Sul “fallimento” di Luis Enrique

Mi colpisce chi ha commentato, commenta e commenterà la scelta di Luis Enrique di lasciare la Roma elogiandone la dignità di fronte al “fallimento”.

Io credo che mai come nel calcio – e mai come in Italia – si abusi di questa parola, che è molto pesante, e credo anche offensiva.

Cosa avrebbe fallito Luis Enrique? Ha perso qualche partita più del dovuto o ne ha vinta qualcuna meno del dovuto, può essere.

Che aveva in testa Luis Enrique? Fare quello per cui era stato chiamato: provare a costruire una squadra a sua immagine e somiglianza, esercizio che nella sua professione (ed è la SUA professione) richiede tempo, anche tanto, soprattutto in un contesto ambientale e tecnico in cui doveva iniettare delle idee molto diverse da quelle che solitamente si era abituati a seguire. Vale il concetto per i giocatori, per i tifosi, per i media, per tutti quanti. Vale anche per lui.

“Fallimento”. Ogni sconfitta è un fallimento. Un rigore pro è un “favore”, un rigore contro è un “torto”. Vincere con un tiro in porta è “carattere”. Perdere colpendo due traverse “mancanza di cinismo”. Così si pensa, di norma, quando si parla di calcio. Che non è un gioco, non è un business, non è uno sport: per molti è ancora una valvola di sfogo. Sono ancora troppi coloro che pensano che siccome ognuno ha i suoi problemi dal lunedì al sabato, la domenica ha pure il diritto di scaricarli addosso ai calciatori (più spesso che agli altri sportivi), che sono viziati, strapagati, stronzi. Ma solo quando perdono, altrimenti caroselli.

Arrivare settimi con una squadra da settimo posto (perché la Roma questo è, al netto delle prestazioni individuali di molti dei suoi giocatori e non solamente per lacune tattiche che comunque andavano colmate) non è un “fallimento”. E non lo era per la A.S. Roma, che avrebbe confermato l’allenatore alla guida della squadra. Non lo era per i suoi giocatori, che hanno speso più di una parola a favore di Luis Enrique.

Il quale ha anche una carriera da grande giocatore alle spalle, con oltre 150 partite giocate nel Real Madrid e oltre 200 nel Barcellona, per non parlare della sua ultra decennale esperienza con la nazionale spagnola. Un uomo degno di rispetto a prescindere. Poi siccome s’è dimesso, allora rispettiamolo di più, perché uno che lascia perché si ritiene (a torto o a ragione) inadeguato alla causa è in effetti una sorta di marziano, almeno per quello che ci raccontano le cronache degli ultimi anni.

Mi dispiace sinceramente che Luis Enrique non alleni più la Roma, ma altrettanto sinceramente il rispetto se lo era guadagnato anche prima. Riconoscerglielo solo adesso mi sembra un esercizio piuttosto futile. Dare del “fallito” (lo è chi compie un “fallimento”) a uno così, per il lavoro che ha cercato di portare avanti, è un ulteriore invito alle società italiane a continuare  con la vergognosa (e infruttuosa, nella stragrande maggioranza dei casi) tendenza a mandare via seri professionisti sulla base di criteri assolutamente soggettivi e imponderabili. Perché anche il risultato è soggettivo e imponderabile: scindere più spesso il concetto di “prestazione” da quello di “punteggio”, in uno sport come il calcio governato dal caos (talvolta anche in senso buono), aiuterebbe anche a utilizzare meglio le parole. Una sconfitta rimane tale. Un fallimento può mettere un marchio. Di sicuro non è quello che merita di avere addosso il Sig. Luis Enrique Martínez García.

Pietro

@MagicJohnson vs Larry Bird, ancora e per sempre

Se non l’avete visto, utilizzo questo spazio per darvi la possibilità di guardarvi l‘intervento al David Letterman Show di Magic Johnson (follow @MagicJohnson, ovviamente) e Larry Bird.

Due che, come ripetutamente dice Magic, hanno cambiato il basket e la NBA. Non solo, hanno cambiato lo sport e la maniera di percepirlo. Chi segue un pò di storia dello sport sa che la più importante Lega al mondo (in termini di riconoscibilità) ha vissuto momenti difficilissimi negli anni ’70, quando i problemi economici e di droga impazzavano anche all’interno di questo mondo.

