40 anni di Poz: vi regalo il suo “Dream Team #50” (download gratuito)
Come (pochi, credo) di voi sapranno, avevamo (io, il direttore Mauro Bevacqua, l’art director Francesco Poroli) dedicato il numero 50 della rivista “Dream Team – Basketball & Lifestyle” a Gianmarco Pozzecco, offrendogli – simbolicamente ma nemmeno troppo – il ruolo di direttore per un mese.
Ne uscì un numero molto divertente, che coinvolse tantissimi personaggi dello sport, del giornalismo e anche della cultura. Nessuno voleva farsi mancare il suo Gianmarco Pozzecco, a dimostrazione ulteriore di quanto e come questo personaggio abbia inciso, non solo sul parquet.
I nomi dei “contributors”? In ordine sparso: Gianluca Basile, Danilo Gallinari, Franco Bolelli, Flavia Pennetta, Maurizia Cacciatori, Martin Castrogiovanni, Massimo Ambrosini, Francesco Damiani, Gianmaria Vacirca, Emiliano Poddi, Angelo Reale, Riccardo Romualdi, Flavio Vanetti, Andrea Zingoni&Joshua Held (Gino il Pollo), Piero Guerrini, Andrea Pecile, Livio Proli, Dino Meneghin, Charlie Foiera, il fotografo Stefano Ceretti. Chiedo scusa se dimentico qualcuno.
Grazie a Francesco Poroli (@francescoporoli su Twitter) abbiamo recuperato il file. Io ve lo regalo.
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Pietro
40 anni di Poz, e la sua ultima partita (di @MicheleGazzetti)
Michele Gazzetti, giornalista di Sportitalia e soprattutto amante della pizza al taglio del Woodstock, mi ha riproposto il pezzo che scrisse la sera dell’ultima partita giocata da Gianmarco Pozzecco, ad Avellino con la sua Capo d’Orlando. Ve lo ripropongo qui, insieme al video del Poz che racconta in prima persona il suo addio al basket alla trasmissione “Sotto Canestro”, su La7.
Pietro
La fantasia nel basket è morta al minuto 36’14” di gara 3 tra Avellino e Capo d’Orlando. Meo Sacchetti, coach dei siciliani, chiama il cambio e se per Fabi è solo un ingresso in campo, per Pozzecco è la fine di una carriera, il passo d’addio del talento più anarchico ed esteticamente trascinante del basket italiano. Gianmarco si toglie la canotta blu svelando una maglietta artigianale che è una sorta di testamento cestistico scritto con il pennarello nero su tessuto bianco. Tra le scapole non ci sono le otto lettere del suo cognome ma solo la scritta Chicco, dedicata al suo ex compagno e amico Ravaglia scomparso in un incidente stradale nel 1999.
E poi una serie infinita di ringraziamenti: “Grazie per avermi sopportato. Grazie di tutto. Grazie Enzo“. La dedica per il presidente che l’ha voluto e coccolato e che non era presente al palazzetto perché agli arresti domiciliari.
Il basket si sente già orfano del personaggio più picaresco e istrionico che abbia mai calcato i parquet italiani, uno di quelli che o si odia o si ama alla follia. Come testimoniano d’altra parte le sue parole a caldo, intriso in un oceano di lacrime e sudore: “Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno cercato di capire in questi 30 anni, forse nessuno ci è riuscito. Chiedo scusa se ho sbagliato, l’ho fatto solo perchè avevo un amore spasmodico per questo sport“.
Per i profani della palla arancione, è come se si fosse ritirato il Roberto Baggio del basket. Due personaggi diametralmente opposti ma uniti da un grandissimo feeling con la poesia applicata allo sport.
Pozzecco, triestino classe 1972, aveva iniziato a predicare basket in serie A nella stagione 90/91 con la Rex Udine. Da lì una sfolgorante carriera con due perle indimenticabili: nel 1999 lo scudetto vinto con la “sua” Varese e nel 2004 la medaglia d’argento leadereggiando l’Italia alle Olimpiadi. Nel 2002, proprio contro Avellino, il record di punti in serie A, 42. Dopo l’esperienza in Russia, questa sua ultima stagione trionfale in cui è stato osannato in tutti i palazzetti italiani, anche da chi l’aveva insultato per anni.
Finisce la favola della Mosca Atomica, l’uomo che più di ogni altro ha saputo essere uno spot vivente per la pallacanestro. Uno dei pochi per cui vale la pena domandarsi che basket sarebbe stato senza lui in campo. Ci mancherai tantissimo Poz.
Auguri Poz (contiene intervista amarcord)
Il 15 settembre 2012 Gianmarco Pozzecco compie quarant’anni. Solo per l’anagrafe, perché quanti anni possa avere il Poz nella sua testa lo può sapere davvero solo lui. Ho avuto la possibilità di conoscerlo lavorando per il mensile Dream Team, curavo la sua rubrica (potete immaginare il livello dei contenuti!), e una volta abbiamo fatto una intervista vera e propria. Quella che vi ripropongo qui sotto.
Ovviamente gli dedicammo la copertina, con la foto che vedete qui di fianco, scattata da Matteo Marchi: ritrae un Poz con la coppola (la mia, tra le altre cose), in omaggio alla sua stagione siciliana con Capo d’Orlando. Era la vigilia del suo ritorno da avversario contro la Fortitudo Bologna, ci incontrammo nel suo albergo. Totalmente immarcabile: mentre rispondeva alle mie domande dava consigli all’allora GM Vacirca su dove portare la fidanzata a mangiare, intratteneva altri clienti dell’hotel a caso, rompeva le palle ai compagni di squadra che passavano di lì. Marchi non ne poteva più.
Mi piace anche ricordare un’altra cifra tonda: 50, ovvero il numero della rivista che lui “diresse”. Dream Team chiuse i battenti qualche mese dopo, ma quella del “Pozzecco direttore” rimane una delle cose più divertenti che abbia mai fatto. E mi ricordo la sua emozione vera nel vedere le prime prove su carta di una rivista-tributo interamente dedicata a lui, in una stanza della vecchia sede dell’Olimpia Milano in via Caltanissetta. Poz piace a molti, altri lo detestano. Per me, semplicemente, è un grande.
Auguri Gianmarco!
(Intervista a Gianmarco Pozzecco, Dream Team 37, gennaio 2008)
Gianmarco, sei già tornato da avversario a Bologna, ora è il momento dell’ultima della carriera a Varese: cosa ti aspetti?
“A Bologna l’ho vissuta come un preavviso di ciò che può succedere a Varese. Ci ho giocato quasi tre stagioni, ma ho instaurato rapporti quasi di fratellanza, ho conosciuto un sacco di amici che non vedevo l’ora di rivedere – Simone della Braseria, Ugo del Rivabella, Steve Fabiani, Abele Ferrarini, mille altri. Insomma, anche tornare a Bologna è stato qualcosa di molto particolare, ma dico e ribadisco che per me Varese è Varese”.
Nell’amore per la Effe la motivazione del tuo rifiuto alla Virtus Bologna.
“Sì, ed è stata una scelta personale, nessuno mi ha mai condizionato. L’unico che poteva farlo era Giorgio Seragnoli. Andai a fatica a parlargli, chiedendogli se poteva essere un problema per lui, ma mi disse di no – forse solo se fosse stato ancora lui il presidente della Effe sarebbe stato diverso”.
Una notte difficile, comunque.
“Sì, era un venerdì sera. Non sono stato bene per niente, e alla fine cambiai idea. Mi resi conto che era una cosa che non mi apparteneva. C’era una decisione da prendere, era un momento molto serio, ma quando mi immaginavo con la maglia della Virtus non mi accettavo. Non ho nulla contro la Virtus, l’ho detto 1.500 volte, però io alla fine ho giocato a Varese e alla Fortitudo, ed è giusto che uno come me abbia fatto una scelta di quel tipo, istintiva, perché io sono così”.
Quindi l’approdo in Sicilia, per tanti una pazzia.
