, impossibile arrivarci.

Se non si spiega, si commette l’imperdonabile errore di rinunciarci.

Pietro

Nelle foto:

  • Sarunas Jasikevicius durante un time-out
  • Lo chef Massimo Bottura
  • Un tempio delle rovine di Selinunte in Sicilia

Che significa un vetro rotto?

vetro_rotto

“People tend to play in their comfort zone, so the best things are achieved in a state of surprise, actually”.

Brian Eno

Un vetro rotto è brutto, qualcosa che richiama a una violenta contrapposizione.

Un vetro rotto è bello, richiama all’idea della libertà, della violazione delle barriere più ingiuste.

Un vetro rotto è paura, di qualcuno che abbia voluto invece violare il nostro spazio, le nostre cose, il nostro mondo.

Un vetro rotto è sorriso, conseguenza di quei giochi che ultimamente si fanno sempre meno.

Un vetro rotto è il segno di un sentimento disperato.

Un vetro rotto è l’inizio di qualcosa, di una ricostruzione.

Un vetro rotto è pericoloso perché ti taglia.

Un vetro rotto è stimolante perché al posto suo decidi tu cosa mettere.

Un vetro rotto è una lacrima, e proprio come essa significa tante cose.

La bellezza

Chi gioca per vincere è ossessionato dalla bellezza.
La bellezza arriva attraverso una fatica emotiva, nervosa, fisica, mentale, assoluta.
La fatica che occorre per raggiungere la bellezza non si può delegare.
L’etica della bellezza prevede il rifiuto di tutto ciò che non sia perfetto.
La ricerca della perfezione non ha e non può avere una data di scadenza.
La conseguenza di questa ossessione è la vittoria.
La vittoria si raggiunge solamente seguendo questi princìpi.
Chi gioca per vincere lo sa, gli altri no.

La bellezza di qualsiasi tipo, nel suo sviluppo supremo, eccita sempre l’anima sensibile fino alle lacrime.
(Edgar Allan Poe)

Tornare a scuola

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(Photo by Feliphe Schiarolli on Unsplash)

Lavorare come dirigente nel mondo della comunicazione sportiva mi ha offerto la possibilità, del tutto inattesa e affrontata con curiosità, di tornare a scuola ma dalla parte della cattedra, nel quadro di programmi di alternanza Scuola-Lavoro.

L’argomento delle lezioni doveva essere nientemeno che il mio lavoro: come si comunica e perché, quali strumenti utilizzare, come scegliere tempi, modi e soprattutto argomenti, quali percorsi intraprendere per questo tipo di carriere, eccetera.

Il primo scoglio da affrontare, pur trattandosi di piccoli centri dove realtà sportive di alto livello erano già ben radicate e strutturate, è stato avvistato ancora prima di intraprendere la navigazione: cosa sapevano i ragazzi del mio lavoro, del perimetro all’interno del quale dovevo muovermi per compiere il dovere che mi era stato affidato?

Poco. Vicino allo zero.

La domanda da porsi è stata: perché?

La risposta ha molte facce: sicuramente una prima responsabilità, ma non l’unica e come vedremo nemmeno la principale, è del club/istituzione sportiva. Se non è arrivato con la giusta intensità al suo target preferenziale (i giovani tra i 14 e i 18 anni), sicuramente aveva sbagliato qualcosa.

C’era, però, molto di più: mai come oggi le persone hanno accesso in tenera età al mondo delle informazioni, basta guardarsi intorno e constatare quanti bambini hanno in mano uno smartphone o un tablet.

Ciò non corrisponde, però, a un utilizzo “proprio” di questi mezzi, perché se è vero che pochi clic bastano a raggiungere qualsiasi informazione è vero anche che non tutti i “contenuti” sono “informazioni”. Questo è ben visibile attraverso il fenomeno delle “fake news”, autentica depravazione del cosiddetto “Quarto Potere”.

Ho deciso così, in accordo con i docenti che seguivano le lezioni di cui sopra, di cambiare totalmente approccio e iniziare tutto da zero. Alla comunicazione saremmo arrivati dopo, forse.

