Le mie idee sulla riforma dei campionati di basket (vi avverto, è lungo sto pezzo)

Leggo dalla Gazzetta dello Sport di oggi un articolo firmato da Mario Canfora a proposito della riforma dei campionati di basket, che inizia con “Ci siamo quasi”, nel senso che le decisioni definitive sono ormai vicine.

Il nodo cruciale, si dice, è il secondo campionato, quello che oggi si chiama Legadue ed è un campionato professionistico a 16 squadre, con una promozione in Serie A.

Se ho capito bene, succederà questo (almeno negli intendimenti):

1. Non ci sarà più un solo girone da 16 squadre, ma due. Perché? Per accorpare, sostanzialmente, quello che oggi è il terzo campionato (La Divisione Nazionale A), ridurre il numero delle squadre formando un terzo campionato da quattro gironi da 16 squadre.

2. Attenzione, però: stesso livello ma non stesso valore. Dal secondo campionato alla Serie A uscirebbe comunque una sola promossa da 32 formazioni. Ci sarebbe un girone Gold (più importante) e uno Silver (meno importante). Il primo esprimerebbe 6 squadre ai playoff, il secondo 2. Perché?

3. Ci sarà anche una fase di playout dopo la stagione regolare: due gironi da 6 squadre: dalla 11° alla 14° del girone Gold, dalla 3° alla 10° del Silver. Ne usciranno due squadre che parteciperanno, nella stagione successiva, al girone Gold. Ma perché? Le ultime due del girone Gold, invece, andranno direttamente inserite nel Silver, e le ultime due del Silver al terzo campionato.

4. Eleggibilità dei giocatori: 7 italiani “di formazione”, un oriundo italiano, un giocatore di passaporto comunitario, uno extracomunitario. Ci sarebbe anche la norma che prevede l’utilizzo di 4 giocatori Under 22 “non obbligatori” nella misura in cui si può fare a meno di schierarli, pagando una tassa di 10.000 euro per ogni Under 22 utilizzato in meno rispetto alla norma. Quindi si possono avere solo giocatori over 22 pagando una tassa di 40.000 euro, che finirebbe in un fondo destinato a premiare, invece, le 5 società più virtuose nell’utilizzo dei giovani (parametri, però, da definire presumo in base all’impiego dei suddetti).

5. Dal terzo al secondo campionato, cioè da un totale di 64 squadre, usciranno solo due promosse per il girone Silver.

6. Questo campionato non sarà più regolato dal professionismo, ma avrà uno statuto dilettantistico.

Ecco le mie considerazioni, punto per punto.

1. Il campionato di Serie A, ormai da anni, è entrato in un circolo vizioso e quindi perdente: ci si è arrivati troppo facilmente, nel senso che troppi club che non avrebbero potuto sostenerlo economicamente e strutturalmente ci hanno messo i piedi e ci sono rimasti per anni. Il risultato? Abbassare il livello dei costi, certo, ma soprattutto della competitività, della capacità manageriale e organizzativa, anche decisionale. Negli anni si è puntato sempre più a sopravvivere e sempre meno al vertice, con la conseguenza che la Serie A ha “accolto” club che si sono rivelati pericolosi e pericolanti, ed elencare tutte le società fallite, scomparse, distrutte negli ultimi anni sarebbe un esercizio ormai troppo lungo. Non credo, per questo, che sia giusto allargare a 32 formazioni la possibilità teorica di accedere alla Serie A: si rischia di produrre uno scannatoio tra società guidate da capitani di ventura o presidentissimi dell’ultim’ora che per interessi particolari possano fare passi troppo lunghi rispetto alle proprie gambe. Magari arrivando in A, ma di fatto azzoppandola (azzoppando gli stessi club).