Magic e il suo sorriso, Larry e la sua incredibile voglia di vincere hanno riportato questo sport al posto che gli spetta. E hanno dato la possibilità a tante persone – in giro per il mondo – di immedesimarsi, di credere in loro, oppure di odiarli parteggiando per l’uno o per l’altro contendente.

A New York è andato in scena ultimamente uno spettacolo interamente ispirato a loro (il titolo è “Magic/Bird” – seguite @MagicBirdBway su Twitter), la pay-per-view HBO gli ha dedicato un meraviglioso documentario (il trailer) ma non manca anche la letteratura sul tema. Se volete e potete, leggetevi “When March Went Mad” del giornalista americano Seth Davis (@SethDavisHoops), che racconta la rivalità tra i due al tempo del college, e poi “When The Game Was Ours“, tradotto in Italia da Baldini Castoldi Dalai con il titolo “Il basket eravamo noi“, firmato proprio da Magic e Bird insieme alla giornalista Jackie MacMullan (@JackieMacB).

Intanto, buona visione:

Pietro

Preview #MayweatherCotto: l’opinione di Vittorio Parisi

Meno un giorno al match tra Floyd Mayweather (42-0, 26 k.o.) e Miguel Cotto (37-2, 30 k.o.),  che a quanto pare non sarà trasmesso da nessuno in Italia (Grazie,  eh), non rimane che cercarsi uno streaming. Detto questo, per presentare al meglio uno dei più grandi eventi pugilistici dell’anno mi sono avvalso dell’esperienza di Vittorio Parisi, che è stato mio compagno di telecronaca a Eurosport e ha una conoscenza straordinaria del pugilato – oltre a essere Direttore d’Orchestra, lavorando in Italia e all’estero, e insegna Direzione d’Orchestra al Conservatorio di Musica “Giuseppe Verdi” di Milano.

La copertina di "Gong!"Vittorio scrive su Boxeringweb e ha fatto parte del “Championship Panel” di “The Ring Magazine” (la più importante rivista di boxe al mondo, da sempre), unico italiano. Vi consiglio, tra le altre cose, il suo libro “GONG! – Una storia dei pesi medi e dei pesi massimi” (Bradipolibri, 2010 – 18 euro). Prima della piccola intervista, è giusto fare la mia brutta figura con il mio pronostico: vorrei tanto vincesse Cotto, possibilmente con uno spettacolare knock-out, tanto per battere la noia. Ma credo che vincerà “Pretty Boy” in 8-9 riprese.

Dunque, Floyd Mayweather affronta Miguel Cotto e poi va in carcere, dal 1° giugno: come si affronta un avversario del genere sapendo questo?

“Credo che Mayweather sia concentrato sul match che farà, il pensiero dei pochi mesi di carcere, che non sarà nemmeno duro, sarà sicuramente ammorbidito dal pensiero dei soldi che comunque incasserà”.

Tra i due, almeno da quanto hanno lasciato trasparire, c’è molto rispetto. Sembrano due personalità compatibili, Cotto bada più alla sostanza, Floyd fa il Floyd: cioé fa vendere il match anche con il suo modo di essere.

“È Mayweather ad avere scelto di combattere con Cotto, e in questo periodo non ha molto interesse a comportarsi male in pubblico”.

Cotto, dice Mayweather, va considerato imbattuto perché Margarito lo ha sconfitto imbrogliando e Pacquiao ha voluto un peso concordato. Ha ragione o vuole solo rendere il match più appetibile?

Vuole rendere appetibile un match che si doveva fare 5-6 anni fa, non adesso. È però vero che Margarito ha probabilmente barato anche nel match contro Cotto, ma la lezione subita da Cotto contro Pacquiao non dipendeva certo dal peso. E poi nessuno ha obbligato il portoricano a firmare per quel peso”.

Il portoricano è un picchiatore, ha un gran pugno, ama portare l’avversario alle corde e bombardarlo. Ha una chance di riuscirci contro il miglior “schivatore” al mondo?