Bisognava prima intraprendere un dialogo con gli studenti, che non vanno mai demonizzati ma sempre e solo sostenuti, anche con durezza, anche al limite della provocazione, perché stimolare lo spirito umano richiede a volte di scavare profondamente per scatenare reazioni.

Reazioni: di che genere? Non ho cercato l’unanimità e nemmeno il consenso. In certi casi sono andato allo scontro. Perché? Era necessario. A volte quello è il linguaggio giusto per ottenere da una persona la propria attenzione, il rispetto (non tanto della persona ma almeno del ruolo e del compito) e di conseguenza un risultato, che a volte arriva sotto forma di rivalsa. Va benissimo, purché si faccia costruttivamente un passo avanti.

Scontro: di che genere? Non fisico, e ci mancherebbe altro. Scontro intellettuale. Costringere a una riflessione, a un pensiero su qualcosa che fino a quel momento non si conosceva o, molto peggio, si riteneva inutile, non degno di attenzione.

Obiettivo: quale? Uscire dall’apatia. Non interpretare quelle ore in classe o in azienda (cioè all’interno del club, per far conoscere realmente le dinamiche di quell’ambiente) come semplici faccende da sbrigare per apporre una firma e quindi ottenere una qualche attestazione o compenso. Doveva avere un senso.

Come arrivare, dunque, a parlare in maniera specifica di comunicazione e quindi di comunicazione sportiva? Non so dire se siamo davvero arrivati a farlo, posso però affermare che molti di quegli incontri sono stati proficui soprattutto per me, per imparare cose del mondo dei ragazzi, della scuola, di come diamo per scontate tante cose.

Dicevo, oggi si ha accesso a tutto con enorme facilità: avrei scritto disarmante e non sarebbe stato sbagliato. Perché l’accesso a queste informazioni avviene spesso in maniera del tutto disarmata. Molti adulti (e basta leggere alcuni post su Facebook) difettano di reale comprensione del testo, in primis perché difettano della capacità di scrivere nella forma più appropriata. Critica eccessiva? Qualcuno potrà pensarla così, ma scrivere è una abilità che si apprende e si coltiva (allena), chi non lo fa perde dei pezzi e risulta meno comprensibile, meno efficace e meno appropriato, come in qualunque altro campo.

Per non essere disarmati oggi e quindi non appropriati domani va completamente ripensato (ammesso che ci sia già pensato) il modo di avvicinare le persone allo strumento digitale, alla consultazione delle informazioni, alla ricerca degli approfondimenti.

Ripensare, in sostanza, il modello educativo come è richiesto dai tempi attuali. Ripensarlo com’è stato fatto sempre nel corso della storia di questa curiosa specie alla quale apparteniamo. I gesti, i segni, le parole, la carta, eccetera.

Il mondo si è evoluto e con esso la gestione delle informazioni, nonché la quantità. L’aumento della quantità, però, non corrisponde a quello dell’attendibilità. Servono delle guide, delle istruzioni, dobbiamo essere noi, soprattutto deve esserlo la scuola.

La conseguenza, altrimenti? Entrare in una classe, trovarsi davanti degli individui che non ti ascolteranno nemmeno, per il semplice motivo che non hanno idea di ciò che gli stai raccontando.

Possiamo sederci e pensare che sia sempre colpa loro, perché “non ascoltano”. Oppure alzarci, dalla sedia e anche scuotendoci intellettualmente, e chiederci se invece siamo noi ad aver parlato bene.

Pietro

Quanti sono i libri?

LibriQuanti sono i libri che non abbiamo letto?

Quanti sono quelli che abbiamo comprato, sfiorato, accarezzato e una volta a casa mai aperto?

Quanti sono i libri che abbiamo comprato perché andavano comprati ma non sapevamo realmente il motivo?

Quanti sono i libri che sono realmente piaciuti e che rileggiamo dalla prima all’ultima riga?

Quanti sono i libri che fa piacere avere, indipendentemente dalla destinazione?