“Quando chiamai Enzo Sindoni gli dissi: ‘Le cose stanno così: posso andare alla Virtus, situazione vantaggiosa, gioco in Eurolega, mi allena una persona che stimo molto come Pillastrini, in una città dove ho casa, in una società che mi dà la possibilità di vincere…’. E lui: ‘Mi stai dicendo che vieni a Capo d’Orlando’. ‘Sì’. Una scelta che, fino a questo punto e al di là dei risultati, mi ha confortato. A giocare per le Vu Nere non ce l’avrei mai fatta”.
Da Bologna non te ne sei andato per scelta tua, ma di Jasmin Repesa.
“Nella mia carriera ho vissuto momenti esaltanti e altri particolarmente brutti. Nel 1999, quando mi allontanai dalla Nazionale che poi vinse gli Europei, io ci rimasi di merda. Stessa storia nel 2003, quando Recalcati mi rifiutò prima dell’Europeo svedese; e poi ancora due anni dopo, quando Repesa mi mise fuori squadra prima dei playoff e loro vinsero lo scudetto. Sono stati tre momenti di difficoltà vera, di sofferenza”.
Però in qualche modo sei sempre tornato.
“Ho sempre tratto energia positiva da queste situazioni. È logico che ho sofferto a vedere De Pol e Menego esultare da campioni d’Europa, appena dopo averlo fatto insieme per lo scudetto a Varese. Pensavo e penso tuttora che meritassi di giocare in quella Nazionale. Mi apparteneva di diritto, perché non vedevo così tanta gente più brava di me, onestamente. Però sono tutte cose che mi sono servite per crescere: quando le cose vanno male, non sempre tutto è negativo”.
È un pensiero che ora puoi rivolgere al tuo amico Belinelli?
“A Marco dico proprio questo: per certi versi non giocare adesso è una cosa positiva. Ha ancora 21 anni e per lui non sono assolutamente preoccupato, ho tantissima fiducia. Anche lui ne ha nelle sue qualità, se è vero che ha detto di non voler essere considerato solo uno specialista. Deve solo riuscire a capire che tutto questo passerà, che avrà la possibilità di vendicarsi di tutto, prendendosi delle rivalse contro chi pensa che non è adatto a stare lì”.
Quindi tu confermi al 100% tutto ciò che sei stato, senza rimpianti.
“Rifarei tutto: non sono andato in Francia nel 1999 e non ci andrei nemmeno adesso, ad esempio. Nella vita uno deve fare delle scelte: uso sempre l’esempio del contropiede tre contro uno con a destra Charlie Foiera e a sinistra Michael Jordan, in difesa Mutombo. Dai giustamente la palla a Jordan, che scivola e sbaglia. Riescono a dimostrarti, usando non so che tipo di macchinari, che se la davi a Foiera andava a segnare e vincevi la partita. Di conseguenza succede che la tua scelta per certi versi è sbagliata, ma la verità è che se hai Jordan a sinistra e dai la palla a Foiera sei un cretino!”.
Molto dipende anche dal momento.
“Ci possono essere delle scelte che poi si rivelano sbagliate, ma rimangono giuste nel momento in cui le hai fatte. Io feci benissimo, secondo me, a non andare in Francia; Recalcati ha fatto malissimo a non chiamarmi in Svezia. Addirittura inventarono che rubai un pullman di notte, ma sul mio conto ne hanno dette di tutti i colori. Ma una spiegazione a tutto c’è…”.
Sarebbe?
“Io ho venduto l’anima al diavolo per vincere lo scudetto a Varese, uno scudetto che mi permette ancora di vivere di rendita, perché altrimenti credo che mi sarei già ammazzato quattro o cinque anni fa. Rimane una cosa che mi resterà dentro per tutta la vita, e ho venduto l’anima al diavolo per riuscirci. Quindi tutte le sfighe che sono successe dopo sono arrivate perché il diavolo ogni tanto si presenta sempre con quel conto ancora da saldare. Io sono un dannato”.
Parole grosse.
“Io ci credo veramente, anche perché quello scudetto ha tutto fuorché elementi di realtà. È assolutamente surreale. La stampa specializzata allora ci considerava una squadra di seconda se non di terza fascia, e devo dire che questa Pierrel ha delle analogie con quella squadra”.
In che senso?
“Una su tutte è che stiamo bene insieme, come a Varese. Veramente, però, non per dire sempre ‘il gruppo di qua, il gruppo di là’: stiamo insieme perché ci piace”.
Altra tradizione e altra storia, però, Varese rispetto a Capo d’Orlando.
“Senz’altro, è chiaro. Lì l’anno prima eravamo arrivati quarti e si giocava l’Eurolega, ma fondamentalmente nessuno ci considerava da titolo. Qui sulla carta siamo considerati ancora meno, però vediamo cosa succede”.
Peraltro anche senza di te la Pierrel ha fatto bene!
“Meglio che abbiano iniziato senza di me! Perché poi sono arrivato io, a perdere 10 palloni a partita, tanto per far capire ai ragazzi con chi avevano a che fare”.
Ci spieghi una volta per tutte perché Pozzecco è un giocatore difficile da allenare?
“Partendo dal presupposto che non sono un santo, sono convinto che a volte tutto viene portato all’esasperazione. Una volta per esempio Federico Danna [allenatore di Varese nella stagione 1999-2000, ndr] non mi mise in quintetto nella trasferta contro la Virtus Bologna. Io ebbi una reazione spropositata, quando poi mi rimise in campo mi tolse dopo tre o quattro minuti perchè avevo perso non so quanti palloni. Ho fatto scoppiare il finimondo, una cosa di cui mi vergogno tuttora. Quella sera lì il povero Hugo Sconochini venne trovato positivo al doping, e il giorno seguente sui giornali il titolo in grande era la mia lite furibonda con Danna, mentre in un angolo ‘Sconochini positivo’. Mah…”.
Cosa vuol dire quando dici che non sei un santo?
“Beh, sulle critiche che ho ricevuto c’è sempre un fondo di verità. Ne ho fatte veramente di tutti i colori. Una volta rimasi a letto per un mese e mezzo con la broncopolmonite, prendendo quattro antibiotici al giorno, e nella prima partita che giocai al rientro restai in campo qualcosa come 28 minuti [20 in realtà, ndr], ma ero incazzato nero del minutaggio. Sono uscito di casa che ero un cadavere, ma io anche in quel momento ero convinto di essere il più forte di tutti. Andai da Charlie [Recalcati] il martedì e gli dissi ‘Qui non va bene: ho giocato 28, sei pazzo? Io devo giocarne almeno 35, altrimenti non gioco più!’. Mamma mia ragazzi…”.
A proposito di Hugo: l’hai visto su SKY a fare il commentatore?
“Sì, per favore ditegli di tagliarsi i capelli”.
Finirai anche tu a commentare partite?
“Spero non con quei capelli! Di Hugo posso anche parlarne male, è talmente un bel ragazzo! Però davvero, dalla TV non capivo se era Hugo Sconochini o una pecora: spero che ora gli abbiano tagliato la lana… So che sua moglie aveva un maglioncino nuovo, magari l’hanno fatto all’uncinetto con la lana di Hugo”.
C’è anche Boni che commenta, un altro che parla poco.
“Mi dicono che massacra tutti. Mario Boni secondo me dovrebbero mandarlo a ‘Uomini e Donne’, sarebbe l’ideale. Una sera ce l’aveva anche con se stesso, ma è giusto così, è bello vedere qualcuno che apre bocca per dire quello che pensa. Non ha mai offeso nessuno”.
Boni ha detto che penserà al ritiro solo quando smetteranno di fischiarlo e inizieranno a dargli dei premi alla carriera.
“Bene, allora organizzate voi che gliene diano, perché non se ne può più!”.
Pure tu aspetti i fischi e le targhe?
“Io smetto comunque a fine stagione, che mi diano le targhe o meno. Anzi, per dirla con le parole del buon Commendator Zampetti [l’attore Guido Nicheli, ndr] che purtroppo non c’è più, vedo di tirar giù le ultime due targhe [a.k.a. ragazze] e poi smetto, perché da giocatori se ne beccano molte di più”.