“Cotto è più un demolitore che un picchiatore e certo non può pensare, viste le sue caratteristiche e quelle del suo avversario, di vincere combattendo sulla media e lunga distanza. Però Mayweather è uno dei pugili che nella storia si trova meglio spalle alle corde e questo rende maledettamente difficili le cose per il portoricano”.

Banalmente: chi vince, e perché?

“A mio avviso Cotto ha possibilità se nei primi round riesce a rendere questo match un vero inferno ma per farlo dovrà comunque pagare un prezzo molto alto. Se entrambi sono al meglio della loro attuale condizione Cotto non ha più del 20% di possibilità di vincere. Quindi direi Mayweather anche se preferirei il rovescio. Lo statunitense non mi è simpatico, ma i match non si vincono con la simpatia”.

Pietro

Lilian Thuram su “Le Monde”: le elezioni, e il suo paese

Lilian Thuram, a conferma di una personalità indubbiamente interessante, è intervenuto su “Le Monde” con un articolo a proposito dell’imminente secondo turno delle elezioni presidenziali francesi (6 maggio) che vedrà di fronte l’uscente Nicolas Sarkozy e lo sfidante socialista François Hollande. Ecco alcuni estratti del suo articolo. Se volete leggerlo tutto, ecco il link.

“Oggi è in gioco qualcosa di essenziale: la nostra capacità a vivere insieme, ad accettare le nostre differenze, a privilegiare prima di tutto quello che unisce piuttosto che quello che divide”.

“Da una decina d’anni è in atto una costruzione politica particolarmente perniciosa, in particolare dal 2007. E in questa campagna elettorale sembra aver iniziato una folle corsa. Come abbiamo fatto a regredire così?“.

“Storicamente a ogni periodo di crisi inizia sempre lo stesso meccanismo, che vuole che certi politici risveglino delle paure designando dei capri espiatori, gli stranieri, gli immigrati: ieri gli italiani, i polacchi, gli spagnoli, gli ebrei dell’Est, oggi i maliani, i cinesi, i musulmani…”.

Si cerca di distrarre i francesi dalle vere lotte: contro la povertà, contro l’ineguaglianza nell’accesso al lavoro, per un’educazione e una sanità di qualità, per una società più giusta”.

“Il 6 maggio ci sarà anche una scelta tra continuare con queste derive – la xenofobia, l’islamofobia, l’odio verso gli immigrati – e la calma. Per quanto mi riguarda, voterò sempre per la calma“.

Pietro

Comunicato dei giocatori e dello staff della Teramo Basket

Lo ricevo al mio indirizzo professionale (quello della Rivista Ufficiale NBA), lo pubblico volentieri qui. Vergognandomi un pò, come amante del basket, Perché queste cose accadono nella più assoluta indifferenza da parte di quelli che ci spiegano che “il nostro sport è vivo e in salute”. Si vede. Talmente in salute che scoppia.

Abbiamo onorato la maglia che portiamo addosso per tutta la stagione raggiungendo una salvezza conquistata sul campo in mezzo a mille difficoltà.

Rispetteremo i colori biancorossi fino alla fine di questo campionato,ma denunciamo con amarezza la mancanza di rispetto per il nostro lavoro e per la nostra professionalità.

Abbiamo aspettato invano risposte sul nostro futuro e non riceviamo quanto ci è dovuto da troppo tempo.

Crediamo che sia giunto il momento di rendere pubblico il nostro disagio di lavoratori non retribuiti,che non hanno però mai fatto mancare il proprio impegno sul campo come testimoniato dai risultati sportivi che tutti ci riconoscono.

E’ con profonda tristezza che scriviamo queste righe,nella speranza che i nostri sforzi di atleti e di uomini non vengano vanificati da chi dovrebbe garantire la prosecuzione del sogno sportivo dei veri tifosi della pallacanestro a Teramo.

Il capitano Gianluca Lulli e i giocatori e lo staff della Teramo Basket

Riflessioni su una domenica “sportiva” (di Matteo Mantica)

Il blog torna in attività e lo fa ospitando alcune opinioni di Matteo Mantica, che ha scritto con me e con Francesco Repice il libro “Inter, quella notte” (Libreria dello Sport).