Quanti sono i libri che vorremmo aver scritto?

Quanti sono i libri che vorremmo non avessero scritto?

Quanti sono i libri che insegnano qualcosa?

Quanti sono i libri che fanno stare peggio?

Quanti sono i libri che guardiamo e non sfogliamo per il fastidio preventivo del loro contenuto?

Quanti sono i libri che abbiamo in casa?

Quanti sono i libri che abbiamo prestato?

Quanti sono i libri che abbiamo perso?

Quanti sono i libri che vorremmo leggere insieme a qualcuno?

Quanti sono i libri che vorremmo comprare e leggere senza che nessuno lo sappia?

Quanti sono, i libri?

La musica e la macchina

Unicorn

Dovessi indicare una playlist ideale, saprei cosa scegliere.

Dovessi indicare la mia canzone preferita, anche.

La mia voce maschile preferita. Quella femminile. And so on…

C’è una cosa che però disturba e differisce da tutto questo e che non è mai uguale.

Si tratta della musica che ascolto, e che probabilmente ascoltiamo, durante i nostri viaggi solitari in macchina.

Che sia per lavoro, spesso, per piacere o per qualsiasi altra ragione, metti la cintura, giri le chiavi della tua auto, accendi la radio.

Sono in vita da un tempo sufficiente per ricordarmi di quelle con le cassette, che dopo aver parcheggiato tiravi fuori e nascondevi sotto al sedile o nel cruscotto per paura che qualcuno ti aprisse la macchina (se non che rompesse un vetro) pur di rubarla e rivenderla. Allora succedeva, perché c’era un mercato.

Quello era ancora il mondo delle cassette, dei walkman. Poi arrivarono i cd, poi i primi lettori mp3, poi il bluetooth… Insomma, tutto è cambiato, tranne una cosa: se quel mercato esisteva (quello delle autoradio), mi piace credere che una delle ragioni fosse semplice, e cioè che fossero preziose. Era preziosa la loro funzione, cioè ascoltare buona musica nella solitudine della propria auto.

Questo vale ancora oggi, indipendente dalla modalità di fruizione.

Una volta chiusa la portiera, una volta deciso che quel luogo non è più solamente un mezzo di trasporto ma anche una sorta di bolla, parte anche la musica.

Quella preferita? Certo.

Quella buona? Anche.

C’è però anche quella musica che ascoltiamo, addirittura canticchiamo se non urliamo, e che non ascolteremmo, canteremmo, urleremmo mai in presenza d’altri.

Questo perché non incontra il gusto collettivo? Forse, ma non solo.

Forse nemmeno a noi piacciono davvero, quelle canzoni, però contano qualcosa, ci hanno coinvolti, interessati, stimolati in qualche modo in determinati momenti.

Sono canzoni che ascoltiamo e ascolteremo sempre da soli, che per qualche motivo ci fanno stare bene.

Sono come i pensieri che abbiamo tutti (tutti, nessuno escluso), quelli che non confidiamo. Li abbiamo, li teniamo per noi, ce li raccontiamo, commettiamo qualche piccolo peccato per autoassolverci o per deprimerci, ci facciamo una domanda e ci diamo una risposta.

Siamo così, siamo questi, abbiamo dei limiti, delle aspirazioni, delle fantasie, che non vogliamo condividere. Che faremo intuire, forse, ma che non confesseremo mai.

Fanno parte di noi, per quel confronto necessario con il proprio essere, proprio come quelle canzoni.

E non si parla di chissà quali segreti, semplicemente sono cose che abbiamo dentro e che derivano dalla nostra esperienza. Sono quelle che ci permettono di prendere o non prendere delle decisioni, di fare o non fare delle scelte, di essere o non essere di buon umore.

Sono come un filtro, come quello del caffè ad esempio: si sporca, trattiene ciò che non è utile far uscire ma è necessario che esista.

E voi come siete messi a “Guilty music”?

Pietro

Road Trip.

Viaggio_Bus

L’ora della sveglia è, più o meno, sempre quella.

Che sia per andare a seguire l’allenamento o per affrontare un viaggio.