Strage di cuori, a Capo d’Orlando?
“Insomma… Da questo punto di vista è una città molto piccola, per cui non mi concedo facilmente. Cioè, mi concedo, ma diciamo che abituato alla Russia, dove c’era da star male, devo un attimino adattarmi… Poi, appena finisco di giocare, ho deciso che passerò un anno alla ricerca della donna della mia vita – e non è che sia molto semplice!”.
Tabellino del tuo primo ritorno a Varese: sconfitta di 16 e un ottimo 0/8 dal campo.
“Beh, indipendentemente dalla partita l’accoglienza di quella sera rimane un ricordo incredibile e indelebile, l’emozione più alta della mia carriera insieme allo scudetto e al podio olimpico. Una cosa che non dimenticherò mai. Poi io sono un sentimentale, sembro quasi patetico certe volte: al palazzo erano tutti in piedi, io ho iniziato a piangere, tutto intorno a me c’era gente che piangeva… Insomma, è stato un momento pazzesco”.
E dire che due-tre campioni a Varese sono passati.
“Anna Bonsignori, storica segretaria di Varese, venne a dirmi che i ritorni lei li aveva visti tutti, da Bob Morse a Meneghin, ma a una cosa del genere non aveva mai assistito. Per me Varese resta intoccabile, abbiamo costruito negli anni qualcosa di irripetibile, vincere con un gruppo di quel tipo è stato un’apoteosi”.
Però, ti diranno, gira e rigira hai vinto solo uno scudetto.
“Ma non lo cambierei per nulla al mondo. Se me ne offrissero dieci altrove contro uno a Varese direi di no. Io litigavo sempre con Maurizia [Cacciatori, pallavolista e storica ex, ndr] che aveva vinto non so quanti scudetti e coppe. Ma le dicevo: tu hai vinto a Varese? No? E allora sta buona!”
Non ammetti discussioni a riguardo.
“Varese per me è la pallacanestro, non c’è altro. Poi sono affezionato a Bologna, a Udine dove ho giocato tre anni, sono sempre felice di tornare a Livorno, a Trieste ci sono nato… Ma Varese è un’altra cosa”.
Parlaci di com’è cominciata, allora, questa storia d’amore assoluta.
“Varese è stata una crescita, non solo mia. Ho giocato con Toni Bulgheroni, con cui ho fatto anche il militare assieme; quando arrivai la prima volta venne suo fratello Edo a prendermi, che aveva due anni più di me. Mio padre ha giocato alla Robur e mi ha sempre parlato benissimo della famiglia Bulgheroni. Insomma, era tutto molto in famiglia. Poi Toni diventò prima DS e poi presidente, la nostra crescita è stata parallela – la mia e quella di Toni, Edo, Menego, Sandrino o di Zanus, che all’inizio doveva andare a Milano”.
Facevi parte dell’arredamento della Pallacanestro Varese.
“Il clima era unico. Mi ricordo prima di gara-3 di finale scudetto: io, Bruno Arena dei Fichi d’India e tale Raimondo, a cena con altre cento persone. Questo Raimondo negli anni era sempre lì, col suo maglione rosso che mi inseguiva a bordocampo, quando facevo canestro praticamente esultavamo insieme, un personaggio mondiale. Quella sera si scherzava con tutti, Raimondo è uno che spara cazzate così buone che potrebbe fare TV ma insomma… quella era Varese. Finita la partita dello scudetto cena diciamo ‘ufficiale’ e poi tutti al nostro solito ristorante a festeggiare con la gente, i nostri amici. Poi si dice che non si vive di ricordi, ma vaffanculo! Di ricordi ci si vive, eccome – e ci godo pure!”.
Visto che smetti di giocare, i peggiori personaggi della tua carriera ce li dici?
“Il più brutto in assoluto é Mergin Sina, il classico ‘scacciafighe’. Quando andavamo in giro facevo finta di non conoscerlo, in discoteca era impossibile beccare anche il più cesso che c’era se lui era nel raggio di un metro e mezzo. Però di una simpatia strepitosa… Aveva una cosa sola di bello, gli occhi verdi, ma in quella faccia lì sembravano due occhi pallati, da paura: vi giuro, una delle cose più terrificanti che abbia mai visto”.
E tra gli allenatori?
“Nella Top Horror c’è di sicuro il momento in cui ho visto nudo Dado Lombardi, uno dei momenti più scioccanti della mia vita. Anche lui è un amico di famiglia, perché mio padre gli aveva fatto da vice in passato. Ci raccontò una storia in cui sosteneva di aver rotto otto denti a un tizio di Cantù, come se uno tirasse un pugno e poi contasse i denti rotti. Me la raccontò mentre si stava facendo massaggiare da Galleani, coperto dall’asciugamani, ma a un certo punto sradicò il buon Sandro, gettò via l’asciugamani e andò avanti nudo a raccontare. Avevo le lacrime agli occhi, una cosa indescrivibile”.
Basta così?
“Beh no, merita una menzione speciale anche Charlie Foiera: situazione familiare allo sbando, con la mamma che fa i massaggi, il babbo che vende il cocco in spiaggia… [ride]. Il povero Charlie è rimasto sconvolto a vita dalla vista di un transessuale che stava con uno in giacca e cravatta nei bagni di una discoteca. E poi come dimenticare l’orchite di “Piccolo” Knezevic, una delle cose più brutte che ho visto nella mia vita”.
Chi ti è stato più vicino, tra i personaggi incontrati fuori dal campo?
“È strano, perché io mi reputo una persona molto fortunata però alla fine mi trovo sempre con il nulla in mano. A Varese ho avuto amicizie pazzesche: Paolino, Andea Sterzi, Leo Fiore… Con loro e con Giorgino una volta abbiamo percorso il tratto Luino-Varese in tre ore e mezza anziché nei normali 25 minuti, perché ci siamo messi a cantare in ogni lingua possibile una canzone degli ‘All 4 One’! Personaggi magnifici, ma alla lunga – col fatto di andare a giocare altrove – ti allontani da tanti amici: prima li senti spesso, poi un pochino meno, poi addirittura finisce che li perdi di vista. Ho comunque un sacco di persone a cui voglio molto bene: Irma e Sergio, ad esempio, proprietari del ristorante dove andavo sempre a Livorno, che mi facevano sentire in famiglia. Una persona su tutte è Franco, purtroppo scomparso questa estate: per otto anni è stato un secondo padre, per me”
Che Italia hai trovato dopo due anni in Russia?
“A Mosca devo dire che è tutto un altro mondo. Un esempio: due persone che fanno un incidente sono capaci di bloccare per ore una strada a una corsia, perché non esiste che facciano la constatazione amichevole, e la gente rimane lì finché non arriva la polizia. Vivendo all’estero vedi cose che sul momento magari dai per scontate, poi però ti rendi conto quando torni che alcune cose all’estero funzionano diversamente – e ti chiedi come mai non sia lo stesso anche qui. Ti sei quasi dimenticato come vivevi prima”.
Adesso stai scoprendo il Sud.
“Sono convinto che ormai in Italia cambiare città è quasi come cambiare nazione – tra Bologna e Capo d’Orlando sembrano due Paesi diversi. Capo d’Orlando è davvero un’isola felice. Io sono uno che ha paura di tutto – eppure mi è capitato di dormire con le chiavi appese fuori dalla porta di casa o di lasciare la macchina aperta con le chiavi nel cruscotto. Sono cose completamente sorprendenti per chi si immagina la Sicilia come il posto della mafia. Io, poi, sono passato da una città da 16 milioni di abitanti a una da 13.000. Qui c’è una familiarità incredibile, i miei vicini – che sono persone impagabili – ci sono per tutto quello di cui posso aver bisogno”.
Hai accennato all’inizio a Enzo Sindoni: che rapporto c’è con il tuo attuale presidente?
“Credo che sia una persona estremamente sentimentale, molto genuina e affettuosa. Vi potrei leggere il suo ultimo messaggio, qualcosa di commovente: come si fa a non giocare per uno così?”.
Insomma, alla faccia di chi ha un po’ sorriso della tua scelta di firmare lì.