2. Ordine, ci vuole: il basket oggi soffre di una crisi di riconoscibilità, per molte persone facenti parte del “grande pubblico”, cioè quella massa che si cerca disperatamente di coinvolgere, è già complicato capire le regole di uno sport che non preveda i calci alla palla. Il minimo che il basket dovrebbe fare è avere campionati semplici da comprendere. Io, francamente, non capisco il senso di avere due campionati “quasi” allo stesso livello. Perché, messi così, il girone Gold e il girone Silver avrebbero valori competitivi estremamente differenti. Non capisco quindi il senso di dare la possibilità alla seconda classificata del Silver di fare i playoff a dispetto della settima classificata (magari per differenza canestri) del Gold. Perché non stabilire un semplicissimo ordine valoriale tra i campionati? Si può abbattere il numero delle squadre senza impastarli. Una A a 16 squadre è più che sufficiente, come una “B” a 16. Anzi, sono già troppe. Io porterei il numero totale delle squadre appartenenti ai primi due campionati a 28. Ricordo solo io che sono state ammesse ben quattro squadre (Verona, Ostuni, Piacenza e S. Antimo) all’attuale campionato di Legadue tramite ripescaggio?

3. Come sopra. Per attirare gente bisogna mettere ordine invece di incasinare le cose. A me questo sembra un campionato incasinato, e parecchio. Non ho mai capito il senso i campionati dei primi anni ’90 che mischiavano formazioni di A1 e A2 nei playoff scudetto. Quindi non lo capisco nemmeno di questi.

4. L’eleggibilità dei giocatori mi pare un tema ormai stucchevole. Tra professionisti, sinceramente, credo nella libertà: che i club siano messi in condizione di scegliere i giocatori migliori e/o più adatti in un libero mercato tra professionisti, che giochino i migliori e stop. I giovani vanno tutelati in altre sedi, e vanno tutelati anche con una diversa mentalità (cioè non minacciare gli allenatori alla seconda sconfitta di fila ma dando loro il tempo di lavorare, e quindi anche di sviluppare un giocatore). I paletti, lo abbiamo visto nel corso degli ultimi anni, servono solo a far lievitare i costi dei giocatori italiani e degli Under. E non credo sia smentibile (numeri alla mano) il fatto che moltissimi giocatori italiani abbiano un rendimento insufficiente per pensare di creare dei campionati strapieni di giocatori nostrani. Non ce ne sono abbastanza, altrimenti la Nazionale non avrebbe dovuto ricorrere a un playmaker oriundo per gli ultimi Europei, quindi ritengo che aumentare per decreto la presenza dei giocatori italiani ad alto livello sia folle e fuori dal tempo. La gente (intesa nuovamente come “grande pubblico”) ha bisogno dil vedere atleti che fanno canestro e spettacolo. Gli “X’ and O’” del gioco interessano a una fetta decisamente minoritaria, che per allargarsi deve almeno avere il tempo di apprezzare il lato più leggero di questo sport. L’idea degli incentivi per chi fa giocare più giovani, invece, mi piace. Ma…

4.1 Io proporrei una quota fissa da pagare per le formazioni di A e Legadue per finanziare dei campionati Under 19 gestiti dalle Leghe. Mia idea: i settori giovanili di queste società portano i loro Under 19 con loro, seguendo gli stessi calendari. I giovani delle squadre di A tra di loro, i giovani di Legadue tra di loro. Perché? Perché bisogna indurre i giovani più bravi a giocare per gli allenatori più bravi e le società che hanno migliori strutture. E uscirebbero dai campionati nazionali così come organizzati adesso? Sì, per quanto mi riguarda sì. Tanto cosa cambia? Chi lo sa, oggi, chi ha vinto l’ultimo campionato Under 19? A chi interessa? Non è meglio far giocare, per esempio, Siena-Milano o Bologna-Montegranaro al PalaEstra e alla Unipol Arena davanti a un po’ di gente con palla a due alle 18 se si gioca alle 20.30? Con lo stesso biglietto uno spettatore vedrebbe due partite, conoscerebbe i giovani migliori del proprio club e magari si avvicinerebbe al “main event” in un clima più rilassato e sportivo. Già vi sento: e se uno retrocede e ha tra gli Under 19 un fenomeno, che fa? Se lo può tenere, e magari – pensate – potrebbe giocare in Legadue, se è bravo, no? Oppure si cede a una squadra più forte, con un’adeguata compensazione. Così assurdo? Altra domanda: e dopo gli Under 19? Ragazzi, se uno a 19 anni sa giocare a pallacanestro si capisce. A 20 anni le tutele sono superflue. Che giochi nei campionati minori. O che faccia altro, se non ce la fa. Perché tutelare un giocatore non bravo a dispetto del suo valore? Due campionati di “A Under 19” e “Legadue Under 19” potrebbero invece essere, oltre che competitivamente interessanti, anche un serbatoio di talenti più fruibile e riconoscibile per gli stessi club e per il pubblico, secondo me. (come idea, una cosa così http://www.lnbespoirs.fr/)

