Un mazzo di chiavi

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L’appartamento che chiami casa, perché da qualche mese ci sono dentro le tue cose.

Delle strade che ora padroneggi, che sono sempre più piccole una volta che impari a orientarti.

Delle facce, delle voci, degli sguardi che non conoscevi diventano familiari.

Il tavolo di un bar diventa il tuo, senza sapere perché.

Cose che hai portato rimarranno dentro lo stesso cassetto finché non te ne andrai, non ti muoverai di nuovo.

Memorizzare i negozi, contarli quasi, per capire di che cosa si vive da queste parti.

Incontrare qualche volta le stesse persone, provare a “localizzarle”, immaginarne la quotidianità.

Calcolare esattamente i margini di ritardo, di città in città: ovvero, sapere perfettamente da dove a dove ti serve almeno un quarto d’ora, quando al telefono sarai sempre lì “tra cinque minuti”.

Calcolare il tempo che è passato, valutare quanto sei rimasto negli altri posti, immaginare un’idea di futuro.

Mettere insieme tutte le cose di cui senti la mancanza, sapere che sono da qualche parte ad aspettarti. Chissà per quanto.

Dire “vado a casa”. “Sono a casa”. E qual è, casa?

Ce n’è sempre e solo una, è che adesso non me lo ricordo più.

Pietro

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