“Dirò di più: adesso nel basket se ti danno 10 devi fare 10, se sul contratto c’è scritto che puoi andare due volte in bagno, alla terza ti multano – insomma, se fai o vuoi qualcosa di extra paghi. Qui sono venuti i miei genitori a trovarmi, io li adoro, ma dopo una settimana che ce li avevo per casa mi avevano fatto due palle grosse così… Sindoni lo è venuto a sapere, li ha portati a vedere tre appartamenti e li ospiterà fino a fine stagione!”.
Poz, ci avviamo alla conclusione, anche perché ti reclamano [squilla più volte il suo cellulare, la serata è lunga e il Poz è sempre molto richiesto, ndr]. Via ai quintetti: te escluso, i più forti che hai mai visto, giocandoci contro o assieme…
“Io fuori? Ma stiamo scherzando? Sarei chiaramente il titolare!”.
Allora metti il tuo cambio e gli altri quattro titolari.
“Allora: Michael Ray Richardson, Arijan Komazec, Charlie Foiera, Vinny Del Negro e Arvydas Sabonis. Anzi, togli Foiera e metti Danilovic!”.
E i più scarsi?
“Facile: Foiera Charlie, Charlie Foiera, quello di Bertinoro a cui ho fatto da testimone di nozze, quello che gioca a Ferrara col numero 16, il mio compagno di squadra a Varese dopo lo scudetto”.
Il quintetto dei tuoi amici?
“Oh Madonna, una volta era facilissimo, ne mettevo dieci e via! Adesso ragazzi miei, che dire… Proviamo: Orsini, Malavasi, Van Den Spiegel… Ce ne son troppi, dai… De Pol, Meneghin, Loncar, che va di sicuro in quintetto, Bill Edwards, Gorenc, il numero uno, Charlie Foiera… Ho giocato troppi anni, cavolo… Giovanni Sabbia, Bonsignori, Calbini… troppa roba… Delfino, Smodis, Basile… Sono troppi!”.
Van Den Spiegel ti ha mai dato una percentuale sullo stipendio, visti i pick and roll alla Effe?
“Poteva davvero farlo! È diventato uno dei giocatori più ricchi d’Europa, guadagna un milione di euro! È un ragazzo di un’intelligenza fuori dal normale”.
Una curiosità: tu, Pecile, Cavaliero, Attruia… Tutti triestini e tutti playmaker, chi più chi meno. E tutti dei gran personaggi!
“È vero, non siamo mica normali! Non so, sarà la bora che porta via le cellule, ci fa ingerire determinati virus. Forse è perché siamo isolati… Boh! Comunque è vero che non siamo normali. Prendi Attruia: una sera lo stavo cercando in discoteca al Pineta perché dovevamo andare via e l’ho trovato da solo in un angolo che leggeva un libro. S’è mai visto uno che legge un libro in discoteca?”
Poz, per chiudere sul serio: le tue considerazioni guardando indietro tutta la tua carriera?
“Quanto mi son divertito ragazzi! Avrei potuto far di più, di meno, non lo so, ma ne ho viste di tutti i colori. Credo che la qualità della vita è la cosa che conta di più, e poi ho giocato con dei tegoli [cretini???, ndr] mai visti. Anche questi di Capo d’Orlando, ragazzi miei, sono degli imbecilli… A Messina una sera siamo usciti che sembravamo gli hooligan! Da un po’ di tempo gira questa frase mia – ‘Fai quello che non ho fatto io e andrà tutto bene’ – e sembra che sia una gran genialata. Ma l’unico consiglio reale che do a un ragazzino che gioca è: ‘Diventa un giocatore e inizia a guadagnare: ti diverti come un porco!’. Forse perché è un ambiente sano, fatto di gente incredibile. Per me, purtroppo, ormai è finita”.
A proposito di promozione del basket (in Francia)
Addetti ai lavori e appassionati capaci di comprendere la lingua francese se ne saranno già accorti, per gli altri segnalo quanto accadrà il prossimo 20 settembre a Parigi.
La prossima edizione della supercoppa francese (che lì chiamano “Le Match des Champions”) tra l’Elan Chalon e il CSP Limoges si giocherà non all’interno di un palazzo dello sport, ma al “Palais des Congrès“.
I giocatori, quindi, saliranno sul palco in senso letterale. Mi è capitato di vedere qualcosa del genere: New York, 2010, Radio City Music Hall. In occasione del “World Basketball Festival“, i giocatori di Team USA si esibirono in una sfida amichevole tra loro, nel quadro della preparazione per i campionati Mondiali che si sarebbero svolti di lì a poco in Turchia.
Evento preceduto, tra le altre cose, da un concerto di Jay-Z, che diede vita per oltre mezz’ora a uno spettacolo di altissimo livello.
Non credo che a Parigi riusciranno a coinvolgere una personalità di livello simile, ma di sicuro l’evento merita grande attenzione.
Il basket francese, pur con tanti suoi limiti, nel corso degli anni ha cercato di sviluppare idee nuove (anche sbagliate, come la finale per il titolo su gara secca e in campo neutro, a Bercy), e questa iniziativa non fa eccezione.
Avranno anche meno soldi e meno mezzi di altri, ma se non altro qualcosa provano a fare. Ripeto, pur con tanti limiti strutturali e non. In questo, abbiamo solo da imparare. Ah, no: noi avremo i playoff tutti al meglio delle sette partite. U-A-U.
Pietro
Suggerimento: “Klitschko”, il film
Per me, da vedere.
Perché racconta una bellissima storia d’amore tra fratelli. Il fatto che entrambi siano, contemporaneamente, detentori del titolo di campione del mondo dei pesi massimi (Wba, Wbo, Ibf e Ibo per Wladimir, Wbc per Vitali) la rende assolutamente unica.
Mi piace perché è una storia vera. Mi piace perché se questi due vengono percepiti come robot, di solito, finalmente queste immagini restituiscono loro la passione, la dedizione, il calore, il talento che dovrebbe essergli sempre riconosciuto.
Vitali che dice al fratello ormai grande “I nostri genitori mi hanno detto di prendermi cura di te da bambino, e non mi hanno ancora detto di smettere“, le immagini dell’uno e dell’altro a bordo ring mentre il consanguineo è a pochi metri di distanza al centro dell’azione, commuovono. Almeno me.
Ci vuole coraggio per dire al proprio fratello di andarsene via perché disturba, quando fino a quel momento hai diviso con lui ogni momento della tua vita. Ce ne vuole per toccare sportivamente il fondo, essere bollato da tutti come un perdente e diventare un campione, come ha fatto Wladimir. Il campione, anzi, visto che sembra ormai intoccabile.
Serve un gran cuore per combattere battaglie perse una dietro l’altra nei meandri della politica in Ucraina, accettare questa sfida mettendoci la faccia e talvolta il corpo, sapere di essere forse impotente di fronte a logiche diverse, magari perderla sempre ma non smettere mai di credere che la lotta sia giusta. E tornare dopo anni, e un ritiro dovuto a un grave infortunio, per riprendersi una cintura lasciata senza combattere. Come ha fatto Vitali.
Serve un gran carattere per resistere alla dura disciplina di un padre militare quando il mondo era ancora quello dell’Ovest contro l’Est in tutti i campi, quando il mondo era quello di Chernobyl. E quel padre – con spirito di sacrificio – accetterà il suo destino di esporsi a quella contaminazione, ricavandone un cancro che lo ha portato alla morte l’anno scorso. E serve il doppio del carattere per resistere alle tentazioni e alla voglia di cambiare, una volta usciti dall’Ucraina e scoprire che il mondo, là fuori, non sembrava poi così male come era stato descritto.
Serve un orgoglio incredibile per riproporsi sul ring dopo le sconfitte orribili riportate da Wladimir Klitschko contro Sanders e Brewster. Servono due palle così per continuare a combattere come ha fatto Vitali contro Lennox Lewis, finché non lo fermarono con una ferita spaventosa sopra l’occhio sinistro.