5. Vale come sopra: 2 promozioni per 64 squadre, per me, sono folli. Questi campionati perderebbero di senso per troppe squadre, perché dunque i tifosi e gli investitori se ne dovrebbero interessare?

6. Dicesi dilettante: “Chi pratica un’attività, si dedica a uno studio non per professione ma per amore della cosa in sé o per passatempo”. Non mi sembra il caso di quasi nessuno dei giocatori e allenatori coinvolti attualmente nei campionati dilettantistici, per lo meno in DNA (3° campionato) e DNB (4°). Ho paura che “dilettantismo” sia un concetto abusato per consentire di abbassare i costi per ingaggiare professionisti de facto, in cambio – tra l’altro – di tutele clamorosamente inferiori per far rispettare gli accordi. Il che non è esclusiva responsabilità dei giocatori, ma ovviamente sono i club a guadagnarci, pagando meno tasse. Il punto è: regolarizzare di più, semmai spendere meno ma in maniera più sana, e chiamare le cose col proprio nome. Se una persona per lavorare e far mangiare i propri figli si dedica esclusivamente all’attività sportiva retribuita, questa persona non è da considerarsi dilettante, e bisogna regolare tutto nella maniera più adeguata (ed equa) possibile.

Pietro

Domenica a Pesaro il No-Star Game?

Domenica, a Pesaro, si gioca l’All-Star Game del basket italiano: in campo azzurri e migliori (o presunti tali) giocatori d’importazione.

Non ci sarà Alessandro Gentile, sostituito da Achille Polonara. Non ci saranno Andrea Cinciarini, playmaker della Bennet Cantù che ha sfiorato i playoff di Eurolega, né Luigi Datome dell’Acea Roma. Tutti e tre infortunati.

Non ci sarà nemmeno quello che oggi, probabilmente, è la miglior point guard in Europa, vale a dire Bo McCalebb. Ha dato forfait, e sarà sostituito da un altro senese, David Moss. Un’altra cosa.

Il georgiano della Canadian Solar Bologna Viktor Sanikidze, unico uomo del campionato con almeno 10 punti e 10 rimbalzi di media a partita e decisamente in grado di produrre giocate spettacolari, non è stato nemmeno convocato.

Il meccanismo di voto ha premiato un quintetto straniero di soli pesaresi e avellinesi. Si gioca a Pesaro, ok, avranno votato in tanti. Da Avellino, lo so anche per esperienze passate, i tifosi sono decisamente partecipi durante i sondaggi.

Ma tutti gli altri dove sono? A me questo sembra uno spunto di riflessione. Quanta gente conosce i giocatori al di fuori dei tifosi più accaniti? Possibile che Sanikidze e McCalebb non siano stati votati nel quintetto iniziale? Vuol dire che i loro sostenitori sono pochi o (nella migliore delle ipotesi) distratti. In ogni caso, male. Questo fatto, secondo me, la dice lunga sulla popolarità di questo sport (anzi, di questo campionato) che pare interessi sempre meno alle persone (di certo La7 non l’ha spostato su La7d per autolesionismo).