Una tipica e battistiana giornata uggiosa mentre una volta sceso dall’auto inizi a sentire i rumori che ti ricordano quello che sta per succedere: altre auto in arrivo, gomme che pestano qualche pozzanghera e foglie ormai imbevute di acqua piovana, tonfi di un borsone che termina il suo breve lancio dalla mano di un indistinguibile ragazzo incappucciato, altri tonfi, quelli di portiere chiuse con quel misto di vigore e delicatezza che può scaturire solo la mattina, quando nella tua testa metti ordine tra le seguenti cose: il rimpianto di aver lasciato un letto che immagini ancora tiepido, la rassegna mentale (giunta alla decima edizione in poco più di sei minuti) per ripassare tutto ciò che puoi aver eventualmente dimenticato, la raccolta della lucidità e della brillantezza necessarie per essere vispo e giulivo* e relazionarti con chiunque possa chiederti istruzioni, chiarimenti, un saluto o più banalmente di prendere un caffè.

Un sabato così, quando la trazione delle ruote di un bus mette in moto non solamente un automezzo ma un processo di situazioni, idee, conversazioni, dormite e varie possibilità per raccogliere aneddoti da raccontare al ritorno.

All’inizio di una trasferta c’è una cosa che appare lontanissima, ed è la partita. Ci sarà tempo e modo, una volta più comodi.

Per quanto lontana, però, è un pensiero presente: è il motivo che ha riunito una serie di persone anche molto diverse tra loro per età, caratteristiche, trascorsi, visioni e aspirazioni. Quella cosa che banalmente si chiama “squadra” è composta da moltissimi elementi, ed è difficile – anche in corso d’opera – sapere quali sono quelli giusti affinché, per dirla alla francese, la maionese riesca bene.

Chimica, con matematica. Un concetto espresso un paio d’anni prima commentando la foto di un altro gruppo, un’altra squadra che solo a tratti fece vedere di cosa fosse capace perché solo a tratti riuscì a capirsi.

Il punto, spesso, è tutto qua: capirsi. Non necessariamente parlarsi ma sicuramente ascoltarsi. Ascoltare anche l’espressione di un volto in un dato momento può far girare una giornata, magari una partita.

In viaggio, dunque, è sempre la cosa più interessante che possa capitarti anche quando non succede niente, perché se non fossi partito non avresti nemmeno saputo che lì, in quel momento, ti saresti annoiato.

Avresti rinviato l’appuntamento con la noia invece di avere l’opportunità di conoscerla e quindi trovare il modo di dialogarci: correggere un comportamento, una abitudine, qualche dettaglioche nel prossimo viaggio la tenga lontana, o quantomeno ne riduca la presenza.

Azzerarla no, perché anche la noia serve. Serve a capire la differenza che c’è quando non ci annoiamo. Serve a farci prendere meglio coscienza di quello che amiamo fare, proprio quando non  lo stiamo facendo.

Un viaggio, tante volte, è tutto qui.

*: citazione dalla telecronaca di Nicolò Carosio di Inter-Real Madrid, finale di Coppa dei Campioni 1964, in riferimento al portiere nerazzurro Sarti in procinto di effettuare un rinvio da fondo campo.

Pietro

Back.

Si torna a scrivere.”

Si torna a scrivere?

Si torna a scrivere!

Parole identiche e un dettaglio diverso tutte le volte. Il punto, inteso come punto di vista.

Si torna a scrivere perché se uno comincia poi continua, no matter what.

Si torna a scrivere, che cosa lo vedremo poi.

Intanto, rieccoci qua, con un vecchio archivio e una immagine alla quale mi ero affezionato, legata a un giocatore molto, molto, molto particolare in tutti i sensi.

Ugly Sister’s back (for good?!)

Pietro

Gli allenatori che scrivono

Scrivo queste righe senza conoscere il risultato della partita tra Agrigento e Torino. Non perché non abbia importanza quel che avviene la domenica, e in questa partita in particolare, ma semplicemente perché ritengo che come in tutte le cose non possa e non debba essere un singolo momento a determinare il pensiero complessivo su una squadra o, come più piacevolmente mi piace considerarla, su un gruppo di persone.

