Il fascino del time-out

Il time-out è una sorta di riunione di lavoro flash per chi si occupa di pallacanestro. Da un singolo time-out può dipendere la sorte di una partita e  a cascata di una stagione. Per questo mi affascinano i grandi orchestratori di time-out e tra questi un “emergente” bravissimo è Porfi Fisac, allenatore del Fuenlabrada. Questo il time-out nell’ultima gara contro il Real Madrid (che ho avuto la fortuna di commentare), guardate cosa dice ai suoi giocatori, guardandoli negli occhi.. (andate a 50 sec).

LA LEY SAGRADA di PORFI FISAC

 

E qual è il vostro time-out memorabile? Non vale citare quello di Pianigiani durante Italia-Israele..

MG

Sostiene Devis Mangia (su W.S.)

Sostiene, l’ex allenatore del Palermo (che poi non avrebbe nemmeno dovuto esserlo ma vabbè, si sa che con Zamparini tutto è possibile) che un allenatore di calcio dovrebbe adeguare il sistema di gioco della propria squadra alle qualità dei giocatori che ha a disposizione. Pensa te.

Il problema che gli era stato posto (durante una “ospitata” su Sky Sport 1): l’utilizzo di Wesley Sneijder.

Un giocatore la cui mancata nomina come candidato per il Pallone d’Oro 2010 ha destato scandalo, un anno dopo era il problema dell’Inter perché non rientrava nel 3-4-3 di Gasperini. Oggi non rientra nel 4-4-2 di Ranieri. Domani, magari, nel 4-5-1 di un altro.

Di qui il ricordo di non so più quante telefonate tra colleghi, piuttosto che con un agente o un allenatore di basket sull’opportunità di prendere tal giocatore “che non gioca il pick and roll”, “che non segna da fuori”, “che non gioca spalle a canestro”. Magari non gioca il pick and roll MA è un fantastico giocatore di back-door. Magari non segna da fuori MA segna da dentro (questa l’ho presa in prestito. Grazie Ste). Magari non gioca spalle a canestro MA ci gioca di fronte.

Perché il punto sembra essere sempre ciò che un giocatore non è in grado di fare. Poche volte, invece, si cerca di assimilare ciò che sa fare per rendere funzionale il suo talento per un sistema di gioco vincente, anche solo ragionando a livello teorico. Claudio Ranieri dice: “Sneijder deve parlare la lingua della squadra”. D’accordo, questo poi è il presupposto fondamentale per qualunque giocatore di qualunque squadra.

Però davvero Sneijder deve parlare la stessa lingua di Obi, per fare un esempio? Non il contrario, piuttosto?

Non credo che questa sia una discussione circoscrivibile solamente al calcio. Per me c’è molto altro. Il problema italiano di (non) proiettarsi verso l’eccellenza, di (non) guardare all’innovazione, di (non) puntare alla crescita collettiva attraverso la formazione e l’organizzazione di individualità migliori. C’è sempre una specie di “ragion di Stato” che mitiga gli entusiasmi e livella tutto verso il basso, da un punto di vista qualitativo.

Nel calcio italiano, insomma, Antonio Nocerino diventa una stella nella stessa stagione in cui Wesley Sneijder diventa un problema. Con il massimo rispetto per l’ottimo centrocampista del Milan e della Nazionale italiana, solo io ci vedo qualcosa che non va? Non si tratta di moduli, o di idee tattiche. Si parla di visioni. E a mio parere quelle “nostre” vanno sempre dalla parte del tentativo di conservare, di sfruttare quelle tre o quattro cose che sappiamo perché insegnarne (e impararne) di nuove costa una fatica anche di intelletto che non tutti siamo pronti ad accettare (nessuno escluso, nemmeno i presenti), sacrificando qualche comoda sicurezza.

Stasera a Radio Sportiva, che ringrazio per l’ospitalità e l’opportunità di parlare del libro che ho scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice, mi hanno chiesto cosa è mancato all’Inter nell’ultima stagione e mezza. Credo che sia  mancata prima di tutto l’idea forte sulla quale costruire la squadra. Si rifonda? Non si rifonda? Si cambia allenatore? O no? Si cede Sneijder? O Eto’o? Si prende Tevez? E Palacio? E Kucka? E Benitez? E Leonardo? E Gasperini? E Ranieri? In cuor mio sono sicuro che c’è una persona in grado di darmi la risposta giusta a tutti questi quesiti: il mitico  “Martellone”.

Pietro

SIENA, CANTU’, L’ITALIA, L’EUROPA E LE ENERGIE

Ammirato dalla devozione con cui Pietro ha approcciato la nuova avventura-blog con una prima giornata di intensa produzione, e onorato di essere stato invitato a contribuire, esordisco e provo a metterci del mio con una delle classiche chiacchiere da bar sport: il doppio impegno settimanale.

La sparo subito: complimenti a Siena e a Cantù per il modo in cui lo hanno gestito fin qui, regalando ai loro tifosi e agli appassionati serate epiche in Europa, attingendo a quelle energie (fisiche, ma direi soprattutto nervose) che hanno risparmiato in campionato, fregandosene di non fare una stagione da record in Italia.