Un altro problema che mi sentirei di segnalare: dei 14 giocatori della Nazionale inizialmente convocati da Simone Pianigiani per questo All-Star Game, solo 3 segnano almeno 10 punti a partita (Hackett 11.3, Poeta 11.0, Mancinelli 10.0). Alessandro Gentile poco sotto (9.5), ma va fatto un discorso a parte: segnava 12.8 punti di media a Treviso giocando 27.6 minuti, da quando è a Milano ne gioca 19.8 segnando 6.8 punti a partita.

Ad ogni modo abbiamo pochi giocatori che fanno canestro. Questo mi pare il problema più grosso di tutti. Prima dei dati Auditel, prima dei visti, prima degli arbitri, prima di ogni altra cosa bisogna guardare quanti giocatori sono in grado di fare la differenza ad alto livello. E quanti sono in grado di fare canestro. Pare banale, ma non ne abbiamo così tanti.

Bisogna intervenire qui, e subito. E non mettendo paletti ai professionisti, ma investendo di più e meglio nei settori giovanili. Servono palestre, sale pesi, foresterie, serve la volontà di fare quello invece di prendere uno o due giocatori in più. E creiamo un campionato ad hoc. Come il campionato Espoirs francese, come il Sub-20 spagnolo. Che i migliori giochino tra i migliori, altrimenti non crescono. Chi lo fa trae benefici (anche) da questo. Copiare le cose buone non è peccato.

Pietro

Le grasse e amare cifre di Marques Green

La Sidigas Scandone Avellino, per i non avvezzi, è una formazione che milita nel campionato di Serie A di basket. Una squadra con pochi(ssimi) mezzi economici, reduce da diverse stagioni di difficoltà da questo punto di vista, ottenendo qualche tempo fa un inaspettato e prestigioso traguardo sportivo (la vittoria in Coppa Italia nel 2008 e la qualificazione alla Eurolega), e attualmente tra le migliori interpretazioni possibili del concetto di “andare oltre i propri limiti”. Da pochi giorni ha perso un altro pezzo, l’italo-belga Dimitri Lauwers, da troppo tempo girano voci circa l’instabilità economica della società.

Bene, in questo contesto, non certo facile, l’allenatore veneto Frank Vitucci fa miracoli con pochissimo materiale umano a disposizione. A dargli una mano cospicua ci pensa il playmaker Marques Green, 165 cm (ufficiali) di bontà.

Consideriamo alcune cose: all’inizio della stagione la squadra perde i due lunghi titolari. Il polacco Szewczyk se ne va a Venezia, lo statunitense Troutman gioca (e perde) la prima partita in casa di Montegranaro e poi fugge via, a Monaco di Baviera. I due vengono sostituiti con lo sloveno Jurica Golemac e lo statunitense Ronald Slay, due elementi di esperienza ma di qualità inferiore (soprattutto considerata la continuità di rendimento), oltre che di diverse caratteristiche. La squadra, di fatto, deve tutto ciò che ha (a oggi 12 vittorie in 22 partite, ottavo posto e quindi zona playoff) al suo playmaker (nell’ultima partita degli 11 uomini a referto quattro non hanno giocato e uno è andato in campo solo 3 minuti).

La situazione si è fatta più pesante nelle ultime settimane, quando il “cambio” di Green, Valerio Spinelli, si è infortunato (solo 6 minuti in campo dall’11 dicembre a oggi).

E allora ecco che il rendimento di Green, a dispetto del debito di statura e dell’inevitabile fatica, si è regolato di conseguenza. Cioè così:

Delle ultime 12 partite ne ha giocate per intero 7, in due è stato in campo 39′ su 40′ e in un’altra – considerato il supplementare – ben 44′ su 45′ (in totale 470 minuti giocati su 485).

19.2 punti di media (15.7 stagionali) con una sola gara senza raggiungere la doppia cifra (6 contro Teramo con 2/6 al tiro).