Una domenica un po’ particolare per chi segue lo sport quella datata 22 aprile 2012. Guardando la televisione comodamente seduto da casa mia, ho passato in rassegna un po’ tutto quello che di sport andava in onda. Dal calcio italiano, a quello inglese, dal basket alla pallavolo. E due cose in particolare mi hanno colpito e lasciato perplesso. Due cose completamente diverse ma che ugualmente mi hanno lasciato sorpreso, stranito e un po’ deluso.

Partiamo dalla seconda, quella accaduta durante la finale del campionato italiano di pallavolo in diretta dal Forum di Assago su RaiSport1. Spettacolo straordinario, pure per uno come me che non ama certo la pallavolo, in particolare quella maschile. Partita divertente, pienone di pubblico sugli spalti, grande entusiasmo, telecronaca, a mio giudizio, competente e divertente. Scudetto alla fine alla Lube Macerata che vince 22-20 al tie break dopo aver recuperato due set di svantaggio contro la squadra, l’Itas Trentino, che ha dominato in lungo e in largo l’intera stagione di volley. Una favola meravigliosa.

Poi però, mentre impazza la festa sul taraflex del Forum, RaiSport manda in onda il replay del punto che ha assegnato la vittoria ai marchigiani e cosa ne vien fuori? Che la palla chiamata out dagli arbitri era in realtà abbondantemente dentro il rettangolo di gioco. Lungi da me qualunque tipo di polemica contro gli arbitri che ritengo possano e debbano avere il diritto di sbagliare, ma rimango sorpreso e deluso per il fatto che uno sport come la pallavolo cada nel medesimo errore del grande mostro calcio: non esiste tecnologia a supporto dagli arbitri. Se il calcio ne fa una scelta filosofica, a mio modo di vedere assolutamente non condivisibile per mille aspetti, mi stupisco di come uno sport come il volley cada nel medesimo errore. Perché di errore è giusto parlare.

Non so in tutta onestà, perché non mi ci sono messo, stabilire su quali casi l’instant replay possa essere applicato nella pallavolo, ma certamente uno sport moderno e con uno sguardo sul presente e sul futuro, non può e non deve esimersi dall’aiuto che la tecnologia può offrire. Nel basket, il mio sport, se ne fa già uso da anni, come sapete, e francamente non ricordo situazioni in cui l’instant replay non abbia dato responsi che hanno effettivamente messo d’accordo tutte le parti in causa.

Non ultima, anzi prima, il famoso tiro di Ruben Douglas del 2005 che ha deciso lo Scudetto e che, visto attraverso l’ausilio dell’instant replay, è stato stabilito fosse partito in tempo utile. Vedete per caso qualche analogia con quanto successo, peraltro sullo stesso campo, domenica scorsa ad Assago? È evidente che la scelta di non fare uso della tecnologia è stata presa da chi comanda nella pallavolo, e mi piacerebbe capire, se qualcuno sa sono qui pronto ad ascoltare, i motivi per i quali questa scelta è stata intrapresa.

La seconda cosa che mi ha lasciato di stucco, è accaduta qualche ora prima ma si è poi sviluppata nella giornata di lunedì e temo, purtroppo, andrà avanti anche nei prossimi giorni. Parlo di quanto successo a Marassi durante il secondo tempo di Genoa-Siena di Serie A di calcio, quando alcuni idioti hanno raggiunto una zona delle tribune dello stadio che ha permesso loro di far sospendere per 40’ circa la partita di calcio tra lanci di fumogeni e minacce, almeno da quel che è passato a noi telespettatori da divano, più o meno velate ai calciatori.

Niente banalità, niente condanne di quanto accaduto, quello è un mestiere che lascio ad altri, gli altri le cui reazioni sono proprio il motivo scatenante della mia delusione. Tutti, più o meno, abbiamo visto le immagini di quanto accaduto, i giocatori che si sono tolti le maglie, Sculli che ha abbracciato uno di questi tifosi sussurrandogli all’orecchio chissà cosa per far desistere questo manipolo di individui dal loro comportamento.

Tutti ci siamo fatti un’idea su cosa sia accaduto, su chi può avere avuto più o meno responsabilità su quanto accaduto e su quello che si potrebbe fare o meno per evitare situazioni del genere. Io ho le mie idee, ma non vi tedio con questo. Piuttosto sposto l’attenzione su quanto accaduto nella giornata di lunedì.