Siena ha visto negli anni scorsi quanto il cannibalismo italiano possa erodere energie che le avrebbero fatto comodo in Europa, per quanto già l’hanno scorso abbia esibito una prova di maturità nella gestione del tutto. Fare bene sia di qua che di là è impossibile o quasi, può capitare piuttosto di fare molto male sia di qua che di là (vero Milano?).

Sia chiaro, se io adesso ponessi la questione a Pianigiani o Trinchieri sono sicuro che mi guarderebbero come se gli avessi offeso il congiunto più caro. Capisco che scegliere le partite non è il messaggio migliore da lanciare a gruppi a cui chiedi continuamente di non mollare un possesso. Vorrà dire allora che sarà un processo inconscio, lo accetto, ma non ditemi che non succede: lo dicono i numeri.

Nel 2012 Siena ha perso tre delle sei partite di campionato giocato, oltre al fatto che le cinque sconfitte fin qui sono già il massimo stagionale da che c’è Pianigiani in panchina. Cantù poi è dall’inizio dell’Eurolega che tiene una media di poco superiore al 50% di vittorie in campionato: ha perso due delle ultime quattro partite, cinque delle ultime undici e sette delle ultime tredici: l’anno scorso ne perse otto in tutta la regular season.

Due squadre che in campionato hanno accettato l’eventualità della sconfitta più di quanto il loro status di top team potesse concedere loro, senza perdere il capo o aprire crisi, vivendo cadute inaspettate con la rabbia di chi non vorrebbe mollare niente ma anche con l’intelligenza di capire quello che è più importante.

Non ce ne vogliano Caserta, Pesaro o Venezia che hanno battuto la Montepaschi o Casale, Montegranaro e Sassari che hanno battuto la Bennet: senza questo cambio di mentalità, forse le loro imprese non ci sarebbero state, o almeno non tutte. Quanto ha pagato Siena? Comunque oggi è prima. Non ha già vinto la regular season con un girone d’anticipo, pace. Quanto ha pagato Cantù? Comunque oggi è terza a -4 da Siena e a -2 dal secondo posto. Alla seconda di ritorno un anno fa era comunque terza a -2 dal secondo posto e il primato era ancora più lontano, 8 punti.

D’altra parte l’equilibrio è sottile: ci vuole una dose notevole di maturità per vivere le sconfitte evitando che intacchino quella mentalità vincente che si lavora ogni giorno per consolidare. Probabilmente ci si arriva non dico alla fine di un ciclo, ma insomma quando la vita di un gruppo è a un punto tale che non c’è più da preoccuparsi della costruzione ma delle rifiniture.

Forse non lo decidono gli allenatori, che non possono lanciare messaggi sbagliati, ma lo decidono il fisico e a volte la testa dei loro giocatori più esperti: alcuni hanno già vissuto queste situazioni. Ma se oggi Siena e Cantù “vedono” l’ingresso tra le prime otto d’Europa e non sono visionarie a immaginarsi un percorso per entrare tra le prime quattro è anche grazie a questo.

Beppe Nigro

Doron Perkins e il Maccabi Tel Aviv

Mentre leggevo da più parti che Doron Perkins andrà a giocare per la Bennet Cantù, mi sono ricordato di questo bel video.

Infortunatosi in maniera molto seria negli ultimi playoff di Eurolega contro il Caja Laboral Vitoria, Perkins non poté essere d’aiuto al Maccabi Electra Tel Aviv per raggiungere la finale, poi persa.

Dalla sua stanza d’ospedale, però, prima di gara-4 di quella serie contro i baschi aveva inviato questo messaggio ai suoi compagni di squadra di allora:

Firmasse a Cantù, potrebbe giocare magari la prossima a Tel Aviv, per provare ad aiutare i brianzoli a qualificarsi ai playoff eliminando proprio la squadra di David Blatt.

Sarebbe una bella storia, rivederlo in campo proprio lì.

Pietro

Basket Kitchen

C’è una ricca collezione di Superbasket nella mia vecchia casa di campagna. Ho il numero 1, il numero 2, il numero 3…vent’anni di uscite nascosti in un solaio. Su Superbasket c’è il primo articolo di Federico Buffa, che convinse Aldo Giordani con una storia scritta sul playground di UCLA. C’è anche il pezzo in cui ci fece conoscere la CBA, diviso in due parti. Memorabile. Per anni sono stato un fedele collaboratore di Enrico Schiavina per le minors: quattro, forse cinque stagioni, fino a quando entrai nella stanza dei bottoni per sostenere un colloquio di assunzione. Se n’era andato Marco Valenza e serviva una penna in più oltre a Limardi-Valenti-Gotta-Benzoni-Schiavina. Lo ammetto, nutrivo grandi speranze, ma scelsero uno più bravo di me (Giancarlo Migliola). Venni però segnalato alla Virtus Bologna e la settimana successiva ripresi la macchina per sostenere un altro colloquio: bisognava solo dire di si, per entrare nell’area comunicazione di società…