5.0 rimbalzi di media (contro 4.5 in campionato. 60 in totale, cioé il 60% del fatturato stagionale).

6.8 assist di media (contro 6.4) e 2.9 palle recuperate (2.5).

Addirittura salgono anche le percentuali al tiro, nonostante la fatica: tira meglio da due (44.8% contro il 41.5% stagionale), e da tre punti (44.3% contro 40.7%), meno bene nei tiri liberi (81.8% contro 83.3). Sale anche il dato sulle palle perse (4.4 contro 3.6), e qui la stanchezza c’entra più di qualcosa.

Sale, però, anche la valutazione complessiva (indice che tiene conto delle voci statistiche positive e negative) che fa segnare un 21.7 di media contro il 17.8 stagionale.

Occhio anche al dato più significativo: di queste ultime 12 partite Avellino ne ha vinte 7, perdendo a Milano (per un punto), Varese, Bologna, Sassari e in casa contro Cantù. Tutte squadre che oggi sono davanti alla Sidigas in classifica, anche se di poco.

Occasioni perse per la griglia dei playoff? No, logica. Avellino non può fare più di così, nelle sue condizioni ha fatto anche troppo. Voi, alla luce di queste cifre, trovereste il coraggio di chiedere a Green di fare più di così?

Vi chiederete il perché del titolo, perché queste cifre sono sia grasse che amare. Perché con una squadra migliore, magari, ogni vittoria non sarebbe un miracolo né per Green, né per Avellino: sarebbe solo una tappa per coltivare ambizioni. Così, invece, è solo lotta estrema per la sopravvivenza.

Pietro

Prima dei campionati, riformate il sistema dei club

Ero alla serata organizzata per il “Premio Gianni Brera”, lunedì scorso, per applaudire la mia collega di Eurosport Stefania Bianchini (QUI trovate tutto su di lei, merita) che ha ricevuto una menzione in ragione del suo impegno a favore del pugilato femminile, che dalle prossime edizioni dei Giochi diventerà ufficialmente una disciplina olimpica.

Il premio vero e proprio, allo sportivo dell’anno (per il 2011, ovviamente), questa volta non è andato a una individualità o a un club, ma addirittura al CONI. Questo perché si intendeva premiare tutto lo sport italiano, attraverso la persona del Presidente Petrucci.

Posto che premiare uno sport che spesso si autodenuncia per la carenza di risorse, organizzazione, progettualità e ancora più drammaticamente di strutture è una scelta che si presta a qualche discussione (“I risultati ottenuti sono merito delle Federazioni“, ha detto Petrucci. Non credo sia sempre così), parliamo nello specifico di un tema caro al suddetto Petrucci: il basket.

Disse, sempre quella sera: “Fate le riforme, prendete decisioni, fate degli scontenti, ma fate“, il suo pensiero compresso e rivolto al Consiglio Federale che si è svolto questo sabato a Roma.

La discussione principale riguardava e riguarda la riforma dei campionati. Quello che conosciamo oggi è un dato parziale, nel senso che è stata messa nero su bianco qualche idea che necessita però di stabilire le proprie modalità di attuazione. le idee sono:

Primo campionato (per ora eliminiamo le diciture A, Legadue, ecc.) da 16 squadre entro il 2014. Secondo campionato diviso in due gironi da 16 squadre ciascuno a partire dal 2013, e sempre da quell’anno terzo campionato diviso in quattro gironi da 16 squadre ciascuno. Un totale di 112 club coinvolti, dei quali però solo 16 rimarrebbero allo stadio del “professionismo”, mentre tutto il resto tornerebbe ad essere accorpato ai “dilettanti”. Di questo parlerò, magari, una volta che saranno definiti per bene i parametri di funzionamento.

Dunque, parto dalla considerazione che gli atleti che giocano oggi in DNA (il terzo campionato attuale) sono forse dei golfisti o dei tennisti dilettanti, ma giocano a basket per lavoro, quindi per professione. E siccome le parole hanno un senso o dovrebbero averlo, questo mi sembra un punto fondamentale.