La sera, tornato dal lavoro, mi collego su SkySport24 e vedo i contributi raccolti dai giornalisti in giro per l’Italia con i vari politici dello sport che vogliono, e devono, dire la loro su quello che è successo a Genova. Mano mano che sento i vari Abete, Petrucci, e, piange il cuore dirlo perché per questo ragazzo per quel che appare ho grande stima, Damiano Tommasi e mi pare sempre più evidente che l’attenzione si sta spostando su qualcos’altro, sul cercare una nuova straordinaria colpa con i suoi annessi e connessi colpevoli: aver tolto la maglia!!!!!

Tutti, chi prima chi dopo aver condannato i delinquenti, hanno evidenziato il sacrilegio di aver accettato di togliersi la maglia da gioco. Petrucci ci ha raccontato questo: “La maglia è il simbolo intangibile di una squadra e non può essere nè offesa nè vilipesa o, tantomeno, oggetto di trattative. Aver chiesto e acconsentito di far togliere le maglie ai giocatori del Genoa rappresenta un sacrilegio sportivo di cui i colpevoli dovranno rispondere in ogni sede”.

Tommasi, e ribadisco il mio personale stupore, ha detto che lui non avrebbe mai tolto la maglia cedendo a quei delinquenti: a Tommasi mi piacerebbe ricordare che lui era in quella Roma che ha deciso, dopo uno splendido colloquio Totti-tifosi in mezzo al campo all’inizio del secondo tempo, di sospendere la partita per la morte di un bambino mai avvenuta… Abete si è aggiunto al coro, con qualche altra perla che tutti avrete sentito o letto.

Il mio personale sconcerto ha decisamente preso il sopravvento. Effettivamente non avevo pensato che i veri delinquenti erano proprio i calciatori che avevano accettato, probabilmente minacciati, di togliersi le maglie della loro squadra, alcuni addirittura scoppiando in lacrime come Giandomenico Mesto, davanti a tanta vergogna. “Io non l’avrei mai tolta”, “è stato un gesto vergognoso cedere alle richieste di questi delinquenti”.

Io spero, ma è uno sperare davvero eufemistico, che qualcuno di questi signori, risentendosi o rileggendosi, si accorga di essere andato un po’, ma giusto un po’, fuori tema, parlando delle maglie dei giocatori che sembravano, ieri sera, essere diventati i veri colpevoli, pure codardi, nello scempio di domenica a Genova.

Meno male che poi, sempre su SkySport24, mi è capitato di sentire le parole di un giornalista del Corriere della Sera, Roberto Perrone, che ha fatto presente che forse il problema stava da qualche altra parte rispetto alle maglie o addirittura, come aveva paventato qualche altro genio, nel fatto che lo stadio di Genova si prestasse a situazioni di questo genere: nell’ignoranza, nella non educazione, nella mancanza di leggi, nonostante le varie genialate come la tessera del tifoso (che ha solo aumentato i problemi, salvo poi fare una sorta di malcelata retromarcia) o i tornelli negli stadi che tanto chi non deve entrare non lo si ferma comunque… Lo sport in Italia ha dei seri problemi per tanti motivi e purtroppo vedo con grande difficoltà come il futuro possa diventare più roseo nei prossimi anni.

La soluzione che ha trovato chi comanda nello sport, e che invece di trovare soluzioni vere con l’appoggio dello stato su come arrivare a che le cose di Genova non si ripetano più sulla falsariga di quanto fatto dagli inglesi ormai 20 e dico 20 anni fa se ne esce con frasi poco pertinenti, è stata: facciamo le Olimpiadi a Roma nel 2020. Io amo lo sport e vivo grazie allo sport, ma in tutta franchezza ringrazio Mario Monti per avergli sbattuto la porta in faccia.

Mayweather vs. Cotto. “PPV King vs. Superwelterweight Champion”

Interessanti, come sempre, i confronti proposti dalla pay-per-view americana HBO per promuovere i grandi eventi della boxe.