Serve un amore infinito per prendere un cellulare in mano e chiamare la mamma appena l’incontro è finito. E per chiedere a lei come sta.
Servono pugni devastanti per battere tutti gli avversari possibili. Serve un gran senso dell’ingiustizia per dire che è colpa di questi due meravigliosi uomini se i pesi massimi e la boxe sono in crisi, come se vincere sempre dominando fosse una colpa.
Per me, il regista Sebastian Dehnhardt ha fatto un bel lavoro nel cercare di raccontare tutto ciò.
Pietro
Io e la boxe: cosa cercavo, cosa ho trovato
Amanti delle figure retoriche, accomodatevi. Fuori.
Vi racconto i miei primi quattro mesi di pugilato, ma gli stereotipi non ci sono, o almeno non sono quelli che di norma affollano le storie di pugilato.
Almeno una cosa in comune con Roberto Cammarelle, star della nazionale italiana che tra poco sarà di scena alle Olimpiadi, ce l’ho: ho iniziato per dimagrire.
Non solo, però. La boxe, in me, c’è sempre stata.
È una cosa di famiglia: a oggi posso dire che tutto ciò che mi resta di un certo rapporto, che prevedeva – quando ero bambino – la visione comune con mio nonno de “La Grande Boxe” (con Rino Tommasi), e qualche grande incontro allora visibile sulle tv italiane. Eravamo in piena era Tyson.
Cos’è che mi piaceva nella boxe, da piccolo? Boh. Gli unici match che ricordo, tra quelli visti a quell’età, sono il secondo incontro tra Mike Tyson e Frank Bruno, quello tra Francesco Damiani e Daniel Neto, e poi un match dell’allora rampante Evander Holyfield che fece saltare i denti a un avversario. Ma non ricordo, mi spiace, il nome dello sfortunato.
Poche ore fa i denti stavano per saltare a me, colpa/merito di un gancio sinistro portatomi da Massimo, uno dei miei compagni di palestra.
Sembra strano, ma è lì che per la prima volta – da quando bazzico a Milano – ho trovato un posto oltre a casa mia dove sentirmi totalmente libero. Ci ho messo mezzo minuto a farmi passare l’ansia e l’imbarazzo per la mia ridicola forma fisica.
Tredici chili dopo non posso dire di essere davvero in forma, ma di certo non assomiglio a quello che ero quando per la prima volta ho varcato la soglia della “Ursus”.
No, non è un post pubblicitario. Ma non mi costa niente dire che lì ho trovato una serie di persone che al sacco, saltando la corda o sul ring mi hanno subito fatto sentire uno di loro.
Ho spesso dato la colpa a Milano del mio senso di solitudine, non so se sia veramente colpa della città o del mio carattere, comunque è bello pensare di sentirmi meno solo quando indosso fasce, guanti e paradenti.
Anche se (eccola, la retorica) ovviamente sei solo quando i colpi li dai, ma soprattutto quando li prendi. Sempre Massimo, quello del gancio, una sera mi ha detto: “Da quando hai preso il primo vero pugno in faccia ti sei svegliato, hai cominciato a sentirti vivo”. Non saprei dire se prima non mi ci sentissi, ma sì, in un certo senso ha ragione.
E se ho ancora paura – lo ammetto – quando mi arriva qualche colpo particolarmente pesante, beh, mi passerà.
Ho vinto la vergogna per il mio corpo, ho vinto la paura di buttarmi a fare pugilato dopo non aver praticato seriamente nessuno sport, ho vinto anche la paura quando ho “sentito” il primo pugno di un certo peso, che mi ha procurato il primo occhio nero della mia vita.
Vincerò anche la paura di farmi troppo male. Perché stare sul ring mi piace. La mia collega Stefania Bianchini (che commenta la boxe con me a Eurosport, ed è stata campionessa mondiale di boxe e kick boxe) mi ha detto una volta una cosa illuminante: sul ring si trova la libertà di esprimersi, al contrario di tante realtà molto più rigorose e codificate (lei faceva riferimento alle arti marziali, ma di esempi se ne potrebbero fare altri).
Quando partono quei tre minuti sai che sarai tu, la paura dei pugni, il tuo avversario. Non resta che muoversi, studiare, capire, leggere le situazioni e tirare fuori il meglio che si ha dentro. Non diventerò mai un vero pugile, del resto non è per questo che ho intrapreso questa mia piccola avventura.
Volevo solo trovare un modo di migliorare me stesso. Sapevo che avrebbe fatto bene al mio fisico, non sapevo che mi avrebbe reso più libera la testa.
E per questo, al mio maestro Francesco e a tutti gli altri che lavorano in palestra con me, istruttori e allievi, non posso che dire grazie. Di cuore.
Pietro
Nerazzurri a Pinzolo. Ma la domanda è: quand’è Inter-Cagliari?
Voi direte: e che mi frega? Giusto, cioè, siete voi dalla parte della ragione. Ma la ragione non è uguale per tutti. Inter-Cagliari, per me, è la versione rimodellata (per le mie personalissime esigenze) del “clasico”. Io e mio fratello, che vive a Parigi, da tre anni a questa parte ci ritroviamo con una casualità scientifica a Milano il giorno di: Inter-Cagliari.
Puntuale, preciso, impeccabile. Mai una volta che ci sia un derby o comunque una partita di “cartello”. Inter-Cagliari, appuntamento fisso. “Mi raccomando, controlliamo appena esce il calendario: a questo punto prenoto”. Affezionarsi, almeno un po’, ai nuovi stranieri proposti di volta in volta dai sardi. Rispettare come vecchi amici Daniele Conti e l’eterna batteria di centrocampisti rossoblu.
Riscoprire l’insofferenza interista al primo cambio di Mourinho avanti 3-0 (“No, Muntari no!”); prevedere con leggero anticipo la “fatal Schalke04” dopo aver visto l’Inter-Cagliari nella versione “joia e sentimentu”, fare una fatica mostruosa per aver ragione dell’armata (?!?!) di Ballardini, partecipare al collettivo urlo liberatorio “Tiiiiiiraaaaaa!” indirizzato a Mauro Zarate in occasione del sedicesimo dribbling consecutivo, vedere un fratello fino a quel momento lucido a momenti franare in campo per urlare al primo gol interista di Coutinho.
Tutto questo è Inter-Cagliari, almeno da tre edizioni a questa parte. Una semplice occasione di stare con mio fratello. Ma per gli amanti della statistica, vi ripropongo la lista completa degli eroi che hanno calcato il prestigioso manto (quando è tale) dello Stadio Giuseppe Meazza di Milano “in San Siro”.
INTER-CAGLIARI 3-0 (stagione 2009/10)
MARCATORI: 7′ p.t. Pandev, 20′ p.t. Samuel, 2′ s.t. Milito.
INTER (4-3-3): Julio Cesar; Maicon, Cordoba, Samuel, Santon; Zanetti, Cambiasso, Thiago Motta (dal 30′ st Mariga); Pandev, Milito (dal 38′ st Balotelli), Eto’o (15′ st Muntari). (Toldo, Materazzi, Krhin, Quaresma). All. Mourinho.
CAGLIARI (4-3-1-2): Agazzi; Dessena, Canini, Astori, Agostini; Biondini (dall’11′ st Barone), Conti, Lazzari; Jeda (dal 38′ st Nainggolan), Nené (dal 15′ st Larrivey), Matri. (Vigorito, Ariaudo, Marzoratti, Parola). All. Allegri.
ARBITRO: Andrea Gervasoni di Mantova.
NOTE: Ammoniti: Thiago Motta e Milito per gioco falloso.
INTER-CAGLIARI 1-0 (stagione 2010/11)
MARCATORI: 7′ p.t. Ranocchia
INTER (4-2-3-1): Julio Cesar; Maicon, Ranocchia, Cordoba, Nagatomo; Zanetti, Thiago Motta (dal 27′ s.t. Cambiasso); Eto’o (dal 16′ s.t. Stankovic), Kharja (dal 33′ s.t. Mariga), Pandev; Pazzini. (Castellazzi, Obi, Materazzi, Coutinho). All. Leonardo.