Perché prima di stabilire quante squadre retrocedono, quanti americani si possono prendere e quanti gironi si fanno, bisognerebbe a mio parere individuare le problematiche, le necessità e le criticità da superare nella vita dei club che poi questi campionati li devono far funzionare, devono accogliere, gestire e pagare questi atleti “dilettanti”. E non solo loro.

Credo si parli troppo poco di tutti quelli che compongono il club ma non vestono in tuta (o almeno, non perché sotto hanno la tenuta da gioco) e non vanno a giocare. Una seria organizzazione di un mondo di professionisti chiamati dilettanti per pagare meno tasse (perché poi questo è il problema, fondamentalmente) dovrebbe farsi carico della responsabilità di verificare che chi lavora nei club lo faccia secondo le giuste condizioni, per poter offrire un servizio migliore agli atleti, ai dirigenti, al pubblico.

Credo si parli troppo dei soldi che prendono (o, a volte, dovrebbero prendere) i giocatori e gli allenatori e troppo poco dei soldi che prendono (o, un pò più spesso, dovrebbero prendere) segretari/e, addetti/e stampa, addetti/e al marketing, al merchandising, fornitori, service, eccetera. Tante persone che conosco hanno lavorato mesi e mesi gratuitamente o quasi perché appassionate: non esiste. Nell’ambiente sportivo la passione dovrebbe essere un “plus”, non una fregatura. Che siccome sei appassionato allora tanto lo fai perché ti piace. Può anche non piacermi. Ma lavorare deve essere un lavoro (perdonate la ripetizione) anche quando c’è da riconoscerlo, professionalmente, finanziariamente e giuridicamente.

Credo, fortemente, che un insieme di club che formano una lega (e quindi organizzano un campionato, con annessi e connessi) debbano curarsi di chi entra a far parte della famiglia, quali risorse intende investire e come intende coprire queste somme; credo, fortemente, che in ogni club ci debbano essere delle figure specifiche per ogni tipologia di problema da affrontare, e che qualora non ci fossero vadano formate. Credo, fortemente, che invece ci siano moltissime persone obbligate dalla forza delle cose a fare molto di più di quello che dovrebbero, a volte anche di quello che potrebbero, generando altri problemi nel tentativo di dare delle soluzioni.

Credo, fortemente, che una Lega debba essere intesa come una casa comune: comune, però, ma non che si possa entrare e uscire a piacimento. Entri se ci puoi entrare, se hai il vestito giusto e se ordini devi poter pagare il conto. Perché come non è giusto prendere un giocatore se non si ha la certezza di poter onorare tutti gli impegni (e di esempi negativi, nelle ultime stagioni, ne abbiamo avuti), credo sia ancora meno giusto pensare “solo” ai giocatori e non rendersi conto che un club si regge su individui, talenti, lavoratori (famiglie) che prestano volentieri la loro passione perché credono sia una cosa bellissima. Non vale, allora, ripagarli con qualche centinaia di euro e dei rimborsi spese. Sono persone che meritano un’altra cosa: meritano di dire “Vado al lavoro”. E che sia una cosa seria.

Pietro

Conte e Allegri non se le mandano a dire

Per definire la favorita per lo scudetto in questo campionato di calcio, gli allenatori Antonio Conte (Juventus, unica ancora imbattuta) e Massimiliano Allegri (Milan, campione d’Italia) hanno dato vita a dei sottilissimi mind-games ormai da qualche settimana. E così scoppia la polemica, perché nessuno dei due ci sta a cedere. Nessuno dei due vuole dire di essere il favorito per vincerlo, sto campionato. Anzi, se glielo si dice quasi si offendono. Tutto questo è molto appassionante.

Ecco, per i più disattenti, una breve sintesi di questo duello ad altissima tensione:

Pietro