Il 5 Maggio (anzi, il “Cinco de Mayo“) l’imbattuto Floyd Mayweather Jr. (42-0, 26 k.o.) affronterà Miguel Cotto (37-2, 30 k.o.) con in palio la cintura Wbo dei pesi superwelter. Curioso, perché il match avrà luogo a Las Vegas (MGM Grand) dove “Pretty Boy Floyd” vive e nella stessa arena in cui ha combattuto le ultime cinque volte.

Curioso soprattutto perché si tratta del suo secondo incontro di sempre in questa categoria di peso. L’altro? Sempre un “Cinco de Mayo”, nel 2007. Affrontò il leggendario Oscar De La Hoya, oggi organizzatore di successo con la “Golden Boy Promotions”, e vinse per split decision, cioé ai punti con decisione non unanime.

Il cartellino di Chuck Giampa (116-112 per Oscar) andrebbe battuto all’asta: rimane l’unico giudizio sfavorevole per Mayweather in tutta la carriera. Come forse saprete, Mayweather andrà in carcere a giugno, in seguito a una condanna per tre mesi (violenza domestica).

Curioso davvero come si possa vivere da “Money” (l’altro suo soprannome) sapendo di dover andare dentro, anche se per un periodo relativamente breve, e pensare a un avversario difficilissimo come Cotto.

Lo considero imbattuto“, dice Mayweather, “perché ha perso contro Pacquiao in un match con il peso concordato voluto da Manny e contro Margarito che ha imbrogliato“. Il rispetto che emerge dalle parole dell’attuale campione Wbc dei welter nei confronti di Cotto è totale, tanto che ha deciso di affrontare l’incontro al limite delle 154 libbre (peso ideale per il portoricano) perché non ci siano scuse o polemiche successive.

Tornando alla HBO, prodotti come questo sono utili, utilissimi a far conoscere i personaggi (e le persone) dietro ai singoli eventi. Utili a generare interesse. A chi starò parlando? Ai soliti tre o quattro, già lo so. Pazienza.

Comunque sia guardatelo il confronto (qui sotto), e se vi riesce guardatevi anche il match. Tra un rigore per il Barça e un ennesimo scoop su Balotelli.

Pietro

Dieci pensieri sintetici su Barcellona-Milan

Premesso che il mio livello di lucidità era questo: credevo che la partita fosse di mercoledì, ero proprio in “trance” agonistica.

01. Dissento, totalmente, da tutti quelli che oggi parlano di Ibrahimovic e della sua “occasione persa”. Non è che abbia avuto cinque palle gol tirando sempre in curva. O no?

02. Dissento, totalmente, da chi pensa che il Milan sia uscito per colpa dell’arbitro. Il primo rigore era evidente, sul secondo si può discutere. Dice Gianluca Vialli: “In Italia non li fischiano mai ma è un nostro problema, in Europa li danno“. Poi…

03. …60-40% di possesso palla, 21 tiri a 3. De che stamo a parlà?

04. Vedere Nocerino segnare al Camp Nou è una cosa bellissima soprattutto per lui, coronamento ideale di una stagione impressionante e francamente inattesa.

05. Pato: seriamente, ma se la scorsa settimana nessuno aveva idea di come curarlo, come può aver recuperato davvero per giocare a Barcellona dopo un’andata e ritorno dagli USA? Mistero vero.

06. Messi: ha segnato due rigori tirandoli molto bene, crea scompiglio ogni volta che ha la palla, s’è mangiato un gol clamoroso per lui, ogni tanto si piace troppo ma che gli vuoi dire? Siamo a 58 gol stagionali in 49 partite. Whaaaaaat?

07. Guardiola: il limite delle squadre che giocano (meravigliosamente) in un modo solo può essere quello di leggere poco le situazioni. Lui l’ha fatto, partendo con la difesa a tre, schierando esterni larghissimi e cercando costantemente di aprire il campo, memore di ciò che era accaduto all’andata. Poi si è rimesso a 4 dietro una volta rasserenatosi. Bravo.

08. Allegri: mi sembrache abbia fatto il massimo con ciò che ha. Quindi nulla da dire. La stima per l’allenatore è tanta, perché è uno che ha sempre difeso le sue scelte, giuste o sbagliate. Non ha nulla da rimproverarsi, ha perso contro avversari più forti, period.