CAGLIARI (4-3-1-2): Agazzi; Pisano, Astori, Canini, Agostini; Biondini, Conti, Lazzari; Cossu (dal 25′ s.t. Nainggolan); Nené, Acquafresca (dal 19′ s.t. Ragatzu). (Pelizzoli, Ariaudo, Laner, Missiroli, Perico). All. Donadoni.
ARBITRO: Domenico Celi di Campobasso.
NOTE: ammoniti Cossu per proteste, Mariga per gioco scorretto, Maicon per c.n.r..
INTER-CAGLIARI 2-1 (stagione 2011/12)
MARCATORI: 9′ s.t. Motta (I), 15′ s.t. Coutinho (I); 45′ s.t. Larrivey (C)
INTER (4-3-1-2): Julio Cesar; Jonathan, Ranocchia, Samuel, Zanetti; Stankovic, Motta, Cambiasso; Coutinho (23′ st Obi); Pazzini, Zarate (1′ st Alvarez). A disp.: Castellazzi, Cordoba, Faraoni, Poli, Milito. All.: Ranieri.
CAGLIARI (4-3-1-2): Agazzi; Pisano, Canini, Ariaudo, Agostini; Biondini, Conti, Ekdal (16′ st Ibarbo); Nainggolan; Nené (14′ st Larrivey), Thiago Ribeiro. A disp.: Avramov, Perico, Gozzi, Rui Sampaio, Ceppelini. All.: Ballardini.
ARBITRO: Antonio Damato di Barletta.
NOTE: ammoniti: Conti, Pisano (C).
Pietro
Francesco Repice e Mario Balotelli
Mentre i tifosi italiani riscoprono Mario Balotelli – e lui si lascia riscoprire volentieri – ripubblico qui un piccolo estratto del libro “Inter, quella notte” (Libreria Dello Sport, 2011) scritto insieme a Matteo Mantica e Francesco Repice. Proprio il radiocronista Rai ha dedicato un pezzo a Balotelli, un “endorsement” in tempi non sospetti, non di certo un’improvvisa salita sul carro. Per questo, oggi, ve lo ripropongo qui così com’è in pagina, senza grassetti né aggiunte da parte mia.
Pietro
QUANTO CASINO PER MARIO
“Buuuuuuuuuu buuuuuuuuuuuuuuu”. Pomeriggio di una domenica qualsiasi a Verona; Chievo Verona-Inter. È sufficiente che Balotelli prenda la palla per scatenare la stupidità e l’ignoranza senza lacune di (per fortuna) pochi spettatori col cervello annacquato da chissà quali inarrivabili stronzate. Il cronista, verghianamente parlando, non fa altro che sottolineare quanto sta accadendo lasciandosi andare, poco verghianamente, ad un minimo di commento ovviamente sdegnato. Niente tuttavia che possa in qualche modo innescare la reazione piccata del presidente Campedelli, il quale a fine partita scende in sala stampa per dire che no, gli ululati razzisti non sono partiti dalla bocca dei tifosi di casa, bensì dai supporters interisti all’indirizzo di Luciano (ex Eriberto) e che sì, ancora una volta, i mezzi di comunicazione di massa se la sono presa con il povero Chievo senza azzardarsi a scalfire il granitico monolite morattiano con critiche extracalcistiche alla sua tifoseria.
Il cronista, presente alla tumultuosa conferenza stampa, fa sommessamente notare che gli ululati li ha sentiti con le sue orecchie e che il suo dovere è quello di portarli a conoscenza di chi ascolta a prescindere da dove partano e a chi siano indirizzati, perché questo è il sacrosanto diritto di chi sta seguendo la partita in radio ed è anche l’imprescindibile obbligo di chi quella partita sta raccontando. La signora Bedi Moratti, anche lei nei pressi, annuisce e il cronista si sente in qualche modo gratificato da una vicinanza così autorevole.
Ecco, tutto questo per dire che Mario Balotelli non è un mio amico; che con Mario Balotelli non ho mai parlato, all’Inter, al Manchester City, come in Nazionale; che Mario Balotelli avrebbe tutti i motivi per essere un ragazzo felice (soldi, notorietà e calci al pallone); che Mario Balotelli dovrebbe apprezzare di più ciò che la natura e la fortuna gli hanno regalato. Tutto questo però per dire anche che Mario Balotelli, ogni volta che mette piede su un campo di calcio – esclusi quelli bellissimi della Premier League – viene fatto oggetto di “attenzioni” che, al di là di ogni umana comprensione, possono e devono essere considerate di stampo razzista. A meno che tutti non ci vogliamo nascondere dietro formulette di circostanza del tipo “gli ululati servono solo a scoraggiare l’avversario e non ad offenderlo”, oppure “gli ululati sono frutto dell’ignoranza di chi non conosce nemmeno il significato delladiscriminazione razziale” eccetera, eccetera…
Non è così! Quegli ululatisono figli dell’odio che come un tarlo velenoso sta rosicchiando dalle fondamenta le nostre curve. E l’odio ha una matrice ben precisa: proviene da ambienti riconoscibilissimi e rintracciabilissimi che stanno compiendo un’operazione subdola e strisciante: sfruttare il malcontento e la rabbia di parte della popolazione per seminare il germe dell’intolleranza e dell’odio razziale appunto. Non si spiegherebbero altrimenti striscioni apparsi persino in un’amichevole che la Nazionale di Cesare Prandelli ha recentemente disputato con la Romania. “Non esistono negri italiani”, quello srotolato in bella evidenza tra un gruppetto di non (colpevolmente) meglio identificati “Ultras Italiani” che hanno preso la cattiva abitudine – da un po’ di anni a questa parte – di seguire le partite degli azzurri.
Sarà bene che certi osservatorii facciano un salto di qualità e indichino a chi di dovere le culle di questi neonati dell’intolleranza che però rischiano di crescere e fare proseliti nei nostri stadi. Detto questo, il finale di Inter-Barcellona targato Mario Balotelli rischierebbe di far saltare i nervi anche al Mahatma Gandhi e di certo ha scatenato l’incazzatura nera, bianca, rossa, gialla e viola dei tifosi interisti senza distinzione di settore e di età. Un tiro da metà campo senza capo né coda; due tentativi di sottrarre palla all’avversario (Iniesta e Pedro!!!!!) di tacco a pochi metri dall’area di rigore di Julio Cesar; altrettanti mancati ripieghi sul giocatore blaugrana che se ne andava palla al piede senza incontrare la benché minima opposizione. Così sono andate le cose in quel convulso, drammatico, spettacolare, indimenticabile finale di partita tra la banda Mourinho e l’invincibile armata di Pep Guardiola.
E tutto questo con l’Inter in vantaggio per 3-1. Vale a dire che un gol in più o in meno in quei casi fa (come poi è puntualmente accaduto) tutta la differenza del mondo. E tutto questo in una semifinale d’andata di Champions League! Il cronista di cui sopra, mai dimenticherà gli sguardi lividi di rabbia dei seguaci della
Beneamata, quando Balotelli, al fischio finale dell’arbitro, indispettito (?!?!?!?!?!) dalla reazione degli spalti di San Siro decide di mettere in atto il gesto più profondamente insultante per un tifoso: scaraventare la maglia a terra, oltraggiarla, sancendo così di fatto il suo addio a Milano. Si narra che il dopo-partita di Inter-Barcellona sia stato alquanto turbolento per Mario Balotelli. Si narra che alcuni suoi compagni di squadra si siano fatti sentire con l’attaccante bresciano… e quando diciamo “sentire” usiamo un eufemismo. Del resto, la storia interista di Balotelli, specie con José Mourinho in panchina, è stata tutta un saliscendi di condanne e perdoni; di carezze e rimproveri; di bastoni e carote. E lui, SuperMario, nulla ha mai fatto per smussare gli spigoli di un carattere indubbiamente particolare: dal finale di Inter-Barcellona, al blitz di Striscia la notizia con tanto di maglia milanista al collo, ai novanta minuti di Inter-Siena con lo scudetto 2009 già cucito sul petto e lo Special One ad imprecare nonostante un gol segnato, perché quel pallone avrebbe dovuto metterlo in porta Ibra in corsa per la classifica cannonieri ed invece Balotelli non seppe resistere alla tentazione di calciare il pallone verso il portiere avversario piuttosto che porgerlo deferentemente al suo più famoso collega di reparto che, nel frattempo, si era già graziosamente accordato proprio con il Barcellona per andare a vincere l’unico trofeo che tutt’ora non può esibire nella sua lussureggiante bacheca: la Coppa dei Campioni.