View original post 140 altre parole

Si faccia TUTTO il possibile per Superbasket

Siccome so per esperienza cosa si prova a perdere un lavoro, ma soprattutto a perdere qualcosa per cui si fanno delle scelte (anche di vita, anche radicali) per permettere a una passione personale di essere condivisa con tanti, e di contribuire con il proprio lavoro a farla crescere, a “seminare” per raccogliere nuovi adepti (oggi si direbbe “followers”), per spiegarla a chi non la conosce, per raccontare cose nuove a chi già ne sa. Siccome so cosa ho provato quando mi è stato detto che “Dream Team” avrebbe chiuso i battenti, allora chiedo a tutti coloro che ne hanno l’interesse (dai singoli club, alle leghe, ai dirigenti dei suddetti club, agli stessi giocatori, ai tifosi, agli editori) che si faccia – mi ripeto – TUTTO il possibile per Superbasket.

Perché può piacere o meno, la si può leggere o meno, ma se il basket italiano perde anche l’ultima rivista dedicata possiamo anche smetterla di chiamarlo movimento, perché senza dibattito, senza analisi, senza un minimo di “scambio” intellettuale tra giornalisti, tifosi, giocatori, allenatori e dirigenti non esisterebbe più, e già fa una fatica bestiale.

Mi ripeto di nuovo: non è necessario condividere quanto scrive settimanalmente Superbasket. Però è necessario che continui a scrivere. E sono molto felice che il direttore Claudio Limardi mi abbia dato la possibilità di contribuire con un mio articolo nell’ultimo numero, attualmente in edicola.

Da ragazzo, in Sicilia, Superbasket rappresentava la mia finestra sul basket dei miei sogni, quello lontano dalla C e B2 maschile che ero abituato a vedere ogni domenica. Mai avrei pensato, un giorno, che avrei potuto scriverci sopra, e ne sono davvero felice. Sarebbe gravissimo se oggi, a Porto Empedocle o in qualunque altro posto, un altro ragazzo non potesse più “sognare” il grande basket, qualora ne fosse appassionato, attraverso una rivista che ha trent’anni di storia.

Pietro

La lettera pubblicata dalla redazione sul settimanale

Prova. Prova. Prova. Ssssà. Ssssà. Prova.

È il momento di cominciare a scrivere su questo blog, visto che il dominio è stato pagato. Come nello stile di chi ci ha messo questi quattro, di soldi, stavolta pochi davvero, si apre con una faccia assolutamente non definitiva. Piano piano metto tutto a posto, non che questo sposterà di una virgola il valore di ciò che verrà scritto qui.

Non è un “portale”, nemmeno un “contenitore”. Non è un giornale on-line, se per giornale si intende una cosa che viene aggiornata con regolarità svizzera. È solo un modo che ho trovato per scrivere quello che penso in più di centoquaranta caratteri. Questo fa di me un blogger? Non so.

Comunque, per educazione, mi presento: sono Pietro, collaboro per diverse testate giornalistiche e mi occupo di sport. Penso di capirne almeno un poco, come tutti quelli che fanno un lavoro del genere, ma non è per nulla garantito che sia vero.

Manca il cognome: Scibetta. Non lo scrivo perchè ha importanza, ma – come scritto sopra – per educazione. Detesto i siti e i blog anonimi, quelli che alla voce “contatti” nella migliore delle ipotesi indicano solo info@.

Di che scriverò? Di quello che mi piace, principalmente ciò di cui mi occupo per lavoro. Perché? Perché sì. Perché no? Solo io? Ho invitato due amici. Ne inviterò altri. Poi, chi vuole può intervenire. Perchè questo nome al blog? Perchè il coro dei tifosi dei Celtics dedicato al legame amoroso tra Lamar Odom e Khloé Kardashian è meraviglioso. E lo è pure Lamar, per tutti i pregi e i difetti che lo contraddistinguono nell’interpretare il gioco del basket.

Chiudo questa premessa con qualche nota: è morto Angelo Dundee, il mitico allenatore di Alì. Poco tempo fa è morto Joe Frazier. Per molti la boxe si è fermata all’epoca in cui questi due erano all’apice delle loro carriere: uno all’angolo del “greatest of all time”, l’altro suo avvesario sul ring. Il calcio italiano ha scoperto ancora una volta la sua faccia surreale, facendosi sorprendere per l’ennesima volta dall’ovvietà che d’inverno nevica e fa freddo. Tre-zero, due-uno, zero-tre. Siena, Cantù e Milano nelle Top 16 di Eurolega di basket, probabilmente ne riscriveremo. Intanto, però, complimenti sinceri ad Andrea Trinchieri, perchè alla sua prima stagione da head coach in Eurolega ha già vinto contro Ivkovic, Ivanovic e Blatt. Più o meno ora è chiaro di cosa scriverò (spero -emo) qui.

Al prossimo post, quello vero, questa era una prova per vedere come funziona l’applicazione di WordPress su iPad. Direi bene.

Pietro