09. Barcellona: quanti gol in più segnerebbe se ogni tanto tirasse? Sono serio. La sua ossessione nel cercare di entrare in porta con la palla è diventata stucchevole.

10. Milan: la sfida al Barça è stata dipinta come quella tra Davide e Golia. Solo che se è vero che i blaugrana sono Golia, il Milan non può essere Davide. O allora se lo è la squadra campione d’Italia in carica (e prima in classifica) siamo messi male. Ma male, male, male.

Pietro

Il basket è gioia. Quindi Richard e Keith “sono” il basket

Lo sport professionistico è vissuto con sempre maggior pesantezza. Il Maccabi Tel Aviv ha perso ieri sera la quarta partita dei playoff di Eurolega contro il Panathinaikos campione in carica. Ora la serie è sul 2-2, e ad Atene si giocherà la gara decisiva.

Ora, potremmo parlare dell’ennesimo miracolo di Zelimir Obradovic, che corre per la sua nona (N-O-N-A) vittoria in Eurolega da allenatore a 50 anni. Di come ha reso giocatori come Nick Calathes, Stratos Perperoglou, Steven Smith e Kostas Kaimakoglou in grado di risultare importanti se non decisivi in partite come questa, a 40 minuti dall’eliminazione e fuori casa in uno dei campi più calorosi (“caldi” può avere accezioni negative) del mondo.

Potremmo analizzare come David Blatt potrebbe rivincere ad Atene (già fatto in gara-2) e quindi sostanzialmente vendicare la sconfitta nell’ultima finale di Eurolega giocata a Barcellona. O di come Sarunas Jasikevicius continui a dimostrarsi un campione eterno.

Invece, questa volta, parlo della gioia del gioco attraverso Richard Hendrix e Keith Langford: giocano per il Maccabi, ma soprattutto si divertono. E sono forti. E dimostrano che stare in uno dei club più rispettati della Terra, a Tel Aviv, per giocare inseguendo i massimi obiettivi si può fare rimanendo persone autentiche, brillanti, divertenti e facendolo sapere al resto del pianeta, tagliando le distanze tra loro e gli appassionati. Per esempio cantando “Forget You” di Cee Lo Green. Così:

Pietro

OLYMPIACOS-SIENA, STAVOLTA SPALLE AL MURO

Il parallelo facile l’hanno fatto tutti tra la debacle senese di gara-tre e il -48 dell’anno scorso. Essersi fermati a -20 può voler dire che stavolta il crollo è stato meno grave, che questo Olympiacos vale meno dell’anno scorso, che si è fermato nell’ultimo quarto… Un anno fa Siena aveva comunque tutta la serie davanti, stavolta è con le spalle al muro, “do or die”. E essere riusciti a fare il ribaltone un anno fa rende evidentemente anche i greci più pronti a non farsi sorprendere di nuovo.

Siccome Siena praticamente non ha giocato, resta valido quanto detto prima di gara-tre sui temi della serie, ora che si è trasferita al Pireo: ovvero fare la partita anziché subirla. Con audacia, nelle scelte tattiche e nella scelta degli uomini. Ma non ha senso neanche arrivare a parlare di questo se non c’è energia, come è successo alla Montepaschi in gara-tre.

Capitolo rimbalzi. Che lì Siena andasse sotto era nell’ordine delle cose: si entrava nella serie coi greci che prendevano più del 31% dei rimbalzi d’attacco a disposizione e i toscani che concedevano agli avversari più del 31% dei palloni sotto il proprio tabellone difensivo. Eppure in gara-due e tre l’Olympiacos è andato perfino oltre il preventivato, prendendo il 43,2% dei rimbalzi disponibili sotto il tabellone della Montepaschi.

I problemi a rimbalzo nascono anche dalle scelte difensive senesi che – semplificando – mandano un lungo a contenere i pick&roll di Spanoulis e l’altro in aiuto a coprire l’area, lasciando l’area sguarnita. Pensiero con le spalle al muro: se fosse meglio lavorare uomo contro uomo con Spanoulis (1/6 in gara-tre e 7/20 in una serie da 8 punti di media), rischiando anche di risvegliarlo, ma sfidandolo a vincerla da solo per coprire meglio su tutti gli altri e soprattutto a rimbalzo?