Franco Ciani, con la sua nuova rubrica del sabato, me ne ha dato la voglia. Non sono tanti gli allenatori in grado di condividere, chi per natura umana e chi invece per impostazione professionale. Allenare, come scrivere, è del resto un’attività che impone a chi la fa di metterci tanto del proprio, un vero e proprio investimento emotivo. Ragion per cui, non tutti possono farlo allo stesso modo.

In questi giorni Marco Crespi ha presentato il suo “#somethingdifferent”, il libro che racchiude le emozioni e le storie vissute dal coach durante la sua ultima stagione senese. Ho sempre molta ammirazione per gli allenatori che scrivono, che accettano di violare quella “privacy” difesa talvolta con una forza e un’ostinazione talmente forte da apparire – ai più – persino esagerate.

No, non è una critica a chi non lo fa. È un omaggio a chi ne ha il coraggio. Un allenatore, nella percezione generale, è la somma dei suoi risultati. Buoni e cattivi. Giudicato superficialmente per quello che c’è scritto sul tabellone alla fine delle partite, o per quello che dice la classifica. Allenatori bravissimi hanno perso tanto, allenatori meno bravi hanno vinto il doppio. La vita di questo mestiere è piena di queste storie e anche di leggende, in questo senso. Ma chi è un allenatore bravo? Il giocatore bravo? È solo quello che vince? Che vince cosa? Che vince quanto?

Se il metro di giudizio è la vittoria, il risultato, allora non basta mai. Perché puoi vincere l’Eurolega per dieci anni di fila, ci sarà comunque l’undicesimo da affrontare e non sai mai se sarà la stagione peggiore della tua vita. Allora ci sarà sempre qualcuno che dirà che non hai vinto tu, ma perché avevi una grande società alle spalle, o dei bravi assistenti, o allenavi/giocavi con dei fenomeni e allora sono buoni tutti. Lo stesso dovrebbe valere al contrario, superficialità per superficialità, ma non è sempre così. Anzi. Dopo tutto, meglio così.

La verità è che ridurre l’allenatore o il giocatore al numero di trofei in bacheca è del tutto svilente. Vincere non basta, e non è affatto l’unica cosa che conta. Altrimenti il basket non sarebbe un gioco così meravigliosamente razionale e irrazionale al tempo stesso, non sarebbe insieme scienza e passionalità, calcolo ed emozione. Non avrebbe quella capacità di rapire i cuori che invece gli appartiene, e che tiene in piedi tante persone in tutto il mondo che hanno un’unica visione e un’unica passione.

Il basket (e lo sport di squadra, in generale) vive di una sua particolare magia, è come l’arte, è come musica. È impossibile, però, separare le figure dell’allenatore e dei giocatori. Non siamo alle prese con un pittore e la sua tela, con un musicista e il suo spartito. Fanno tutti parte della stessa cosa, sono la stessa cosa. Quale che sia il risultato finale, sarà comunque il frutto di una importante esperienza umana. Collettiva. È un concetto solo apparentemente banale.

Ho letto l’ultimo articolo di Franco, e ho ripensato alla nostra conversazione di qualche giorno fa a Biella, dove al netto di una partita da giocare e da guardare erano ben altri i pensieri che avevamo in testa. Si parlava proprio della sua rubrica, di come scrive e del perché. E del fatto che scrivere adesso, in questo particolare momento di difficoltà della sua squadra, è oltremodo complicato.

“Uno potrebbe dire: che fa questo? Perde e ce la spiega?”. Non c’è nulla da “spiegare”, anche perché non tutti hanno poi la sincera curiosità di comprendere ciò che davvero può portare alla vittoria, alla sconfitta, alla riuscita o al fallimento di un’impresa sportiva. Forse non sarebbe nemmeno giusto pretenderlo, sono cose che fanno parte del gioco. Un gioco meraviglioso, non bisogna dimenticarlo mai.

Pietro