Che storia. Grazie a quella partenza, l’Inter di Moratti ha potuto ingaggiare tale Samuel Eto’o e vincere la Champions League l’anno seguente dopo centottanta minuti da delirio proprio contro il Barcellona di Zlatan. Sono le storie infinite che può regalare il calcio quando la logica del campo condurrebbe su una strada diversa da quella del Santiago Bernabeu. E dire che Mario Balotelli, un piccolo paragrafo di quella magnifica storia è, nel bene e nel male, riuscito a scriverlo. Da qui i rimpianti, finanche la rabbia per non essere riusciti a trattenere un talento così scintillante nel campionato italiano. Ci sta provando Cesare Prandelli a restituire Mario Balotelli a quello che è e rimane il suo Paese.
La maglia azzurra è forse l’unica capace di convincere SuperMario a convogliare tutta la sua forza in un progetto italianissimo come quello della nazionale. Gli Europei, il Mondiale brasiliano, obiettivi ambiziosi e nobilissimi che sono entrati nella testa e nel mirino di un giocatore straordinario quanto inquieto. Sarebbe bellissimo vederlo esultare, vincere, gioire con la maglia azzurra sulle spalle. Da titolare, da protagonista, da italiano vero. Alla faccia dei “buuuuuuuuuuuuuuuu”; alla faccia di quelli che “non esistono negri italiani”; alla faccia dei neo-razzisti che infestano i nostri stadi e che per quanto pochi possano essere fanno venire il voltastomaco solo a sentirli e vederli nelle loro infami manifestazioni di intolleranza e disprezzo verso un ragazzo con la pelle nera.
Quando Mario capirà che zittendo questi personaggi, impartirà loro una lezione severissima di civiltà e riscatterà quei suoi colleghi e non, di certo meno famosi, che sopportano quotidianamente vessazioni di ogni genere, allora anche chi racconta e vede calcio con gli occhi puliti della passione potrà urlare al cielo che sovrasta uno stadio di calcio tutta la gioia di un gol, di una vittoria firmata Mario Balotelli. Io ci spero, ci conto. Io sto con Mario Balotelli.
Così parlava Simone Pianigiani (3 anni fa)
Oggi che si è chiuso un secondo ciclo di tre anni (per un totale di sei scudetti consecutivi), e che il c.t. azzurro Simone Pianigiani ha annunciato la sua decisione di lasciare la Mens Sana Siena, suo club di sempre, ripropongo una mia intervista realizzata per il “fu” mensile Dream Team con il coach senese dopo la conquista del terzo scudetto. Il suo cammino era già da record, non poteva ancora sapere fino a che punto.
Pietro
L’IMBATTIBILE
Lo dicono i numeri, che in Italia lo mettono al livello – se non sopra – dei migliori allenatori di sempre. Merito di Siena, certo. Dei giocatori. Di un progetto societario e aziendale importante. Ma merito, soprattutto, di Simone Pianigiani
SIENA – Da ragazzo a uomo. Da progetto a splendida realtà. Da assistente a capo. Il tutto, non muovendosi mai da casa. Simone Pianigiani è un autentico figlio di Siena – con la quale, dice, “ho un rapporto viscerale” – perché è Siena che oggi, dopo anni di paziente attesa e di tanto lavoro, da ragazzo gli ha permesso di diventare uomo, all’interno dell’ambiente di cui voleva far parte.
Oggi, 119 vittorie e 3 scudetti dopo (per quanto concerne il record “italiano”), Pianigiani è semplicemente uno dei migliori allenatori d’Europa – parole e musica di Zelimir Obradovic. “Ovviamente è qualcosa di molto stimolante e gratificante essere arrivato al punto da poter sfidare sul campo allenatori come lui, come Messina e tutti gli altri”, ci dice Pianigiani. Uno che, prima di farsi consegnare le chiavi di casa da parte del presidente Ferdinando Minucci, ha lavorato come assistente per grandi nomi della panchina.
Gente passata da Siena anche per arricchire il bagaglio di esperienze del nostro protagonista, se è vero – come Minucci ha sempre sostenuto – che Pianigiani era un vero e proprio progetto della società. Siena come punto di partenza, quindi. E Siena, finora, anche come punto di arrivo del 40enne allenatore della città del Palio (“Che però non riesco più a seguire, visto che in quei giorni sono sempre preso tra ritiri e altri impegni”): “Paradossalmente ho avuto la possibilità di fare il percorso giusto rimanendo fermo. Restando a Siena in tutti questi anni ho fatto tutte le esperienze possibili: allenare i giovani, reclutarli, fare scouting, vivere il ruolo di assistente ad alto livello [di allenatori come Pancotto, Melillo, Dalmonte, Rusconi, Frates, Ataman e Recalcati, ndr]. Poi il part-time di Carlo [Recalcati] – per i suoi impegni da commissario tecnico della Nazionale – mi ha lasciato più spazio per essere protagonista anche con la prima squadra”. Esperienze importanti.
“Certo, perché facendo l’assistente in un certo senso ‘rubi’ spunti a tutti coloro con cui lavori: e per me uno spunto non è mai una cosa tecnica, ma un insieme di cose. Una parola, una determinata situazione, la gestione di un rapporto. Alla fine noi siamo il frutto della somma delle nostre esperienze, poi è chiaro che ogni allenatore deve avere una sua idea di come vuol fare pallacanestro, deve avere un certo approccio al lavoro, un’etica di allenamento, e le priorità sono sempre molto personali e caratterizzanti. Personalmente mi sento in una situazione privilegiata e cerco di non deludere le aspettative di chi mi considera un allenatore di livello. Arrivare a giocare l’Eurolega è il massimo per la mia professione: poter sfidare gente come Obradovic, Messina, Gershon e tutti gli altri è impagabile”.
Fare l’allenatore è un mestiere “totalizzante”: la leggenda ti vuole addirittura maniacale. Perché?
“Perché penso che sia normale, al di là di tutto. Si va in campo, si cena tardi dopo la gara, si riguarda la partita, si fanno quelle valutazioni che magari – in una serie di playoff – la mattina dopo devi essere pronto a comunicare ai giocatori. È vero, a me il lavoro piace prenderlo in maniera totalizzante, ma non voglio apparire, né io né il mio staff, un maniaco o un ossessionato dal risultato o dalla tattica. Vedo il mestiere di allenatore come qualcosa di artistico, in un certo senso: bisogna abbinare tutta una serie di cose, ci sono mille spunti, occorre fare un lavoro molto creativo. È in questa chiave che mi piace pensare, ad esempio, ai tanti momenti in cui ci siamo ritrovati a lavorare anche a orari non consueti. Non cerchiamo solo particolari tecnici, ma anche la maniera migliore di dare ai giocatori stimoli sempre nuovi, per tenere sempre sollecitata la loro attenzione. Perché questo lavoro sia efficace serve creatività, gente che propone. Mi piace pensare a un laboratorio di idee, in termini molto moderni”.
Alla fine però è il capo allenatore ad avere l’ultima parola, a giocarsi la sua credibilità.
“È normale che il capo allenatore abbia le responsabilità maggiori. Però in tutto questo processo c’è molto entusiasmo da parte di tutti, credo che nello sport serva questo. Noi allenatori dobbiamo creare un sistema nel nostro lavoro, per poterlo fornire ai giocatori, dei quali dobbiamo rispettare il talento e la genialità. Ma il talento, senza un sistema, è fine a se stesso”.
Usiamo una parola che oggi appare un po’ inflazionata: progetto. Avete iniziato la stagione 2006-07 con l’idea di un lavoro su base triennale per ritornare a essere competitivi. Avete esagerato.