Sarà per i problemi muscolari, ma Moss in gara-tre non ha mai tenuto Spanoulis in uno contro uno, costringendo Andersen a mettere una pezza sul buco di Moss, Stonerook a metterla a sua volta sul buco di Andersen, finendo per lasciare sempre un uomo libero: si è notato meno perché l’Olympiacos ha graziato Siena sbagliato otto delle prime nove triple tirate, tutte pulitissime e ben costruite.

Da qui il passo è breve a vedere che i greci non hanno fatto niente di straordinario per vincerla. Al di là del ballo in maschera dell’ultimo quarto da 27-25 di punteggio, nei primi tre quarti i Reds hanno segnato 48 punti, che in media partita fa 64. Da una parte vuol dire prepararsi a una gara-quattro in cui l’Olympiacos possa legittimamente fare meglio, dall’altra concludere (al di là delle osservazioni su Spanoulis) che alla Montepaschi non è mancata la difesa, è mancato l’attacco (i 55 punti sono il minimo stagionale).

Alla Montepaschi è mancata la capacità di muovere la palla e trovare tiri aperti attraverso la circolazione. Più che tiri, Siena costruisce situazioni di uno contro uno in cui affidarsi ai singoli. Tolta da una difesa aggressiva la prima scelta di appoggiarsi spalle a canestro, anche provocando perse toscane, Siena non ha trovato le altre opzioni, o non ha avuto più il tempo di trovarle entro 24”.

Andersen è stato servito per ricezioni in post basso statiche invece che da giochi a due dinamici come nelle gare senesi. I giochi a due sono stati fatti ma in maniera molto stanziale, quasi sul posto, col solo scopo di prendersi jumper senza ritmo dietro ai blocchi o di indurre ai cambi difensivi (una squadra che li fa di sistema perché ha i giocatori per poterselo permettere), invece di fare pick&roll più dinamici che allargassero il campo con maggiori spaziature per costringere la difesa a fare delle scelte.

In questo contesto statico, Andersen ha sbagliato i tiri in allontanamento che pure aveva messo nel resto della serie, McCalebb ha sbagliato gli affondi al ferro che ha messo tutta la stagione (tranne in questa serie), Thornton (anche prima di rompersi la mano) ha sbagliato tutti i jumper che gli sono stati chiesti per punire le mancate uscite di Dorsey. E’ nato da qui il break negativo a cavallo del riposo.

La Montepaschi ha segnato metà dei suoi punti tra i primi 3’30” (quelli del 10-3 senese in avvio) e gli ultimi 3’30” (altri 18 punti). Nei 33 minuti centrali ha segnato la miseria degli altri 27 punti. In particolare sono stati solo 11 nei 21′ dopo il 10-3 iniziale (furono 13 nell’intero primo tempo del -48 dell’anno scorso). E il nocciolo è stato quel break di 20-3 subito nei dieci minuti a cavallo del riposo in cui Siena ha segnato un solo canestro, crollando dal -2 del 15′ (non giocando a basket, ma a gara ancora apertissima) fino al -19 di metà terzo quarto.

L’effetto più evidente della mancanza di circolazione di palla lo fotografano le (mancate) triple. Solo nei ko a Barcellona e con Kazan la Montepaschi ne ha segnate meno delle 5 oltre cui non è riuscita ad andare in ognuna delle tre gare con l’Olympiacos. E ne segna poche anche perché ne tira poche: 13,7 di media, oltre 5 in meno delle 18,9 che aveva in stagione. Solo tre volte in tutto l’anno ne ha tirate meno delle 16 che sono state il massimo di questa serie.

Cercare verità statistiche in partite come gara-tre, con svolgimento univoco e motivazioni evidentemente non solo tecniche, non ha molto senso a fini analitici, può servire al massimo a fare una foto del disastro. Siena non ha bisogno di rivoluzioni ma solo di essere sé stessa dopo aver dimostrato col basket fatto vedere tutto l’anno di essere almeno tra le prime quattro d’Europa. E’ il momento di entrarci, o di non uscirci.

Beppe Nigro
@beppaccio