“Sì, onestamente credo che un triennio con questo record non sia mai appartenuto a nessuno, e probabilmente non si ripeterà tanto facilmente. Per noi era impossibile ipotizzare tutte queste vittorie. C‘era un programma triennale, con l’idea di tornare il terzo anno in Eurolega e provare a competere per il titolo. Ora, alla prima stagione abbiamo bruciato tutte le tappe, vincendo subito lo scudetto, ma non per questo il progetto si doveva fermare – anzi, necessitava di una nuova spinta. Tre anni sono anche un percorso significativo per fare dei bilanci e capire ora come andare avanti. Sicuramente intorno alla squadra tutti hanno ancora il desiderio di partecipare a un progetto molto coinvolgente, ora si tratta di capire – insieme al presidente Minucci – qual è il modo migliore di dargli continuità”.
Il presidente Minucci, la mattina dopo il titolo [quello del 2009], aveva parlato di due visioni diverse sul futuro della squadra: tu più conservativo, lui – anche per esigenze manageriali – più disposto a fare cambiamenti.
“Ma sostanzialmente eravamo e siamo d’accordo sull’idea generale, che è quella di non ripartire da zero, anche per non disperdere un patrimonio di lavoro fatto. Allo stesso tempo è giusto tener presente una certa progettualità societaria, ma anche immettere nuovi stimoli dentro al gruppo. E poi questi discorsi bisogna farli prendendo in considerazione quello che offre il mercato, le situazioni e le opportunità, intese come scelte che magari si è costretti a dover fare”.
Sempre su questi tre anni, i tuoi primi da head coach. Quali sono i più e i meno per Simone Pianigiani?
“Direi che la quasi totalità è positiva, al di là dei successi ottenuti. Sono stato felice di vedere crescere la squadra e i giocatori con il lavoro, mi ha fatto piacere sentire i miei giocatori rispondere alle sollecitazioni e ho apprezzato moltissimo il fatto di lavorare con un gruppo straordinario, anche dal punto di vista umano. Le cose meno belle, invece, sono legate a certe esasperazioni italiane, a certa stampa che tende più a fare polemica piuttosto che a esaltare le cose positive. Insomma, la constatazione che in generale se fai le cose molto bene vieni considerato più in Europa che in Italia. Qui si vive di astio e discussioni da bar, e invece proprio da questo punto di vista è stata molto bella la finale con Milano, giocata in un contesto civile, con tanta gente venuta a vedere il basket e che è rimasta fino alla fine anche se la squadra di casa ha perso. Un bel segnale”.
Dal tuo privilegiatissimo punto di vista, vedere altre squadre – oggi Milano, ieri Roma e Bologna – essere contente di “vincere lo scudetto degli altri”, considerando il Montepaschi fuori portata, come lo interpreti?
“Prima di tutto dicendo che noi non siamo fuori portata. Tutto quello che siamo ce lo siamo guadagnati con grande fatica, ed è questo che ha fatto la differenza. Noi abbiamo passato l’estate preoccupandoci della Supercoppa, poi della prima di campionato e poi via via del resto. Gli altri ci prendevano come punto di riferimento, mettendo al centro della discussione il fatto di avvicinarsi al nostro livello. Noi invece non abbiamo mai pensato di avere due, tre o quattro avversarie dirette, ma abbiamo considerato ogni partita come una sfida a sé – ognuna difficile. Detto questo, credo che le squadre che in una stagione arrivano in fondo, fanno una finale e raggiungono ottimi risultati debbano essere contente. Non possiamo continuare ad avere una logica sportiva per cui soltanto chi vince è bravo e gli altri sono dei perdenti. Per vincere o perdere, prima di tutto bisogna essere lì a giocarsela, e non è mai scontato”.
Quello che invece a volte si da per scontato è il vostro lavoro: “Siena è troppo più forte, più ricca, più brava”. Si è arrivati a un punto dove gli scarti plateali con cui vincete vi danneggiano?
“Questo fatto più che innervosirmi mi dispiace, soprattutto per i miei giocatori, perché non c’è il giusto rispetto per il lavoro che svolgono quotidianamente. Molti di quelli che dicono che oggi per noi è tutto facile tre anni fa non erano convinti del valore di certi giocatori, ragazzi che allora non avevamo mai disputato un playoff di Serie A o giocato un’Eurolega, a 30 anni. Per onestà intellettuale allora si dovrebbe esaltare a dismisura la mia squadra se se la gioca con le big europee pur senza Lavrinovic e Domercant, come di fatto è successo contro il Panathinaikos. Se noi siamo deludenti perché perdiamo contro una squadra che ha 15 giocatori tra i più forti d’Europa, allora il giochino non mi sta più bene”.
Ci sono stati, in questi tre anni, momenti particolarmente significativi all’interno del tuo gruppo?
“Ce ne sono stati tanti, dal punto di vista sia umano che professionale, sia nei colloqui con il gruppo che a livello individuale. Non è giusto renderne pubblico uno piuttosto che un altro, anche perché i rapporti non bisogna mai darli per scontati in un contesto di squadra dove si mettono insieme persone che non si sono mai viste prime e che arrivano da esperienze molto variegate. Basti pensare alla stagione che ha vissuto con noi un ragazzo come Joseph Forte, stagione che non ha replicato né prima né dopo. E poi ci sono gli stimoli che anche i giocatori hanno dato a noi allenatori. È stato un bel percorso, per tutti”.
Rewind. Quando ti hanno detto: ”Sei il coach”. Pensieri?
“Ho pensato che avevo fatto bene negli anni a non accettare proposte per andare via da Siena, rifiutando altre offerte da capo allenatore per aspettare di avere la chance di allenare questa squadra. Comunque fosse andata, ne sarebbe valsa la pena”.
Com’è Simone Pianigiani quando stacca la spina?
“Cerco di vivere comunque il basket a tutto tondo, perché la mia professione include i viaggi, il rapporto con gli altri, le passioni forti. Cerco però di sviluppare anche altro, cerco di ritagliarmi sempre uno spazio prima di dormire per prendere in mano un buon libro, piuttosto che per interessarmi sinceramente alle persone. E come nel mio lavoro cerco di andare sempre ‘dentro’ alle cose, fino in fondo, pensando che il basket sia solo un meraviglioso strumento per conoscere mondi, persone, situazioni diverse e vivere emozioni, che è la cosa importante”.
Curioso, quindi?
“È importante essere aperti a mille stimoli, quando vuoi ottenere il meglio nella tua attività e hai l’esigenza di appassionare e motivare chi ti sta intorno. I miei hobby? Mi piace il cinema importante, quello un po’ noioso [scherza], magari in bianco e nero. Così come la letteratura che viene considerata un po’ più ‘pesante’. Credo che anche nel mio mestiere serva saper leggere anche la terza pagina di un giornale, e la curiosità che cerco di avere credo che sia doverosa. Sono nella vita come nel mio lavoro: non un manager puro… più ‘umanista’, se così si può dire”.
Parlaci del tuo rapporto con la città Siena.
“Ogni senese è legato visceralmente alla sua città, per mille motivi. Io paradossalmente, facendo questo lavoro, la vivo meno e così il mio rapporto con Siena è quello di chi vorrebbe riappropriarsi un po’ di più di questa città. Oggi è questo il mio obiettivo a livello personale, proprio il contrario di quando si è giovani e si investono energie per crescere in fretta. Siena è magica da vivere nella sua totalità: mi piacerebbe fare delle vere e proprie vacanze nella mia città, poter scegliere un buon ristorante in collina, passeggiare in centro, prendere un caffè all’aperto, andare in contrada [lui è della Lupa, ndr]”.
Per chiudere: il sogno di Siena, e immaginiamo anche il tuo, è vincere l’Eurolega. Faresti un ‘voto’ pur di arrivarci?
“Onestamente no, la scaramanzia non mi appartiene. Divento matto quando non proviamo a fare il massimo per vincere, ma essere ossessionati dalla vittoria è il modo perfetto per non arrivarci mai”.

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